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La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (2022) – Recensione

Il volume 'La formulazione del caso in psicoterapia cognitivo-comportamentale' presenta questo centrale aspetto della CBT, base per un trattamento efficace

Di Debora Pannozzo

Pubblicato il 15 Giu. 2022

Nel libro La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale si percorre un viaggio all’interno della Terapia Cognitivo Comportamentale (Cognitive Behavioral Therapy; CBT), dai suoi esordi fino ad arrivare agli sviluppi più recenti.

 

Ciascun approccio viene presentato sostenendo l’importanza della formulazione condivisa del caso, base unica per una efficace gestione dell’alleanza terapeutica e della relazione, da cui dipende il risultato del trattamento.

Se è vero che per raggiungere obiettivi clinici è necessario intervenire a livello trattamentale, ciò risulta impossibile senza una chiara visione, nella mente del terapeuta, del caso clinico, ovvero delle cause della sofferenza del paziente. L’orientamento CBT è basato sulla collaborazione ed il paziente gioca un ruolo attivo nel percorso del suo cambiamento: senza una chiara visione del suo disturbo, difficilmente riuscirà a muoversi consapevolmente verso obiettivi chiari.

Per tale motivo non si può prescindere da una preliminare formulazione condivisa del caso clinico. Inizialmente utilizzata all’interno della psicoterapia comportamentale, che applicava i principi della teoria dell’apprendimento, essa veniva schematizzata in antecedenti, risposte comportamentali e conseguenze, fornendo un’analisi funzionale del comportamento. In tal modo era possibile identificare specifiche situazioni attivanti il comportamento disfunzionale e ciò che lo rinforzava, mantenendolo attivo.

Aspetto centrale di tutti gli approcci CBT è il principio clinico cognitivo per il quale i disturbi emotivi dipendono da contenuti mentali distorti che possono essere rielaborati attraverso la riattribuzione verbale cosciente. Ciò presuppone che ciascun evento, interno o esterno, venga elaborato e valutato in termini cognitivi, conducendo, di conseguenza, a specifiche risposte, emotive e comportamentali. Non è, dunque, l’evento specifico, come erroneamente spesso il paziente crede, a condurre alla risposta, in quanto quest’ultima è mediata dal soggetto stesso, ovvero dal suo sistema di credenze e convinzioni. Laddove si verifica un cambiamento comportamentale, si presuppone, pertanto, uno shift cognitivo verso sistemi di pensiero maggiormente funzionali.

Tali punti vengono approfonditi nei vari approcci CBT in maniera differente, al punto da condurre a diverse formulazioni del caso.

Beck, padre della Terapia Cognitiva, attenziona le ‘credenze negative sul sé’, quali colpevoli dirette del disturbo psicologico: rendere il paziente cosciente dei suoi bias cognitivi lo porterebbe, nel lavoro clinico, a poter togliere le lenti distorte, per guardare il mondo con occhi differenti. Sebbene Beck abbia parlato fin dall’inizio di empirismo collaborativo, le critiche mossegli dai costruttivisti riguardano la matrice eccessivamente direttiva e meccanicistica, nonché razionalista, di tale modus operandi, che vedrebbe, almeno all’inizio, il paziente essere spettatore passivo di tale disvelamento. Beck ha, comunque, il merito di aver incluso, fin dall’inizio, la formulazione condivisa del caso nella procedura terapeutica, pur utilizzando un nome differente. Il terapeuta utilizza le componenti del Diagramma di Concettualizzazione Cognitiva (Cognitive Conceptualization Diagram [CCD]; Beck, 2011), focalizzando credenze centrali, credenze intermedie e strategie di coping, al fine di condividere con il paziente un modello della psicopatologia, volto a favorire la defusione dai pensieri.

A partire dall’identificazione dei pensieri automatici, in seno a situazioni specifiche, si procede con la tecnica del downward arrow (freccia verso il basso), per disvelarne il significato personale e profondo, ovvero per identificare i bisogni dell’individuo.

La CBT standard, almeno nella sua formulazione esplicita, sembra trascurare il ruolo svolto dagli scopi, ovvero dalle motivazioni e dai piani, senza i quali le credenze svolgerebbero una mera funzione epistemica. Particolarmente rilevanti sono, in tale ottica, gli anti-scopi sovrainvestiti, ovvero gli scenari temuti, inaccettabili nella mente del paziente. Un caso ben formulato deve individuare non solo l’anti-scopo, che blocca il paziente, ma anche gli obiettivi sani, che fungono da bussola per la psicoterapia.

Senza conflitti tra scopi, le credenze perdono qualsiasi colore emotivo e non possono acquisire potere patogeno.

L’essere umano disinveste uno scopo laddove questo viene percepito come improduttivo, troppo costoso, o quando è legittimo o doveroso ridurlo.

Nella Terapia Emotiva Razionale del Comportamento (Rational-Emotive Behaviour Therapy; REBT) di Ellis, il terapeuta condivide sin da subito i principi ed il razionale del trattamento, ovvero la procedura ABC-DEF, sottolineando la connessione B-C (pensieri-comportamenti). A partire dall’analisi degli obiettivi funzionali (F), il terapeuta mette in discussione, attraverso la disputa (D), le credenze irrazionali, al fine di perseguire il pensiero funzionale, o nuovo effetto (E).

A differenza della CBT, nella REBT siamo di fronte ad una formulazione del problema, piuttosto che a una formulazione del caso: ogni singolo ABC-DEF è relativo ad una singola situazione e non ricondotto ad una struttura di credenze di base.

Dalla fine degli anni Novanta si assiste ad una svolta nel panorama delle scienze cognitive applicate alla psicoterapia, con l’affermarsi delle terapie di processo di ‘terza ondata’, quali l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), la Dialectical Behavior Therapy (DBT), la Functional Analysis Psychotherapy (FAP).

A differenza di quanto pensava Beck, i modelli di processo della terza ondata suggeriscono che i disturbi emotivi non dipendono da rappresentazioni mentali distorte di sé, bensì sono il frutto dell’interazione disfunzionale tra processi volontari e regolatori, quali attenzione e controllo esecutivo, e processi associativi automatici, carichi emozionalmente.

Se nella CBT tradizionale il focus terapeutico era il cambiamento, tali approcci raccomandano flessibilità nel bilanciare accettazione e cambiamento.

Nella Schema Therapy di Jeffrey Young la formulazione del caso assorbe elementi processuali, mantenendo un forte interesse per gli schemi del sé, che, tuttavia, mostrano anche un forte aspetto emotivo ed interpersonale. Tali caratteristiche interpersonali, i cosiddetti modes, risultano modelli stereotipati e inflessibili, nati dalle esperienze infantili. In tal modo l’attenzione si sposta dal momento presente alla storia di apprendimento del paziente, con lo scopo di identificare i momenti salienti in cui ha interiorizzato credenze patogene, che verranno trattate in terapia con l’imagery, il role playing, la rieducazione esperienziale.

Il testo propone nella parte finale il modello LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased Beliefs, Elicitation and Treatment; Sassaroli et al., 2016). Con l’obiettivo di fornire al paziente una spiegazione del suo disturbo emotivo e al fine di monitorare i progressi della terapia vengono analizzati tre diversi ABC:

  • ABC del presente (problema attuale);
  • ABC di apprendimento (episodi di esperienza e apprendimento di temi e piani);
  • ABC di invalidazione (episodi precipitanti e/o insorgenza del problema).

Una volta raccolti gli episodi, questi vengono riassunti in temi di vita (stati mentali di attenzione focalizzata sulle sensibilità emotive rappresentate nella coscienza come credenze di sé) e piani semi-adattivi (rigide strategie di gestione dei temi di vita).

Dunque, il processo di concettualizzazione consiste nella costruzione del modello clinico, e questa è tra le più sofisticate abilità del terapeuta. Negli approcci CBT, i clinici, spesso assorbiti dall’esplorazione delle credenze irrazionali e delle distorsioni cognitive, hanno potuto sottovalutare la condivisione esplicita della formulazione del caso, dandola per scontata.

Nel corso del tempo, una crescente consapevolezza sembra essere emersa nella letteratura CBT: è necessario istruire esplicitamente il terapeuta a condividere la formulazione del caso con il paziente. È facile perdere questa consapevolezza perché troppi passi possono sembrare ovvi agli occhi del terapeuta, il quale quindi rischia di non condividerli con il paziente.

La formulazione del caso deve essere il primo passo nella presa in carico del paziente e deve essere condivisa, al fine di favorire l’alleanza di lavoro; tuttavia, non è da intendersi come uno schema definitivo, ma, al contrario, può essere revisionato, modificato, arricchito in corso d’opera. Al suo interno occorre includere fattori predisponenti, precipitanti, di mantenimento e fattori protettivi: occorre capire cosa ha generato lo scompenso e su quali risorse può contare il paziente.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ruggiero, G. M., Caselli, G., Sassaroli, S. (a cura di). (2022). La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale - Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro. Edizioni Centro Studi Erickson.
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