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Un incontro con Galit Atlas. Il resoconto dell’intervista all’autrice de “L’eredità emotiva”

La Dott.ssa Roberta Cimaglia, la Dott.ssa Lara Scali e il Prof. Giuseppe Tropeano intervistano Galit Atlas, colpiti dal suo ultimo libro “L’eredità emotiva”

Di Roberta Cimaglia, Guest

Pubblicato il 11 Apr. 2023

Aggiornato il 29 Mag. 2023 16:05

Nel Gennaio 2022, coloro che hanno partecipato al congresso “La Personalità in Psicoterapia” hanno avuto il piacere di ascoltare la Prof.ssa Galit Atlas su “Personalità e trauma”, ovvero un intervento sui solchi che il trauma scava nella nostra personalità.

 

 La Prof.ssa Atlas è carismatica, interessante e affronta tematiche che toccano le fantasie di platee amplissime. È quindi stato facile ricordarsi di lei quando, a un anno di distanza, è stato pubblicato per Cortina Editore, il suo ultimo libro “L’eredità emotiva”. È consuetudine del nostro piccolo gruppo di lavoro (la Dott.ssa Roberta Cimaglia, la Dott.ssa Lara Scali e il Prof. Giuseppe Tropeano) riunirsi spesso nel salotto romano dell’Hotel Locarno, a discutere di libri o articoli che hanno suscitato in noi particolare interesse.

Dopo aver letto “L’eredità emotiva”, abbiamo ritenuto di contattare l’autrice per proporle un’intervista su quest’opera. La nostra fantasia si è soffermata a lungo sull’immagine di copertina: una donna di spalle, una Rückenfigur, che guarda verso un deserto silenzioso; forse sotto un viadotto desolato, forse sotto l’ala di un aereo dal quale è sbarcata senza bagagli.

La donna ritratta è la Prof.ssa Atlas? Perché siamo così suggestionati dall’atmosfera che ci introduce al libro?

Prof.ssa Atlas: Anche per me è molto interessante, il libro è stato tradotto in 25 paesi, l’Italia è stato uno dei primi assieme a Israele (…). Capisco che ci sono delle implicazioni culturali e gli editori spendono molto tempo per scegliere la copertina giusta. La copertina israeliana è molto più intensa di quella americana e così quella italiana. Voi cosa ne pensate? Se un libro ha successo in una cultura è perché dice qualcosa alla cultura a cui si rivolge. Penso che l’Italia sia uno di questi paesi perché gli italiani sanno gestire emozioni profonde. Le idee principali sono universali, ma ogni cultura le processa in modo diverso.

Con la sua attenzione alla cultura in senso antropologico, Galit Atlas dimostra di essere una psicoanalista che interpreta e vive la modernità. Infatti, nonostante i nobilissimi lasciti degli studi sul trauma generazionale, che annovera precedenti illustri come Felicity de Zulueta, la Atlas propone una visione innovativa di Ferenczi, ovvero l’eredità emotiva dei traumi irrisolti delle generazioni precedenti.

Prof.ssa Atlas: Molti dei concetti e idee di Ferenczi sono usati nella psicoanalisi contemporanea e psicoanalisi relazionale. Uno dei miei precedenti libri tecnici è “Dialogo drammatico” e Ferenczi dice che la psicoanalisi è un dialogo teatralizzato. Io faccio riferimento a Ferenczi diverse volte, riportando alla vita le sue idee, includendo l’importanza che lui dà al trauma, principalmente al trauma sessuale. Uno degli avanzamenti maggiori della psicoanalisi è l’intersoggettività, ovvero la bidirezionalità di come il mondo interno è permeato dal mondo esterno. Una relazione di reciproca influenza che va avanti e indietro.

E questo è già stato detto da Ferenczi in passato! Il trauma proviene dall’esterno e poi viene processato, ci impatta. Noi possiamo parlare di femminismo, attivismo sociale … noi parliamo del mondo esterno e di come questo ci traumatizza e impatta su di noi.

Un altro concetto importantissimo per ogni psicoanalista contemporaneo è la regolazione emotiva nella psicanalisi, l’affetto!

Inoltre, Ferenczi ci ha dato l’importanza dell’affetto e l’importanza del controtransfert. Il controtransfert è una risorsa per i terapeuti, non solo una resistenza. Quello che ha aggiunto è che nel Transfert -Controtransfert c’è un insight analitico, oltre che dell’empatia dell’analista. In passato non era professionale parlare della propria emotività. L’onestà, la sincerità, l’emotività sono concetti portati alla luce da Ferenczi.

Dott.ssa Scali: Mi fa pensare alla sua intervista con Dani Shapiro, dove dicevate che adesso possiamo parlare del trauma perché c’è stato un cambiamento culturale. Attualmente siamo a nostro agio con argomenti che all’epoca di Ferenczi erano troppo disturbanti. Ci vedo la presenza della rimozione per difenderci da contenuti troppo toccanti.

Prof.ssa Atlas: E anche la pandemia ha cambiato le cose, ci ha aiutato a essere pronti. Adesso noi possiamo parlare della realtà esterna, il fuori-dentro del trauma. Inoltre c’è meno vergogna da parte delle vittime, possiamo parlare del razzismo e della schiavitù. Anche il filone degli studi sull’isteria ha patologizzato delle donne che erano state effettivamente abusate, e che hanno in realtà dimostrato una reazione sana al loro abuso. In questo senso, la patologia è fuori dal loro sé, è l’ambiente che è malato. Parlando in termini solo ortodossi, ci sarebbe un enorme gap fra la psicoanalisi e la nostra società contemporanea.  

Allo stesso tempo lo stile comunicativo di Galit Atlas consente agli astanti di immedesimarsi completamente nelle sue narrazioni, tanto da sentirsi all’interno della stanza dove va in scena il “Dialogo drammatico” fra Analista e Paziente.

Dott.ssa Cimaglia: Sono rimasta molto impressionata dal caso di Guy e ho avuto i “brividi” mentre lo ascoltavo durante il meeting “La personalità in psicoterapia- Personality summit” del 2022, supervisionato dal Prof. Vittorio Lingiardi.

Prof.ssa Atlas: Certamente, la sicurezza è l’inizio di una relazione terapeutica. Direi che è un cambiamento della relazione terapeutica, più che il suo inizio. Parlando di dialogo drammatico, nelle prime sessioni, io sono spaventata da G. perché lui parla con me in un modo molto profondo, lo chiameremmo identificazione proiettiva. Allo stesso tempo, io potrei essere suo padre abusante, invasivo, qualcuno che lo fa sentire attaccato, invaso e abusato, per questo mi fa sentire ciò di cui lui ha paura. 

Quando lui si toglie il cappotto mi dice che c’è una speranza che il terapeuta sia buono, non troppo freddo, non troppo caldo, ed è simbolico. Non è caldo (intrusivo), non è freddo (deprivante). 

In quel momento sono chiamata a ricoprire un nuovo ruolo, ovvero la madre che lui avrebbe voluto avere. Nel transfert non sono solo la madre reale, ma anche la madre desiderata, quella immaginata nella nostra mente. Sempre nel transfert, io divento genitore ideale, perché c’era già questa madre ideale nella sua mente. Non credo che molti ne parlino. Non credo che i pazienti che non hanno mai sognato un genitore ideale possano portarlo nel transfert come madre transferenziale.

Nelle relazioni create con pazienti abusati, dove noi siamo nuovi oggetti d’attaccamento, il trauma può essere lasciato fuori dalla stanza. Guy era dissociato, quindi lui poteva finalmente avere una relazione con un genitore buono, ma il trauma non può essere pienamente elaborato.

Inoltre la formazione di Galit Atlas le consente di trattare i traumi dei suoi pazienti grazie agli strumenti acquisiti con un training in sessuologia clinica. Il tema del piacere si interseca con quello delle ferite subite, mentre la terapeuta regola la “temperatura” muovendosi fra sessualità e trauma, vita e morte.

Possiamo considerare il piacere come un antidoto al trauma?

Prof.ssa Atlas: Questo riguarda la nostra mente, ma anche la nostra cultura: alcune culture non possono parlare di sesso se non come una cosa sporca. Il trauma è correlato alla relazione dialettica fra vita e morte. Non è inusuale per i nostri pazienti, che sono in lutto, o dopo un trauma, o durante la guerra. Noi siamo presi dall’illusione che possiamo essere riportati alla vita, che possiamo sopravvivere attraverso l’erotismo. 

Quando Eve faceva sesso con Josh aveva degli occhi morti, voleva riparare le umiliazioni, le sofferenze. Voleva un nuovo futuro, anche se noi sapevamo che lei avrebbe ottenuto l’opposto. Nonostante i suoi tentativi, anche lei era diventata una madre morta, ma la sua fantasia inconscia era che tutto poteva essere riparato. Ma era una ripetizione, non una riparazione. 

Quando i pazienti sentono che noi siamo vivi, e autenticamente nella relazione, loro possono portare la sessualità nella terapia, e quella è la parte costruttiva dell’uso della sessualità. D’altro canto, c’è anche la parte mortifera, dove tutto potrebbe rompersi, la sua famiglia potrebbe rompersi, ed è per questo che viene in terapia.

Attraverso le self-disclosure che la Prof.ssa Atlas dissemina nel suo libro, si entra in contatto con i vissuti della sua cultura d’origine, quella ebraica. L’elemento antropologico permea la stanza d’analisi, creando un ponte fra il trauma come esperienza collettiva e l’esperienza personale del trauma transgenerazionale.

Come psicoterapeuti cosa possiamo imparare dalla cultura ebraica in termini di eredità emotiva?

Prof.ssa Atlas: La psicoanalisi ha cominciato gli studi sulla trasmissione trans-generazionale del trauma dopo l’olocausto. Molti analisti sopravvissuti emigrarono in America portando con sé il discorso sull’olocausto e sulla persecuzione. Nel ‘67 la società psicoanalitica ha organizzato il primo congresso su questo argomento, dal titolo “La traumatizzazione psichica delle catastrofi sociali”, e ci furono dei contributi di famiglie e sopravvissuti. È così che è cominciato questo filone di ricerca…

Ricordo a questo proposito una signora la cui nonna era una sopravvissuta ad Auschwitz. Questa nonna era solita stringerle la mano in un certo modo, che lei ha ritrovato nel modo di stringere la mano dei suoi figli. Ma questa stretta era molto forte, piena di paura e senso di protezione, forse troppa protezione. Era la stretta della nonna traumatizzata che lei riportava sui suoi figli. 

 Negli anni ’90, è cominciato il filone di ricerca sull’epigenetica, ma molti di quegli scienziati erano la seconda generazione di ebrei traumatizzati. I ricercatori sono cresciuti in condizioni simili alle mie (ovviamente io ho il mio trauma, che appartiene all’esperienza della mia famiglia), in comunità prevalentemente ebraiche e sentivano che c’era qualcosa dentro di loro che non avevano vissuto direttamente. 

Nei traumi sociali, come la schiavitù, e altri attacchi razzisti a minoranze etniche, o in altri tipi di trauma, noi avvertiamo qualcosa interiormente ed è lì che cominciamo a ricercare come scienziati o clinici.

Nel caso di Dana, descritto nel capitolo 8, i lettori troveranno altri punti d’intersezione fra la biografia dell’autrice e le storie di vita consegnate dai pazienti alla terapeuta. Questo incontro fra i lutti familiari di Dana e la nascita di Mia, terza figlia dell’autrice, consente di “Pensare l’impensabile”.

È lecito ritenere che il caso di Dana ci parli di come un oggetto morto possa “rinascere” all’interno di una relazione terapeutica?

Prof.ssa Atlas: Questa domanda ci porta di nuovo alla relazione inconscia fra vita e morte. Io non uso termini troppo tecnici nel libro, ma è chiaro che questo sia il capitolo che affronta il tema della dissociazione. Quest’ultima avviene su più piani, fra i quali la mia dissociazione. Quando la paziente mi dice di aver perso il fratello, a quel punto diventa mia madre, la quale ha a sua volta perso prematuramente suo fratello. Ho impiegato molto per capire perché in quel momento fossi dissociata, ovvero per capire che mia madre aveva lo stesso vissuto di Dana.

Ho lavorato sul significato e sui benefici della dissociazione, e sul modo in cui essa ci aiuta a sopravvivere. Ho sentito di essere la terapeuta giusta per Dana, perché abbiamo colluso assieme sulla dissociazione legata al fratello. Non era un segreto in casa mia che mia madre avesse perso un fratello, in casa c’erano le sue foto. Ma in un certo senso era come se fosse un segreto, perché mia madre si turbava troppo nel parlare di lui. Negli anni abbiamo taciuto questo argomento e quindi ce ne siamo dissociati. 

C’è una nascita alla fine del capitolo. In un certo senso, l’arrivo di mia figlia Mia riporta Dana alla vita, così come lei mi scrive nella mail. Forse il trauma l’aveva congelata. Anche molti anni dopo (…) era ancora una piccola bambina ferma al momento del trauma. Alla fine, lei riesce finalmente a riprendere la sua vita, che era fissata al giorno della morte del fratello.

Prof. Tropeano: Le chiederei una velocissima supervisione, in merito a un impegnativo cammino terapeutico. Parlo di una ragazza italiana, di fine intelligenza e cultura, che chiamerò Abigail. Nome biblico, scelto non a caso, avendo lei deciso di convertirsi dalla religione cattolica a quella ebraica. Questo percorso ha condizionato radicalmente la sua vita, portandola a risiedere da Londra a Madrid, per seguire gli insegnamenti rabbinici. Di conseguenza, la paziente mi chiese un supporto psicoterapico e psichiatrico svolto prevalentemente on-line.

Alla domanda su quali fossero le ragioni più profonde della sua conversione, la paziente ha risposto in maniera molto concisa: “Desidero essere accolta in una comunità inclusiva. Per la consapevolezza della comunità ebraica di essere portatrice di profonde sofferenze che “richiamano” le mie personali sofferenze. Per l’intenso desiderio di conoscere la verità più profonde”.

Nella biografia della paziente risaltano un rapporto altamente conflittuale con la madre, persona definita “squilibrata”, e di conseguenza il divorzio segnato dall’ostilità fra i genitori. Nel suo tentativo di riparare a un’esistenza travagliata mi sono spesso chiesto se il vero psicoanalista/terapeuta fossi io o, piuttosto, il rabbino di riferimento di Abigail. 

Attualmente si trova in terra d’Israele, in attesa di ricevere il suo nome ebraico. Ancora adesso mi chiedo: “E’ possibile che la comunità ebraica offra un aprés coup, dove poter risignificare le sue esperienze traumatiche?”.

Prof.ssa Atlas: Non ho sufficienti informazioni per analizzare questo caso, ma posso dire che la mia fantasia è che l’analisi avviene con il Rabbino, perché la paziente sta cercando una famiglia. La famiglia è chiaramente idealizzata, e molto specifica: una famiglia che capisce il trauma, che vuole andare alla verità delle cose, inclusiva… 

Ogni famiglia ha i suoi problemi, anche quella del Kibbutz, ma per lei non è un problema. Lei vuole cambiare nome, perché vuole essere parte della famiglia.

A seguito dell’intervista alla Prof.ssa Galit Atlas le nostre fantasie di terapeuti sono tutt’altro che quietate. Al contrario, i vissuti familiari dei tre intervistatori riemergono in una nuova ottica, foriera di innovativi strumenti terapeutici. Secondo lo stile della Atlas, il materiale del terapeuta si armonizza fra il rispetto del metodo e squisite improvvisazioni che regolano di continuo il variare della temperatura nel setting analitico, dove è possibile piangere e ridere con i pazienti.

 

Articolo di : Roberta Cimaglia, la Dott.ssa Lara Scali e il Prof. Giuseppe Tropeano

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Atlas G. (2022). “L’eredità emotiva”. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Atlas G. (2017). “Dramatic Dialogue”. Routledge, London.
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