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L’esperienza dell’adozione nei bambini istituzionalizzati: i correlati neurobiologici

L’esperienza adottiva può rispecchiare profonda sofferenza nei bambini istituzionalizzati perchè possono aver vissuto in contesti abusanti e/o trascuranti

Di Cristi Marcì

Pubblicato il 18 Apr. 2023

Grazie a uno studio condotto a partire dal 2001 da un gruppo di ricercatori dell’Ospedale dei bambini di Boston della Harvard Medical School, è stato possibile documentare e analizzare le alterazioni che si producono nei circuiti cerebrali di bambini istituzionalizzati negli orfanotrofi di Bucarest.

Introduzione

 L’infanzia rappresenta un periodo di grande importanza, durante il quale alcune funzioni come la comunicazione e l’acquisizione delle capacità di autoregolazione emotiva, riflettono uno dei processi fondamentali di sviluppo. Infatti attraverso la comunicazione visuo-spaziale, uditivo-prosodica e tattile-gestuale, sia il caregiver che il bambino imparano reciprocamente ad apprendere la struttura ritmica dell’altro (Papousek, 1995). Un vero e proprio scambio traducibile in un processo di co-creazione, che dà vita sia ad una interazione reciproca che ad un processo di adattamento sempre più graduale. Proprio attraverso le comunicazioni affettive, (come il contatto fisico), la madre si sintonizza psicologicamente con il bambino (Kohut, 1971). Non solo valuta le espressioni non verbali degli stati di attivazione interna, ma anche gli stati affettivi del bambino stesso, che verranno regolati e soprattutto ricambiati. Tuttavia questo scambio non sempre risulta fluido e lineare, e la rottura dei legami di attaccamento può provocare una disfunzione inerente sia le capacità di autoregolazione sia l’omeostasi dell’organismo (Tronick, 1989).

Da una prospettiva psicobiologica l’attaccamento è stato definito da Schore (2000), come “regolazione interattiva degli stati di sincronicità di tipo biologica”. Grazie ad essa è dunque possibile notare e comprendere come la sincronizzazione affettiva e la riparazione interattiva, nonché co-costruttiva, siano i capisaldi che costituiscono le basi dell’attaccamento e delle emozioni connesse ad esso (Oliverio, 2002). Le prime relazioni rappresentano infatti il punto centrale in grado di favorire un sano e adattivo sviluppo del bambino, sotto due importanti profili: quello cognitivo e quello affettivo. Nondimeno, nel loro insieme, consentono la fioritura di alcune funzioni psichiche come ad esempio il senso di Sé, l’autoconsapevolezza, le strategie di regolazione emotiva, le modalità con cui pensare, conoscere e percepire la realtà; funzioni che con il passare del tempo si sviluppano, maturano e rappresentano la lente con cui il soggetto inizierà a percepire sé stesso e il mondo circostante.

Prendendo dunque in esame le prime relazioni è possibile comprendere come esse diano vita ad uno stile di interazione che in alcuni casi può divenire disfunzionale e disadattivo. Spesso infatti esperienze negative quali maltrattamenti, abusi e trascuratezza emotiva, possono determinare gravissime conseguenze inerenti sia lo sviluppo psicologico che quello neurobiologico (Schore, 2003). Nel panorama dell’adozione si traducono in uno o più eventi traumatici che, se ripetuti e costanti, prendono il nome di “trauma cumulativo“ (Khan, 1963). Il trauma si riferisce non solo all’evento in sé, ma anche all’intensità con cui esso viene a presentarsi dinanzi al soggetto.

I correlati neurobiologici delle esperienze traumatiche

Col termine trauma si designa un’esperienza che in un breve lasso di tempo apporta delle modifiche somatopsichiche, che in futuro, se non elaborate in modo adattivo, possono innescare dei comportamenti e degli stili di risposta disfunzionali a determinati eventi (Bromberg, P. M., 2006). Evidenziando dunque un profilo psicologico caratterizzato non solo da una bassa autostima, ma anche da una fragilità psichica, che se non identificata e supportata può sfociare in un quadro psicopatologico.

L’esperienza adottiva (Oliverio, 2002) se non pienamente accolta ed elaborata può rispecchiare una condizione di profonda sofferenza, poiché possono essere presenti esperienze di contesti abusanti e/o trascuranti, come ad esempio la realtà degli orfanotrofi. Secondo Ross (Ross, C. A. 2000), il trauma evolutivo apre le porte ad un ventaglio di possibili fenomeni psicopatologici, infatti secondo l’autore più si è esposti a contesti relazionali abusanti e trascuranti durante l’infanzia, maggiore è la possibilità di sviluppare un disturbo mentale. Infatti, il bambino, acquisendo schemi cognitivi disfunzionali, interiorizza una percezione ed una rappresentazione di sé e degli altri disadattiva.

Più nello specifico si può assistere ad una ridotta capacità da parte del soggetto di identificare, rappresentare e monitorare i propri stati corporei, mentali, affettivi e comportamentali, i quali a livello somatico riflettono un cablaggio disfunzionale/neurobiologico che rischia di creare una lente attraverso la quale guardare la realtà esterna e i propri vissuti interni, in maniera non del tutto adeguata; spesso difficile da adoperare e a volte restrittiva e/o limitante sotto un profilo relazionale (Caretti, 2007).

Traumi di natura interpersonale precoci possono costituire dei “disorganizzatori psichici dell’esperienza” (Schimmenti, A., 2008) connessi con sistemi rappresentazionali, che portano a concepire il mondo in maniera minacciosa, ostile e difficile da fronteggiare (Fonagy, 2001). Dunque, il trauma nell’infanzia può portare ad esiti di natura psicopatologica influenzando in varia misura il meccanismo di attaccamento, la biologia, la regolazione affettiva, la dissociazione, il controllo comportamentale, le capacità cognitive ed il concetto di Sé.

Questa concatenazione di eventi rappresenta dunque non solo l’esito di esperienze traumatiche, ma anche l’ingresso verso l’esordio di disturbi mentali come la depressione (Bifulco, 1998), i disturbi del comportamento alimentare, le dipendenze da sostanze, il disturbo borderline (Fonagy, 2003) e i disturbi dissociativi (Nijenhuis, 2000).

A sostegno di quanto descritto sinora, lo psichiatra Van Der Kolk (2005), ha affermato come l’esposizione cronica ad una o a più forme di trauma a livello interpersonale (come l’abbandono, l’abuso e la violenza fisica) facciano emergere schemi di risposta disfunzionali a determinati eventi, che si possono riscontrare a più livelli. Infatti, ad essere inficiati sono il livello emotivo, somatico, comportamentale, cognitivo e relazionale; un insieme di fattori che nel loro insieme determinano un’alterazione delle rappresentazioni del Sé e degli altri e intaccano il modo di vedere la realtà circostante ed attribuirgli un significato.

La struttura cerebrale dei bambini istituzionalizzati: il Bucharest Early Intervention Project

 A sostegno di quanto introdotto e descritto, un ulteriore contributo deriva da uno studio condotto a partire dal 2001 da un gruppo di ricercatori dell’Ospedale dei bambini di Boston della Harvard Medical School, grazie al quale è stato possibile documentare e analizzare le alterazioni che si producono nei circuiti cerebrali di bambini vissuti negli orfanotrofi di Bucarest. Ben descritto dalla figura di Bottaccioli (2005), l’autore ha ampiamente introdotto non solo gli obiettivi stessi dello studio, bensì i cambiamenti biochimici e neurobiologici, che nel cervello dei bambini istituzionalizzati hanno tracciato un’architettura ben precisa. Nonché una modalità di autoregolazione emotiva e fisiologica che sulla base di esperienze pregresse rischiano dunque di ripercuotersi sul presente.

Iniziato nel 2001, lo studio faceva parte del progetto “Bucharest Early Intervention Project”, che ha coinvolto ben 6 orfanotrofi della capitale romena (Charles, 2007), tre Università statunitensi con capofila Harvard, il cui obiettivo è stato quello di esaminare da un lato gli effetti della istituzionalizzazione infantile sullo sviluppo cerebrale e comportamentale e dall’altro verificare se l’affidamento familiare possa determinare il ripristino dei medesimi danni cerebrali. Secondo quanto riportato da Bottaccioli (2005), in un’intervista a La Repubblica, le caratteristiche dello studio si sono rivelate davvero uniche, “in quanto 136 bambini attorno ai due anni di età che stavano in orfanotrofio dalla nascita, o comunque da pochi mesi dopo la nascita, sono stati divisi in modo casuale in due gruppi, uno inviato in affidamento, l’altro rimasto invece in orfanotrofio. Nondimeno lo studio ha previsto un gruppo di controllo formato da bambini di Bucarest della stessa età che vivono in famiglia”. Come riportato dall’autore, tutti i bambini sono stati osservati per circa 8 anni ad intervalli regolari, monitorando il loro sviluppo intellettivo e comportamentale fino ad un’età compresa tra i 9 e gli 11 anni. Valorizzando sempre più una visione olistica inerente sia lo sviluppo psicobiologico sia quello cognitivo. “Infine, un campione per ognuno dei tre gruppi è stato selezionato per essere sottoposto a una minuziosa ed estesa indagine cerebrale realizzata con la tecnica della Diffusione del tensore. Questa tecnica, in sigla DTI (immagini di diffusione del tensore), consente di visualizzare i fasci di fibre di materia bianca che connettono le aree cerebrali tra di loro”. Grazie ai risultati emersi è stato possibile notare come i bambini che avevano trascorso una parte della propria vita in orfanotrofio avessero riportato modificazioni strutturali e funzionali che coinvolgono diversi distretti cerebrali, tra i quali il corpo calloso. Quest’ultimo infatti ha inoltre permesso di constatare quanto il proprio background esperienziale sia in grado di ripercuotersi in un possibile esordio psicopatologico e comportamentale, accompagnato da eventuali deficit cognitivi ed emotivi, che spesso si riscontrano nei soggetti abbandonati. Traumi di natura interpersonale precoci possono dunque contribuire a far emergere veri e propri “disorganizzatori psichici” dell’esperienza, (Schimmenti, 2008) connessi con sistemi rappresentazionali, che portano a concepire il mondo in maniera minacciosa, ostile e difficile da fronteggiare (Fonagy, 2001).

Viceversa, nei bambini in affidamento si è riscontrata una modalità di autoregolazione emotiva differente, meno disfunzionale ma soprattutto in grado di essere maggiormente gestita dal bambino.

Attraverso questo studio (Gallino, 2015) è stato possibile valorizzare sempre più il ruolo delle esperienze traumatiche non solo durante l’infanzia, quanto piuttosto nei contesti di abbandono e trascuratezza emotiva, che spesso si riscontrano negli orfanotrofi. Questi ultimi, infatti, riflettono a pieno titolo un luogo entro il quale diversi fattori non sempre risultano lasciare una traccia adattiva e promotrice di cambiamenti, ma al contrario descrivono una realtà dove l’infanzia sembra essere una tappa mai vissuta. E che tuttavia andrebbe riconquistata, esplorata e vissuta.

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Cristi Marcì
Cristi Marcì

Psicologo, Specializzando in Psicoterapia

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bifulco, A. e Moran, P. (1998), Il bambino maltrattato. Le radici della depressione nel trauma e nell’abuso infantile, Astrolabio, Roma 2007.
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