Secondo la teoria sociale-comportamentale dell’aggressività, essa viene appresa mediante meccanismi di condizionamento come il “modellamento”, vale a dire l’osservazione del comportamento altrui.
Nella vita quotidiana assistiamo a frequenti atti di aggressività come vandalismo, guerre, violenza domestica.
Come definiamo l’aggressività? In generale potremmo sostenere che si tratta di un’azione che mira ad infliggere in modo intenzionale un danno agli altri.
Tuttavia, non è possibile spiegare il significato di aggressività secondo un solo punto di vista. Pertanto, gli studi in ambito della psicologia hanno messo in evidenza due specifiche teorie: una è quella biologica e l’altra è quella sociale.
La teoria biologica dell’aggressività
La prima afferma che il comportamento aggressivo è innato, fa parte della natura umana e, con l’approccio etologico, la base istintiva dell’aggressività umana viene studiata e paragonata a quella degli animali, Bisogna sottolineare, però, che il comportamento reale aggressivo è suscitato da stimoli specifici dell’ambiente, cosiddetti “catalizzatori”.
Infatti, secondo lo studioso Konrad Lorenz, gli animali hanno un’aggressività innata che si manifesta in base al tipo di stimolo ambientale, stimolo dettato dalla necessità di sopravvivenza di un animale. Lorenz ha così osservato che, a differenza degli animali, l’essere umano è sì dotato istintivamente di aggressività, ma non ha sviluppato quei gesti di pacificazione ben riconoscibili nelle specie animali come, ad esempio, l’evitamento di un combattimento che potrebbe essere mortale, o l’atto di subordinazione, ossia quando l’animale si stende sul terreno supino come segno di pacificazione.
La teoria sociale-comportamentale dell’aggressività
L’altra teoria sull’aggressività è quella sociale-comportamentale, ossia l’aggressività viene appresa mediante meccanismi di condizionamento come il “modellamento”, vale a dire l’osservazione del comportamento altrui.
Lo studioso Zimbardo verificò quanto il potere fosse la causa della deresponsabilizzazione, della disinibizione, della crudeltà e della disumanizzazione. La dimostrazione di ciò fu l’esperimento detto “Effetto Lucifero”, che consisteva nel reclutamento di ventiquattro studenti divisi in due gruppi e messi in una situazione che simulava il carcere. Alcuni di loro avrebbero ricoperto il ruolo di guardie, altri di prigionieri. L’esperimento mostrò quanto il potere nelle mani delle guardie avesse rivelato una escalation di comportamenti crudeli sui prigionieri. Uno di questi abbandonò l’esperimento per crollo psicologico, mentre la situazione degenerava così tanto che al sesto giorno l’esperimento fu sospeso.
Aggressività e mancanza di empatia
Gli studiosi Baron e Cohen nel 2011 hanno studiato il male nell’uomo, notando quanto il malfunzionamento dell’empatia (che è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni altrui), sia la causa dell’azione del male. Questo decadimento di empatia, secondo Cohen, sembra essere dovuto a predisposizione genetica, a esperienze infantili avverse, all’obbedienza all’autorità, all’ideologia e ai conflitti tra gruppi.
Tuttavia, alcuni studiosi si sono posti il problema che, se dipendesse dal grado di empatia di ciascuno di noi, l’aggressività sarebbe più controllata. Pertanto, come mai anche di fronte a segni di sofferenza, di paura della vittima, le aggressioni non si fermano?
Aggressività e neuroni specchio
Grazie alle neuroscienze e alla scoperta dei neuroni specchio negli anni Novanta, è stato confermato che gli esseri umani sono dotati di una struttura biologica capace di comprendere le intenzioni e le emozioni dell’altro mediante “il modello di rispecchiamento” imitativo. Ciò significa che l’uomo può provare empatia cognitiva ed emotiva per l’altro, ma anche può realizzare stermini di massa, scatenare guerre, non facendo alcuna distinzione tra uomini, donne, bambini, poiché in alcuni individui il sistema di rispecchiamento si attiva in modo meno spontaneo e automatico.
Come sosteneva anche Keysers, le persone malvagie hanno minori reazioni di rispecchiamento cerebrale, tuttavia anche gli individui aggressivi possono essere empatici, ma con una fondamentale differenza: la loro empatia non scatta in automatico, ma solo volontariamente.
L’apprendimento dell’aggressività
Se si guarda all’interno di alcune famiglie, il bambino apprende in un lungo processo la capacità di controllare gli impulsi aggressivi. Infatti, Albert Bandura, psicologo comportamentale, considerava fondamentale l’apprendimento dell’uomo nel contesto socio-ambientale a cui si appartiene. L’esperienza di vita è per lo studioso il fattore che fa comprendere il modo in cui si manifesta l’aggressività.
In sostanza, il bambino impara ad essere aggressivo, poiché apprende da una esperienza sociale diretta. Ad esempio, nella relazione di cura, il bambino dovrebbe trovare un ambiente di protezione, di calore e di attaccamento affettivo verso il genitore o il caregiver. Tuttavia, se il genitore/caregiver è a sua volta in condizioni di disagio o bisognoso di cure, diventa chiaro che le proteste del bambino vengono intese dall’adulto come segnali aggressivi di opposizione o di minaccia. Pertanto, l’attaccamento e l’accudimento diventano manifestazioni di tipo predatorio.
Bandura sosteneva anche che l’esposizione alla violenza e all’aggressività si manifestano maggiormente sia nei bambini che negli adulti come il risultato di un apprendimento di un modello comportamentale che diventa uno stile di vita.