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L’intervento del Prof. Steven Hollon su depressione e CBT – Report dal Forum di Ricerca in Psicoterapia

Steven Hollon guida i partecipanti alla scoperta della depressione, grazie a un interessante confronto tra i luoghi comuni sul tema e i dati delle ricerche

Di Marina Morgese

Pubblicato il 13 Lug. 2022

Il forum di ricerca in psicoterapia 2022 ha visto tra gli ospiti il Prof. Steven Hollon che ha approfondito il tema della depressione e della terapia cognitivo comportamentale del disturbo.

 

Steven Hollon guida i partecipanti alla scoperta della depressione, grazie a un interessante confronto tra quelli che sono i luoghi comuni sulla depressione e ciò che invece le ricerche degli ultimi anni hanno messo in luce, permettendoci di comprendere a fondo il disturbo e le implicazioni sul suo trattamento.

Ad esempio, uno dei luoghi comuni sulla depressione la concepisce come una malattia o un disturbo in quanto ne sono noti i meccanismi biologici: un maggior rilascio di cortisolo e un’alterazione a livello dei neurotrasmettitori. Ma se la depressione fosse un modo dell’individuo di adattarsi all’ambiente? È a questo proposito che Hollon illustra il punto – a mio avviso – più interessante della sua nella sua presentazione: la biologia della seppia e della sogliola.

Cosa avranno a che fare seppie e sogliole con la depressione? Hollon lo spiega subito.

Le sogliole si nutrono di seppie e ovviamente le seppie cercano di non farsi mangiare dalle sogliole. È così che, nelle dinamiche preda-predatore, la sogliola metterà in atto una serie di azioni volte ad attaccare e mangiare la seppia e, allo stesso tempo, le seppie metteranno in atto una serie di azioni per proteggersi dall’attacco delle sogliole. Le ricerche hanno messo in luce come le seppie ferite che mancano della sensibilizzazione nocicettiva (e che quindi non sentono dolore) hanno probabilità inferiori di sopravvivere.

IMMAGINE 1 - Report Hollon

Imm. 1 – Probabilità di sopravvivenza delle seppie

La sensibilizzazione periferica rappresenta l’aumento della sensibilità di una zona del corpo sottoposta a uno stress meccanico, termico o chimico prolungato. L’esposizione a questo stress provoca dolore che viene accentuato anche da piccole compressioni, punture, variazioni di temperatura. Quando manca questa sensibilizzazione non possiamo sentire dolore.

Cosa ci insegna questo esempio? Che il dolore fa male, causa sofferenza, ma ti mantiene vivo.

I biologi evoluzionisti credono che lo stato d’animo della depressione, la rabbia, la frustrazione, la tristezza rappresentino un adattamento funzionale all’ambiente. Gli evoluzionisti ci dicono che aspetti negativi come la rabbia, la depressione, l’ansia, in realtà sono una forma di sopravvivenza sviluppatasi nel passato ancestrale: non un disturbo, ma una forma di adattamento evolutivo.

Quindi se si ha la sfortuna di essere feriti – dice Hollon – che si abbia almeno la fortuna di sentirne il dolore: le cose spiacevoli purtroppo accadono, è adattivo avere l’abilità di essere depressi. La depressione ci porta a fare qualcosa che altrimenti non avremmo fatto.

La depressione ci porta a concentrarci, dunque, su qualcosa che invece non avremmo fatto se non avessimo sentito dolore. A questo proposito Steven Hollon mostra come differenti tipologie di malessere possono portare la persona a concentrare le proprie energie verso diversi sistemi corporei. Come si può vedere dalla slide che lo stesso Hollon ha mostrato nel corso della sua presentazione, la Sickness Depression porta la persona a canalizzare la propria energia sul sistema immunitario, rispetto alla melanconia (ovvero la depressione clinica) che porta la persona a un dispendio di energia nel sistema cognitivo: l’energia è nel cervello e ci porta a trovare un perché e una spiegazione a quanto ci sta accadendo, ci porta a ruminare!

IMMAGINE 2 - Report Hollon

Imm. 2 – concentrazione di energia verso i vari sistemi corporei nelle diverse forme di malessere

Agganciandosi a un altro luogo comune sulla depressione, ovvero quello che vede la ruminazione come un sintomo o – nel peggiore dei casi – una causa dello stato depressivo, Hollon approfondisce il tema della ruminazione spiegando come noi umani abbiamo due modi di pensare: un processo rapido di tipo 1 e un processo più lento di tipo 2. Il primo processo ci consente di rispondere rapidamente a un problema immediato. È un sistema di risposta d’emergenza molto veloce. Il pensiero di tipo 2 invece è quello che è coinvolto nella depressione: è un tipo di pensiero più lungo, più lento, più deliberativo e più ragionato, concentrato sul capire qual è il problema e su come affrontarlo.

Questa parte del suo intervento ha una grande importanza in quanto presenta dei risvolti pratici anche per comprendere meglio il trattamento della depressione, a cui Hollon dedica la parte finale della sua presentazione. Continua il suo discorso concentrando l’attenzione sul rapporto tra terapia e antidepressivi, facendo nuovamente riferimento ai luoghi comuni sulla depressione, in particolare a quelli che vedono gli antidepressivi sicuri ed efficaci nella cura del disturbo. In realtà Steven Hollon “contesta” questa affermazione portando a suo favore numerose evidenze empiriche che ci dicono come le medicazioni sopprimono sì i sintomi, ma allungano gli episodi depressivi.

A questo punto le domande degli ascoltatori e del Prof. Giovanni Maria Ruggiero, moderatore dell’evento, riportano il focus della presentazione sul rapporto tra la depressione, la sua funzione adattiva e la ruminazione. Viene quindi posta un’interessante domanda: se la depressione è una risposta adattiva all’ambiente, che porta l’individuo a concentrarsi molto di più sui problemi e quindi a ruminare, e se tale ruminazione tende ad essere però disadattiva, cosa accade da un punto di vista clinico? Come cambia il trattamento? Non c’è il rischio che l’intervento psicoterapeutico possa aumentare la ruminazione? Ad esempio: un intervento cognitivo sulle credenze centrali può avere come effetto negativo l’aumento della ruminazione?

Hollon fornisce una risposta rapida, esauriente ed efficace: con la terapia non si va a interrompere la ruminazione, si va a strutturare la ruminazione. Bisogna far capire al paziente che non è la causa del suo malessere ad essere sbagliata ma è la strategia per fronteggiarlo che è sbagliata. Se portiamo il paziente a riflettere su cosa è davvero importante – continuare a darmi la colpa o concentrarmi sul risolvere i problemi? – egli avrà modo di andare incontro a dei cambiamenti positivi nella sua vita: con la terapia facilitiamo questo processo, con le sole medicine invece lo sopprimiamo.

In cosa si traduce questo a livello psicoterapico? Nel portare il paziente a sperimentarsi in task quotidiani comportamentali, nello strutturare questi task e grazie ad essi consentire al paziente di mettere alla prova le credenze disadattive. Possiamo quindi usare la ristrutturazione cognitiva per preparare il paziente alle esposizioni comportamentali e, una volta superate le esposizioni, poter così sfruttare il lato adattivo della depressione: è più chiaro ora il rimando alla seppia? Se stiamo male e sentiamo il dolore, abbiamo anche la possibilità di fare qualcosa per star meglio. Tutto ciò ha anche un risvolto più “esistenziale”: nella cura della depressione bisognerebbe portare il paziente a comprendere perché sente questo dolore, cosa c’è che non va nella sua vita adesso e soprattutto a chiedersi “Cosa posso cambiare ancora della mia vita?” anziché “A cosa sono destinato passivamente nella mia vita?”

Un intervento, quello di Hollon, che ha sicuramente lasciato il segno nei tanti professionisti che con attenzione e interesse lo hanno ascoltato.

 

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Marina Morgese
Marina Morgese

Caporedattrice di State of Mind

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