La conduzione di un colloquio che affronti con delicatezza e in modo aperto il tema “suicidio” facilita l’instaurarsi di un rapporto empatico con il paziente, fungendo da fattore protettivo.
I comportamenti suicidari
La letteratura scientifica (Ho et al., 2003; Pirkola et al., 2007; Kan et al., 2007) ha rivelato come il periodo successivo alle dimissioni ospedaliere sia estremamente delicato per un paziente ricoverato per tentato suicidio. Solitamente, tali individui sono presi in carico dal Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (S.P.D.C.) locale. Durante il periodo di ricovero, riuscire a comprendere l’intento suicidario in pazienti che hanno tentato il suicidio è un fattore cruciale al fine di effettuare un valido assessment del rischio. I gesti suicidari sono imprevedibili nella maggior parte dei casi, quindi una valutazione accurata dell’intento suicidario può risultare una procedura alquanto complessa.
Il termine “tentato suicidio” ha destato non pochi dubbi negli anni a causa della mancanza di una definizione che potesse descrivere correttamente l’agito. L’OMS ha definito tale fenomeno come atto intenzionale, non abituale e non fatale, svolto da una persona con l’intenzione di mettere fine alla propria vita (Suominen et al., 2004). In relazione a ciò, deve essere considerato l’intento che l’individuo pone nell’atto. Con il termine “intento” viene indicata la serietà o intensità del desiderio che il paziente possiede nel momento in cui decide di terminare la sua vita (Beck et al., 1974).
Valutare il rischio suicidario
Data la complessità del fenomeno, sono molteplici i fattori da considerare negli individui intenzionati a morire. Tuttavia, la presenza di lacune mnestiche, livelli elevati di agiti impulsivi e negazione dell’accaduto possono ostacolare una corretta valutazione del rischio suicidario durante il periodo di ricovero ospedaliero, estremamente importante per garantire una dimissione controllata e di conseguenza attuare attività preventive. Infatti, in alcuni studi (Bani et al., 2007) è stato osservato che durante il primo mese dalla dimissione dai reparti ospedalieri di Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, il rischio di suicidio è 200 volte più elevato rispetto alla popolazione generale nei pazienti. Ricerche internazionali (Luoma et al., 2002) hanno evidenziato che molto spesso il rischio che un paziente possa attuare condotte suicidarie non sia riconosciuto né in medicina generale né in altri contesti clinici. Difatti, è stato osservato che il 45% di coloro che tentano il suicidio hanno avuto almeno un contatto col proprio medico di medicina generale nelle 4 settimane antecedenti ad esso. A questo proposito, uno studio di Busch e colleghi (2003) indica che pazienti vittime di suicidio durante le cure o dopo la dimissione avevano negato di possedere ideazione suicidaria nei loro ultimi colloqui. A volte è l’efficacia del trattamento che, fornendo buoni risultati, fa pensare al paziente di essere in buona salute e di poter sospendere la cura, generando conseguenze gravi.
Dunque, gli accorgimenti da mettere in atto durante un ricovero dovrebbero considerare dapprima lo svolgimento di un colloquio clinico approfondito, che abbia come fulcro l’esplorazione dei vissuti interiori e delle credenze del paziente concatenate ai sentimenti di disperazione ed agonia esistenziale che lo hanno condotto all’ultima decisione, utilizzando anche appositi strumenti di valutazione. La conduzione di un colloquio che affronti con delicatezza e in modo aperto il tema “suicidio” facilita l’instaurarsi di un rapporto empatico con il paziente, fungendo da fattore protettivo (Michel et al., 2000; Schwartz et al., 2004; Jacobs et al., 2006).
Un’anamnesi completa ed una ricostruzione della storia recente e passata del paziente, nonché delle eventuali diagnosi cliniche e valutazioni psicosociali, è molto utile a fini preventivi, in quanto il 30-40% dei pazienti suicidi hanno già tentato il suicidio. Molto spesso, le persone che giungono a conclusioni anticonservative hanno sopportato una sofferenza psicologica protratta nel tempo, considerando infine il suicidio come unica via d’uscita (Pompili et al., 2008). Infatti, anche l’indagine su avvenimenti remoti può essere un fattore importante da considerare a fini preventivi. Ad esempio, la presenza di esperienze infantili avverse è associata al rischio 30 volte maggiore di tentare suicidio in coloro che le hanno vissute rispetto al non averle esperite (Centers for Disease Control and Prevention). Inoltre, espone a maggior rischio suicidario la presenza di una doppia diagnosi, per cui cogliere la presenza di una dipendenza o abuso di sostanze oltre che di una diagnosi psichiatrica o precedenti atti autolesivi è di fondamentale importanza. Anche la rilevazione di segni quali difficoltà di ragionamento, riferimenti al suicidio o all’assenza di speranza, bassa stima di sé, rabbia, agitazione, ipergeneralizzazione, senso di colpa, discontrollo degli impulsi e scarsa capacità di giudizio risultano essere indicativi.
Diagnosi e rischio di suicidio
Considerare i ricoveri un fattore di rischio per la morte a causa del suicidio è un elemento chiave della valutazione. Infatti, oltre a coloro che hanno una storia pregressa di tentato suicidio, le persone che soffrono di un disturbo psichiatrico posseggono un rischio 10 volte maggiore di morire per suicidio rispetto alla popolazione generale. Generalmente, è possibile distinguere una stima del rischio per ciascuna etichetta diagnostica. Ad esempio, il suicidio è la prima causa di morte tra i pazienti affetti da schizofrenia, con rischio attorno al 10%. In uno studio di Biack e colleghi (1985) è stato osservato che tre quarti delle morti per suicidio dei pazienti schizofrenici erano avvenute durante una fase attiva della malattia e circa metà entro tre settimane dalla dimissione dall’ospedale. In particolare, un paziente su 10 aveva sentito un ordine allucinatorio che gli imponeva di suicidarsi, mentre quasi due terzi presentavano anche una sindrome depressiva al momento della morte. Ulteriori evidenze scientifiche (Tondo et al., 1997) hanno mostrato come i pazienti ricoverati a causa di manifestazioni date da gravi disturbi affettivi abbiano una probabilità di suicidarsi del 15-20% maggiore rispetto alla popolazione generale. In questi pazienti, il rischio di una morte a causa del suicidio è massimo nelle settimane successive alla dimissione. Inoltre, l’interruzione del litio entro il primo anno dell’assunzione correla con un aumento del rischio suicidario che appare circa 16 volte maggiore (Tondo et al., 1997), nei pazienti affetti da disturbo bipolare il rischio è di 15 volte maggiore (Hawton & Fagg, 1988; Sakinofsky, 2000).
Un’ottica sistemica sulla prevenzione post-dimissioni
Alla luce di quanto esplorato, è possibile dedurre che al fine di ridurre il numero di suicidi post-ricovero occorre considerare variabili che vadano al di là della mera osservazione del paziente durante il periodo di degenza, quali il contesto socio-ambientale di reinserimento del paziente. Le relazioni importanti, che siano familiari o meno, dovrebbero essere coinvolte nella fase di gestione dei fattori di rischio in seguito alle dimissioni protette, al fine di coadiuvare il paziente nell’affrontare la quotidianità e nell’accompagnamento agli appuntamenti concordati con i Servizi territoriali di competenza. Infatti, l’impatto con il mondo reale al di fuori del reparto ospedaliero protetto potrebbe riacutizzare i pensieri disfunzionali presenti nella persona, gli stessi che lo hanno condotto nello stato di disperazione antecedente il tentativo di suicidio.