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Terapia Metacognitiva Interpersonale e disturbi alimentari: una proposta d’intervento

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) potrebbe essere un modello di intervento promettente nel trattamento dei disturbi alimentari

Di Gloria Fioravanti

Pubblicato il 21 Mar. 2023

Aggiornato il 05 Feb. 2024 11:45

Un’interessante ricerca (Eielsen et al., 2022) ha mostrato che una delle principali variabili che interferiscono con la risoluzione del disturbo alimentare è la presenza di un disturbo di personalità in comorbidità, che deve quindi essere tenuto in considerazione nel trattamento.

I disturbi alimentari

 I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e per le forme del corpo (Fairburn, 2002). I disturbi alimentari comprendono, oltre ad Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa e Disturbo da Alimentazione Incontrollata, anche disturbi alimentari provenienti dalle classificazioni dedicate all’infanzia, quali Pica, Disturbo da ruminazione e Disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. Tra i comportamenti tipici di una persona che soffre di un disturbo alimentare, secondo il DSM-5, ritroviamo la “restrizione alimentare” finalizzata al calo ponderale, l’uso di check, la presenza di abbuffate e l’uso di inappropriate condotte compensatorie.

Si tratta di gravi malattie con frequenti e significative comorbilità psichiatriche (Udo et al., 2019), associate ad alti tassi di mortalità e compromissioni nella vita quotidiana, spesso accompagnate da gravi conseguenze fisiche (Jenkins et al., 2011; Treasure et al., 2015; Treasure, Duarte et al., 2020). Tra i vari modelli di intervento utilizzati nei disturbi alimentari, la CBT-E (terapia cognitiva-comportamentale per i disturbi alimentari) è attualmente la terapia di riferimento (Dalla Grave et al., 2020). La sua efficacia sembrerebbe consistere nella sua capacità di intervenire precocemente sulle errate abitudini alimentari e compensatorie (Byrne et al., 2002; Lampard et al., 2013); tuttavia gli outcome ottenuti con questo trattamento​ necessitano di ulteriori studi. Alcuni studi clinici randomizzati, infatti, mostrano che nel “mondo reale” il 50% dei pazienti con bulimia nervosa rimane sintomatico a fine trattamento (Poulsen et al., 2014; Wallter et al., 2014). Inoltre, i percorsi di trattamento sono caratterizzati da un tasso di drop-out stimato intorno al 24% (Linardon, 2018)​.

Una interessante ricerca recente (Eielsen et al., 2022), ha mostrato che una delle principali variabili che interferiscono con la risoluzione del disturbo alimentare è la presenza di uno o più disturbi di personalità in comorbidità. Questo studio è in linea con precedenti ricerche che mostrano che un ruolo centrale nella fenomenologia del disturbo è rivestito da: difficoltà nella regolazione emotiva, nella percezione e rappresentazione di sé e presenza di problemi interpersonali (Harrison et al., 2010; Hartmann et al., 2010; Lavender et al., 2015; Ung et al., 2017).

In quest’ottica, un modello di intervento che possa essere efficace per la risoluzione del disturbo e il mantenimento dei risultati ottenuti deve prevedere una concettualizzazione del caso che favorisca sia la promozione del cambiamento dei comportamenti legati al disturbo (normalizzazione dell’alimentazione e del peso), sia un intervento rispetto alle difficoltà psicologiche mostrate dai pazienti (per esempio, sulla regolazione emotiva o sull’autostima; Zeeck et al., 2018). Data la presenza in comorbidità in circa il 50% dei casi di un disturbo di personalità (Eielsen et al., 2022), il lavoro terapeutico deve necessariamente includere interventi volti all’intervento su questa categoria di disturbi e una costante e attenta regolazione della relazione terapeutica (Zeeck et al., 2021).

Gli schemi interpersonali nei disturbi alimentari

A partire da queste considerazioni, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), inizialmente elaborata e manualizzata per il trattamento dei disturbi di personalità (Dimaggio et al., 2015), è un modello di intervento promettente nel trattamento dei disturbi alimentari, proprio perché interviene sulle dimensioni del disturbo appena descritte. La TMI infatti favorisce una comprensione condivisa con il paziente delle difficoltà riportate in seduta e della sua sofferenza vissuta all’interno delle relazioni che vengono lette in maniera rigida a partire da schemi che si sono strutturati nel corso della vita. Permette contemporaneamente un lavoro sulla riduzione dei sintomi alimentari, attraverso la promozione di strategie cognitive e comportamentali che promuovono la regolarizzazione dell’alimentazione e la sospensione del rimuginio, aspetti centrali nel disturbo alimentare (Sassaroli et al., 2020). Secondo la TMI infatti, il disturbo alimentare non è altro che un meccanismo di coping disfunzionale nato dall’esigenza di soddisfare un bisogno (wish) sano, all’interno di uno schema interpersonale maladattivo (SMI). In quest’ottica, la promozione e lo sviluppo di parti sane, in affiancamento alla promozione dell’adozione di comportamenti proattivi per la remissione dei sintomi dei disturbi alimentari, permetterebbe il soddisfacimento dei bisogni nucleari sottostanti allo sviluppo del disturbo alimentare, che a quel punto non ha più ragione di essere.

 Detto in altri termini, l’essere umano agisce guidato dai propri scopi, desideri e dalle credenze che si è formato nel corso delle proprie esperienze nel mondo. Le esperienze relazionali ripetute e le disposizioni temperamentali di base danno origine a strutture intrapsichiche stabili (schemi interpersonali), che portano a prevedere come gli altri risponderanno ai loro bisogni e quali modalità potranno adottare per realizzare i propri desideri e fronteggiare la risposta ricevuta dagli altri (Caspar e Ecker, 2008; Kramer et al., 2011). Lo schema interpersonale, dunque, è una struttura procedurale intrapsichica, che nasce dall’esigenza di soddisfare un bisogno ricollegabile ai sistemi motivazionali, quali attaccamento, autonomia, rango sociale e appartenenza al gruppo, che diventa una configurazione cognitivo-affettiva a carattere previsionale (Dimaggio et al., 2013). Lo schema interpersonale diventa poi maladattivo quando un bisogno espresso all’interno della relazione con le principali figure di riferimento del soggetto viene sistematicamente frustrato, poiché il soggetto dovrà sviluppare modalità alternative (coping) disfunzionali per soddisfare il bisogno non riconosciuto; coping disfunzionali come lo sviluppo di un disturbo alimentare.

Queste osservazioni sono sostenute dalla ricerca. Ad esempio, alcuni autori (Binder e Strupp, 1999; Cotugno et al., 2008; 2012; Glibert e Leahy, 2009) sottolineano che per risolvere le rotture dell’alleanza e l’impasse terapeutica con pazienti affetti da disturbi alimentari, sia necessaria la ristrutturazione degli schemi interpersonali dei pazienti stessi e che pazienti con disturbi alimentari presentano schemi individuali negativi che contribuiscono al mantenimento del disturbo stesso. Ad esempio, alcuni studi hanno evidenziato una correlazione tra contenuti cognitivi, schemi maladattivi e comportamenti alimentari disfunzionali (Lagenbauer, 2018) come dei coping utilizzati per gestire emozioni e credenze negative su di sé (Halmi et al., 2000; Diaz-Maria et al., 2000; Dalle Grave, 2012; Fairburn, 2014; Oliva et al., 2020) al fine di proteggersi da stati mentali dolorosi che emergono con l’attivazione degli schemi.

In quest’ottica, dunque, si può leggere l’eccessiva importanza attribuita a peso e forma del corpo, e i comportamenti di mantenimento del disturbo alimentare, come dei meccanismi di coping disfunzionali nati all’interno di uno schema interpersonale maladattivo, che vanno compresi e risolti, non solo nella loro dimensione patologica ricollegabile al sintomo alimentare, quindi attraverso terapie volte solo alla cura del comportamento disfunzionale, ma anche nella loro dimensione interpersonale, ovvero come tentativo di dare voce ad un bisogno insoddisfatto.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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