Teorie sulla leadership implicita sono una forma di filtro percettivo, attraverso il quale le persone riconoscono e valutano un vero leader (Cronshaw e Lord, 1987), mentre esprimono la tendenza a semplificare e categorizzare gli elementi di un ambiente organizzativo (Bryman, 2001).
Antonio Albanesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto
Le teorie implicite sulla leadership (ILTs)
Nel contesto delle teorie contemporanee sulla leadership, che scaturiscono dalla corrente principale della “Social Cognition”, ciò che si va a sottolineare è l’importanza regolatoria di due meccanismi cognitivi, utilizzati per descrivere e spiegare il comportamento dei leader e della leadership, rimanendo in stretta interazione reciproca (Cronshaw e Lord, 1987). Il primo comprende i processi di categorizzazione della leadership (Lord e Maher, 1991), utilizzando i meccanismi di categorizzazione concettuale della leadership secondo il concetto delle strutture naturali e dei prototipi, basati sulle connessioni semantiche tra le diverse dimensioni e gli aspetti della leadership, assieme a una relazione leader-subordinata all’interno di un’organizzazione (Lord e collaboratori, 1984; Lord e collaboratori, 1982). Le “Teorie sulla leadership implicita” (ILT), basate su un ruolo regolativo implicito della conoscenza, comprendono quest’ultimo tipo di meccanismi cognitivi, i quali sono parte integrante dei processi di categorizzazione della leadership (Schondrick e Lord, 2010). Queste teorie sono più focalizzate sulla conoscenza acquisita sia spontaneamente che automaticamente nel corso della socializzazione, fissata poi nella memoria come modelli cognitivi di vario tipo (idee, compiti, procedure, categorie intuitive o concettuali), riguardanti le caratteristiche e le competenze di un tipico leader (o tipi di leader). Integrando entrambi gli approcci teorici, le teorie sulla leadership implicita costituiscono un sistema gerarchicamente organizzato. Pertanto, esse consistono in un insieme prototipico di attributi/caratteristiche di un leader e di una leadership, che una persona generalmente utilizza nella percezione e valutazione di una “persona stimolo”, confrontandole sia con una categoria di leader che con un leader ideale (Phillips e Lord, 1981). Facendo riferimento al concetto di categorizzazione cognitiva (Rosch, 1978), all’interno della struttura delle ILT coesistono 3 livelli. A livello sovraordinato, le persone classificano gli altri come leader e non-leader. A livello base, gli osservatori attribuiscono qualità di leadership a seconda del contesto sociale (ad esempio, un leader organizzativo, un leader militare, un leader politico, un leader religioso, ecc.), confrontando uno specifico stimolo con un prototipo in questa categoria. A livello subordinato, viene eseguita una categorizzazione dei leader, richiamando alla memoria un ricordo di individui specifici che vengono trattati come rappresentativi di una data categoria (Lord e collaboratori, 1984). Quando si fa riferimento alle teorie cognitive generali, si noti che questi schemi e concetti non costituiscono una categoria omogenea, ma sono diversi, dinamici e contestualizzati (Abelson e Schank, 1977; Schondrick e Lord, 2010). Pertanto, si può presumere che le ILT abbiano una duplice natura. Da un lato, includono la conoscenza dichiarativa, sotto forma di concetti, categorie, piani e compiti; dall’altro, includono la conoscenza procedurale, la quale è alla base dell’elaborazione intuitiva che si verifica nei processi di percezione, valutazione e interpretazione dei comportamenti di leadership, nonché nelle relazioni leader-subordinati (Lord e collaboratori, 1984). Ecco perché le Teorie sulla leadership implicita sono una forma di filtro percettivo, attraverso il quale le persone riconoscono e valutano un vero leader (Cronshaw e Lord, 1987), mentre esprimono la tendenza a semplificare e categorizzare gli elementi di un ambiente organizzativo (Bryman, 2001).
Molti ricercatori hanno cercato di determinare il contenuto delle Teorie sulla leadership implicita. Una delle prime strutturazioni sviluppate di Teorie sulla leadership implicita, è formata da una struttura quadridimensionale: facilitazione del lavoro, facilitazione dell’interazione, supporto e enfasi sugli obiettivi (Taylor e Bowers, 1970; Eden e Leviatan, 1975).
La struttura fattoriale più citata e meglio documentata empiricamente è stata scoperta da Offerman, Kennedy e Wirtz (1994), i quali includono otto caratteristiche principali associate al termine “leader”: sensibilità, dedizione, tirannia, carisma, attrattività, mascolinità, intelligenza e forza. Successivamente, Ling, Chia e Fang (2000) hanno categorizzato invece quattro fattori delle Teorie sulla leadership implicita: moralità personale, efficacia degli obiettivi, competenza interpersonale e versatilità. Una recente ricerca condotta da Bajcar e collaboratori (2014) ha dimostrato, invece, che le persone descrivono i leader politici e organizzativi in maniera diversa e che gli uomini hanno teorie implicite di leadership diverse rispetto alle donne. Gli autori hanno quindi desunto che le differenze individuali nelle teorie della leadership implicita rappresenterebbero una funzione dei processi cognitivi dei percettori. I risultati empirici hanno mostrato che la categorizzazione dei leader politici e organizzativi è determinata da altri modelli di caratteristiche cognitive dei percettori, come la semplicità cognitiva vs complessità, il bisogno di chiusura e lo stile cognitivo di Kirton (Modello dell’adattamento-innovazione).
Un sistema cognitivo-comportamentale di leadership: il modello Full Range
Il modello Full Range della leadership ritrae la leadership come un insieme di comportamenti, che vanno dall’estremamente passivo all’altamente attivo (Avolio e Bass, 2001, Avolio, 2010; Sosik e Jung, 2011). Il modello suggerisce che tutti i leader mostrino una leadership sia attiva che passiva, ma che lo facciano con una frequenza diversa. Pertanto, alcuni leader hanno una tendenza più forte a impegnarsi in comportamenti attivi, mentre altri hanno maggiori probabilità di agire passivamente. Tuttavia, questo modello di leadership, non riesce a spiegare perché alcuni leader sono inclini a farlo e a impegnarsi in comportamenti attivi mentre altri in comportamenti passivi. Secondo il modello, all’estremità passiva dello spettro della leadership risiede la mancanza di leadership. Nello specifico, il “laissez faire” è lo stile di gestione caratterizzato dall’evitamento dell’assunzione di responsabilità, decisioni e azioni, anche in circostanze disperate. Spostandosi ulteriormente lungo il continuum passivo-attivo, troviamo il comportamento di leadership denominato “management passivo per eccezione”. Questo termine si riferisce a uno stile di gestione per cui il leader non agisce finché i problemi non sfuggono di mano. A seguire, abbiamo il comportamento chiamato “management attivo per eccezione”, cioè uno stile caratterizzato dalla ricerca di errori, problemi e violazioni delle regole, assieme al monitoraggio e al controllo disciplinare dei subordinati. Questo stile di leadership è attivo, nel senso che è il leader che prende il controllo della situazione e non viceversa. Il leader controlla attivamente le azioni del subordinato e interviene quando le sue prestazioni non sono all’altezza degli standard attesi. All’estremità attiva della scala, si trova la leadership della “ricompensa contingente”, per cui la ricompensa dipende dalle prestazioni del subordinato. Questo stile di leadership implica un livello maggiore di attività e accettazione rispetto ai comportamenti precedenti, quando il leader fissa gli obiettivi, identifica gli scopi e pone le aspettative.
Secondo Beck (1967, 2011), per comprendere meglio le tendenze disposizionali dei leader a mostrare comportamenti di leadership attivi o passivi, si devono identificare le loro convinzioni fondamentali, ovvero le idee più profonde e durature sulla comprensione di sé, degli altri e del mondo. Il motivo risiede nel fatto che le convinzioni fondamentali siano strutture cognitive profonde, che poi guidano la selezione, la codifica e la valutazione di tutti gli stimoli, con un forte impatto sul comportamento successivo (Segal, 1988). In altre parole, le credenze influenzano la formazione di valutazioni che, a loro volta, attivano i comportamenti. Ad esempio, se una persona crede che il mondo sia un posto ingiusto, potrebbe percepire qualsiasi critica come ostile e, di conseguenza, agire in modo vendicativo quando viene criticato. Identificare le convinzioni sottostanti di un leader fornisce quindi una visione della relativa stabilità dei suoi modelli cognitivi e comportamentali. Gli autori sostengono che le differenze individuali nei tre tipi di valutazioni di base (vale a dire, credenze di base su di sé, sugli altri e sul mondo) rappresentino le differenze individuali nelle inclinazioni dei leader a praticare comportamenti di leadership attivi o passivi. Ad esempio, i leader che fondamentalmente pensano che il mondo sia un luogo sicuro, saranno generalmente più propensi a prendere iniziative e rischi, rispetto ai leader che vedono il mondo come un posto pericoloso.
Le differenze intra-individuali nel comportamento di leadership: le valutazioni delle credenze di base
Le credenze di base su di sé sono giudizi fondamentali che l’individuo ha su se stesso e sulle sue capacità, autostima e abilità per far fronte alle difficoltà (Judge e collaboratori, 1997). Tali credenze rappresentano un tratto di ordine superiore indicato da quattro tratti di ordine inferiore: locus of control, autoefficacia generalizzata, autostima e nevroticismo. Per “locus of control”, si fa riferimento alle convinzioni di una persona sulle cause degli eventi che accadono nella sua vita. Le persone con un locus of control interno credono di riuscire a modellare gli eventi nelle loro vite, mentre le persone con un locus of control esterno attribuiscono le cause degli eventi a fattori esterni, come la fortuna o le azioni di altre persone (Rotter, 1966). L’autoefficacia generalizzata si riferisce invece alle convinzioni di una persona sull’essere in grado o meno di affrontare con successo una vasta gamma di situazioni della vita (Smith, 1989). Infine per autostima si intende l’auto-accettazione di una persona, la simpatia e il rispetto di sé (Judge et al., 1997), mentre il nevroticismo sottolinea la propria tendenza a sperimentare emozioni negative a lungo termine. Resick e collaboratori (2009) hanno riscontrato che i leader aventi maggiori valutazioni positive su di sé, hanno un’elevata probabilità di sviluppare una leadership trasformazionale (leader che cercano di cambiare i pensieri, le tecniche e gli obiettivi esistenti per ottenere risultati migliori e un bene maggiore), rispetto ai leader che riportano valutazioni su di sé negative, perché loro possiedono la necessaria autostima richiesta per svolgere comportamenti trasformativi. Le persone che hanno invece valutazioni su di sé negative ritengono di non riuscire a cavarsela con successo in situazioni impegnative e perciò sembrerebbero inclini a intraprendere comportamenti di evitamento (Kammeyer-Mueller e collaboratori., 2009).
Sebbene le valutazioni del sé siano state principalmente studiate come caratteristica stabile e correlata alla persona, c’è ormai accordo diffuso sul fatto che le autovalutazioni di base dovrebbero essere viste come costrutto basato sui tratti e sullo stato (Judge and Kammeyer-Mueller, 2004; Judge e collaboratori, 2012). In linea con questa idea, recenti ricerche hanno dimostrato che le autovalutazioni sul proprio stato variano effettivamente da una situazione all’altra, così come è stato mostrato per quanto riguarda le sue parti costitutive: autostima (Heatherton e Polivy, 1991), nevroticismo (McNiel e Fleeson, 2006; Debusscher e collaboratori., 2014), e autoefficacia (Bandura, 2006). Come accennato in precedenza, l’evidenza empirica supporta la nozione che i leader aventi credenze di base su di sé positive hanno più probabilità di essere prevalentemente trasformativi rispetto ai leader con credenze di base su di sé negative. Si suggerisce quindi che questa relazione vale anche a livello di stato, cioè più un leader si sente in controllo, fiducioso e capace in una situazione, più probabilmente tenderà a stimolare, ispirare e aiutare gli altri. Al contrario, meno il leader sente di avere il controllo e di essere capace, più è probabile che mostrerà comportamenti passivi.
Le credenze di base sugli altri fanno riferimento alla teoria implicita che un individuo possiede sulle altre persone, in particolare se ritiene o meno di potersi generalmente fidare degli altri (Judge e collaboratori, 1997). Questa credenza fondamentale sembrerebbe giocare un ruolo cruciale nelle inclinazioni comportamentali attive dei leader. Difatti, nell’essere incline a sfidare, stimolare, ispirare e istruire i subordinati, un leader deve credere che le persone siano degne di fiducia implicando, nel contesto della leadership, che queste ultime possano aspettarsi di dover adempiere pienamente alle proprie mansioni lavorative. I leader che non si fidano degli altri potrebbero invece essere inclini a monitorare da vicino i subordinati, per cercare eventuali errori. Inoltre, i leader che hanno più fiducia negli altri potrebbero essere più propensi a impegnarsi nelle interazioni con i loro subordinati, poiché è stato scoperto che la fiducia genera socialità (Fukuyama, 1995). Diversamente, i leader che sono preoccupati per gli altri potrebbero essere orientati alla socialità passiva e a evitare interazioni con i propri subordinati.
Nella sezione precedente, si è discusso su come siano fondamentali le credenze sugli altri per indurre i leader a percepire i subordinati come affidabili o inaffidabili. Tuttavia, nonostante l’esistenza di tale tendenza generale, sappiamo che il momentaneo livello di fiducia delle persone varia in funzione della persona con cui interagiscono (Mayer e collaboratori, 1995). Ricerche approfondite hanno dimostrato che i leader cambiano il loro comportamento in funzione della loro percezione del subordinato (Lowin e Craig, 1968). In particolare, la teoria “LMX” afferma che i leader cambiano il loro comportamento in base alla loro valutazione sulle capacità e sugli atteggiamenti dei diversi subordinati (Dansereau e collaboratori, 1975). Quando i leader si fidano dei loro subordinati, allora gli concedono più tempo e attenzione, li stimolano e gli forniscono più opportunità di crescita, rispetto a quando non si fidano di loro (Graen e Uhl-Bien, 1995). La ricerca ha dimostrato che, quando il livello di fiducia verso un subordinato è basso, i leader sono più propensi a sottolineare la loro posizione di autorità e rafforzare il controllo (Georgesen e Harris, 2006), a intensificare il monitoraggio (Mayer e Gavin, 2005) e a fornire meno informazioni, responsabilità e autonomia ai subordinati (Mayer e collaboratori, 1995).
Le credenze di base sul mondo sono le convinzioni, profondamente radicate, di un individuo sul mondo circostante (Judge e collaboratori, 1997), cioè se il mondo può essere affidabile o meno. La teoria originale delle credenze di base distingue tra tre valutazioni sul mondo fondamentali: credere che il mondo sia fondamentalmente benevolo (o malevolo); credere che il mondo sia fondamentalmente giusto (o ingiusto); credere che il mondo sia fondamentalmente eccitante (o pericoloso). Le persone che credono in un mondo essenzialmente benevolo sono convinti che il loro ambiente sia un posto sicuro e buono, dove si possono realizzare successo e felicità, e in cui è possibile mantenere valori umani. A tal proposito, queste persone sembrerebbero avere la corretta disposizione ad adottare comportamenti attivi e che, come ha dimostrato la ricerca, c’è una maggiore possibilità di sviluppare azioni tese all’aspirazione e orientate all’obiettivo quando si crede che il successo sia probabile (Jacobs e collaboratori., 1984; Bandura e Locke, 2003). Se un leader crede invece che il mondo sia un brutto posto, in cui il successo rappresenta l’eccezione (i valori non possono essere realizzati dove regna la sofferenza e la miseria), allora ci saranno buone possibilità di sviluppare forme di ritiro e passività, sulla base di un’aspettativa di non contingenza tra le azioni e i probabili esiti futuri (Seligman, 1975; Maier e Seligman, 1976). Al contrario, se un leader pensa che non sia possibile raggiungere obiettivi e valori in questo mondo, allora potrebbe essere meno incline a perseguirli attivamente. Inoltre, i leader che credono in un mondo eccitante, potrebbero avere la mentalità necessaria per pensare in modo innovativo, percorrere strade sconosciute e sfidare teorie ampiamente diffuse, mentre i leader che credono in un mondo pericoloso non correrebbero i rischi dei comportamenti di cui sopra. Nello specifico, credere che il mondo sia eccitante piuttosto che pericoloso, implica un senso generalizzato di sicurezza psicologica, ed è stato dimostrato che la sicurezza psicologica potrebbe promuovere la creatività nelle organizzazioni. In linea con questo, i leader che pensano a un mondo pericoloso aggirerebbero la possibilità di correre dei rischi, al fine di evitare di essere danneggiati o puniti in caso di inadempimento, preferendo piuttosto il ritiro nella passività “sicura”. In ultima analisi, i leader che credono che il mondo sia un luogo maligno, invece di incoraggiare il pensiero indipendente, potrebbero diventare controllanti e iper-vigili sugli errori commessi sotto la loro supervisione, nel tentativo di prevenire ritorsioni all’interno di un ambiente percepito come ostile.