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Disforia di genere e disturbo da travestimento: la storia delle due diagnosi secondo il DSM – FluIDsex

Il DSM-5 ha dedicato un capitolo a parte alla Disforia di Genere ponendo l’attenzione sulla sofferenza clinica più che sull’identità transgender in sé

Di Greta Riboli, Rosita Borlimi, Martina Gori, fluIDsex

Pubblicato il 05 Ott. 2022

La disforia di genere riguarda una buona percentuale della popolazione transgender, ovvero coloro che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita, ma esistono anche persone transgender che invece non riportano alcun disagio significativo.

 

Dal Transessualismo alla Disforia di Genere

 La Disforia di Genere negli adolescenti e negli adulti è definita come una marcata incongruenza tra l’identità di genere di un individuo e il genere assegnato alla nascita, ovvero tra il genere esperito o espresso, a cui sente di appartenere, e quello che gli viene attribuito sulla base dei propri genitali (American Psychiatric Association [APA], 2013; Cooper et al., 2020). Affinché possa essere effettuata una diagnosi di disforia di genere, questa condizione deve essere presente per un periodo di almeno sei mesi e deve causare un disagio clinicamente significativo o una compromissione del funzionamento in vari ambiti di vita, come quello sociale, lavorativo o altre aree importanti.

La disforia di genere è una condizione che riguarda una buona percentuale della popolazione transgender, ovvero coloro che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita. Tuttavia, esistono persone transgender che esperiscono disforia di genere, nel senso che provano una forte sofferenza derivante dall’incongruenza di genere, e altre che invece non riportano alcun disagio significativo (Cooper et al., 2020).

Il Transessualismo è stata la prima etichetta diagnostica relativa al genere a essere inclusa nel DSM – il DSM-III – all’interno della macro-categoria dei Disturbi Psicosessuali (Zucker, 2015). Con l’avvento del DSM-IV la terminologia è mutata in Disturbo dell’Identità di Genere, il quale, insieme alle Disfunzioni Sessuali e ai Disturbi Parafilici, faceva parte della categoria Disturbi sessuali e dell’Identità di Genere. Infine, con il DSM-5 è stato dedicato un capitolo a parte per la Disforia di Genere: con questa nuova espressione viene posta l’attenzione sulla sofferenza clinica piuttosto che considerare l’identità transgender problematica in sé, e sembra risultare meno stigmatizzante senza il termine “disturbo”. Inoltre, sebbene l’impostazione dei nuovi criteri sia ancora principalmente binaria in quanto si fa riferimento a “l’altro genere” (nonostante sia un passo avanti rispetto a “l’altro sesso” del DSM-IV-TR), il DSM-5 sembra essere più inclusivo nei confronti della varianza di genere, per aver aggiunto la dicitura “qualche genere alternativo diverso dal proprio genere assegnato” (Richards et al., 2016; Galupo et al., 2021). In linea con ciò, con la nuova diagnosi si parla di “incongruenza” tra il genere esperito/espresso e il genere assegnato e non più di “identificazione cross-gender”, un’espressione riduttiva rispetto alla diversità di genere esistente. In questo modo vengono accolte anche le persone non-binary, appartenenti alla popolazione transgender in quanto non si riconoscono nel genere assegnato, ma che si identificano al di fuori del binarismo di genere uomo-donna (Reisner e Hughto, 2019), che qualora provassero disforia possono essere altrettanto diagnosticati.

Dal Travestitismo al Disturbo da Travestitismo

Il travestitismo, nella sua concezione più comune, fa riferimento al cross-dressing, l’atto di vestirsi con abiti socialmente ritenuti adeguati e specifici del genere opposto (Florentina Lescai, 2020).

Vi sono testimonianze sull’esistenza di questa pratica in periodi storici e contesti culturali diversi. Ad esempio, nell’Italia del ‘900 il travestitismo era solo una delle tante modalità di espressione che veniva adottata dai Femminielli di Napoli per manifestare la propria identità (Clemente, 2020).

Tuttavia, il travestitismo può essere messo in atto con diversi scopi. Infatti, nell’ambito clinico si parla di Travestitismo in termini di “parafilia”, ovvero quando un individuo riesce a raggiungere l’eccitazione sessuale sempre, o quasi sempre, solo se indossa abiti considerati tipicamente maschili o femminili, oppure se si immagina protagonista di tali fantasie erotiche, impersonando al contempo sia se stesso che la persona che vuole rappresentare tramite l’abbigliamento, il trucco e l’acconciatura.

 Dall’altro lato, parliamo di un disturbo parafilico, il Disturbo da Travestitismo, nel caso in cui tale comportamento causi un profondo disagio e/o una compromissione del funzionamento in vari ambiti di vita, soprattutto sociale e lavorativo, da almeno sei mesi (APA, 2013; Florentina Lescai, 2020). È importante che il disagio provenga da loro stessi e non sia solo l’esito della disapprovazione da parte della società. Il DSM-5 prevede anche due specifiche: con feticismo (quando l’eccitazione sessuale deriva dal toccare materiali, tessuti o abiti) e con autoginefilia (quando l’eccitazione proviene dal pensiero di essere effettivamente, somigliare o essere vestito come una donna). Tendenzialmente è una condizione che riguarda soprattutto gli uomini e raramente le donne (Beech et al., 2016).

Facendo un passo nel passato, tale disturbo nel DSM-III era chiamato Travestitismo, mentre con il DSM-III-R si passò a Feticismo di Travestitismo, con l’obiettivo di fare maggiore chiarezza sulla terminologia, in quanto al tempo il termine travestito veniva utilizzato anche nei confronti delle drag queen e delle persone transgender, finché non si diffuse il termine transessuale. Tuttavia, solo il passaggio alla diagnosi di Disturbo da Travestitismo con il DSM-5 ha permesso di distinguere la parafilia del travestitismo (interessi sessuali atipici) dal disturbo parafilico, una condizione che causa un notevole disagio (Blanchard, 2010). Inoltre, il DSM-5 non limita più la diagnosi agli uomini cisgender eterosessuali ma la apre a più generi e più orientamenti sessuali.

Due diagnosi a sé stanti ma con un passato in comune

Sebbene nel linguaggio comune spesso termini come transessuale o transgender e travestito vengono usati come sinonimi, nell’ambito della clinica occorre effettuare una netta distinzione in quanto rimandano a due condizioni totalmente differenti.

Una prima distinzione tra travestitismo e transessualismo fu effettuata con il DSM-III, nel quale il transessualismo era un criterio di esclusione per la diagnosi di travestitismo. In seguito, il DSM-III-R affermava che per coloro il cui arousal sessuale tendeva a scomparire nel corso del tempo e il cross-dressing mutava in una strategia di gestione dell’ansia, la diagnosi appropriata era Disturbo dell’Identità di Genere dell’Adolescenza o dell’Età Adulta, Tipo Non Transessuale [GIDAANT]. Se, invece, l’uomo sentiva emergere nel tempo il bisogno persistente di essere ed apparire come donna nella quotidianità, desiderando una terapia ormonale o un intervento chirurgico gender-affirming, doveva essere fatta diagnosi di transessualismo. Il DSM-IV, invece, eliminò il transessualismo come criterio di esclusione per la diagnosi e propose la specifica “Con Disforia di Genere”, dato che essa non esclude l’eccitazione sessuale da cross-dressing, da poter usare “se la persona ha un disagio persistente con il ruolo o l’identità di genere” ma non soddisfa a pieno i criteri del disturbo dell’identità di genere (Blanchard, 2010).

In conclusione, ad oggi dal DSM-5 si evince che coloro che soffrono del disturbo da travestitismo non avvertono una reale incongruenza tra il genere percepito e quello attribuito, né hanno il desiderio di vivere effettivamente all’insegna del genere in cui si identificano, diversamente da coloro con disforia di genere. Tuttavia, se vengono soddisfatti tutti i criteri dei due quadri clinici possono essere effettuate entrambe le diagnosi (Florentina Lescai, 2020).

 

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