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Tre caratteri (2022) di Christopher Bollas – Recensione del libro

Nel suo nuovo libro 'Tre caratteri' Christopher Bollas, fa riferimento a narcisista, borderline e maniaco-depressivo esponendo la sua chiave di lettura

Di Marvin Rosano

Pubblicato il 19 Apr. 2022

La chiave di lettura di Bollas in Tre caratteri, sta nel far arrivare il messaggio che “non esistono due borderline, due maniaco- depressivi e due narcisisti uguali”, ponendosi pertanto in una posizione che miri ad allentare la tendenza di molti clinici a patologizzare ai limiti della disumanizzazione del paziente.

 

La radice di tutti i disturbi del carattere è il dolore mentale e il vantaggio rappresentato da ogni struttura caratteriale consiste nel fatto che la sua ripetitività rende individuabile la sofferenza della persona (Bollas, 2022).

Questa è una delle parti introduttive del testo di Bollas, in cui l’autore sottolinea la peculiarità, nonché il “particolare” a detta di Recalcati, di ogni struttura di personalità, non trascurando il continuum dimensionale nel livello di funzionamento della persona. Ciascun disturbo del carattere, scrive Bollas, preclude la fecondità ricettiva e disseminativa della personalità e ne consegue, quindi, quanto nella relazione d’aiuto sia importante che il clinico/terapeuta, si permetta di entrare in risonanza con quelle che sono le strategie utilizzate dal paziente. In quelle strategie, in quel modo di stare con se stesso e con gli altri che il paziente riporta, c’è molto di una dimensione esistenziale connessa alla sopravvivenza ed emerge quindi un tentativo “intelligente” di trovare una soluzione ad un’angoscia esistenziale intollerabile. In questo processo quindi, che si ricollega alla “coazione a ripetere” esposta da Freud (1920), ci sono anche delle risorse. Se pertanto il clinico permette a se stesso e al paziente di stare nel processo, in una dinamica di “attenzione fluttuante”, di tollerare l’assenza di un’interpretazione da riferire al paziente e quindi di accogliere i propri stati e gli stati della mente del soggetto per come si presentano nel “qui e ora della relazione”, incentiva anche la possibilità di coltivare quelli che Winnicott definisce “spazi potenziali”. Viene colta in questo la “specifica intelligenza e configurazione del soggetto”, che, a detta di Bollas, viene incoraggiato a “farne uso” nell’imprevedibilità e nell’ingovernabilità che l’esperienza umana porta con sé. Bollas scrive:

Cogliere la specifica intelligenza e aiutare l’analizzando a comprenderla, è ciò che permette un naturale processo di disintossicazione.

Nello specifico, l’autore, fa riferimento a tre caratteri: il narcisista, il borderline e il maniaco-depressivo. Queste strutture di personalità risultano già ampiamente analizzate e discusse nella letteratura psicoanalitica e quindi, come evidenziato dall’autore, prendono in considerazione elementi scelti dai saggi di clinici come Kohut, Kernberg, Winnicott ecc.. Purtuttavia, la chiave di lettura di Bollas, sta proprio nel far arrivare il messaggio che “non esistono due borderline, due maniaco- depressivi e due narcisisti uguali”, ponendosi pertanto in una posizione che miri ad allentare la tendenza di molti clinici a patologizzare ai limiti della disumanizzazione del paziente. In ciò, danno al soggetto l’incentivo a porsi come “vittima delle circostanze” e quindi a fuggire il cambiamento psichico e qualunque esperienza di trasformazione. Ma andiamo per ordine.

Tre caratteri: la struttura narcisistica

La prima configurazione caratteriale presentata da Bollas è quella narcisistica. Caratteristica centrale dell’universo narcisistico è l’immagine di sé e la richiesta di attenzione con cui il narcisista pressa l’altro al fine di alimentare un’omeostasi di idealizzazioni contingenti. Bollas, in questo, fa riferimento al “contratto narcisistico”, in cui l’idea prevalente alla base della sopravvivenza sta nell’introdurre l’altro in una realtà creata da lui, e in cui possono emergere credenze che si estrinsecano in: “Ti incoraggio ad esaltare te stesso; tu fai lo stesso con me; insieme offriamo un servizio agli altri”. È questo ciò che può essere definito un innesto relazionale rassicurante e che porta con sé un senso di trionfo sulla realtà, in cui il sé grandioso e l’invulnerabilità emergono all’insegna di quello che Recalcati definisce “fantasma sacrificale” e di un vuoto, come esito di un sé considerato più affidabile rispetto all’altro e quindi di isolamento psichico. Di fatto, ciò che emerge, secondo Bollas, è l’assenza di una struttura interna, compensata dalla costruzione di un sé ideale. Non vi è quindi la possibilità di un abbondante nutrimento interno e ciò promuove un’intensificazione dell’avidità, in cui il sé risulta fagocitato in un senso di insoddisfazione senza soluzione di continuità. Il contatto con l’altro, con la realtà, viene costantemente svuotato di possibilità trasformative. Il narcisista non può coinvolgersi autenticamente con l’altro, non può darsi il permesso di sentirsi reale e quindi vulnerabile. In un contesto terapeutico, egli può essere vissuto come un ascoltatore attento ma, di base, ogni commento positivo rivolto dal terapeuta, viene consumato rapidamente e non per essere elaborato e trasformato come punto di partenza per un pensiero ulteriore, ma per essere ingerito. Quindi, scrive Bollas, egli funziona nella posizione Bioniana -k, in cui gli stimoli in entrata rimangono grezzi. Ciò implicherebbe il cedere ad una dimensione di affidabilità e dipendenza, insita in ogni rapporto sano e che, in questo caso, è stato perlopiù vissuta all’insegna delle aspettative degli altri significativi e delle possibili ricompense, in un circolo vizioso fondato su un insostenibile bisogno di riconoscimento e ammirazione. Kohut, in merito, scrive:

Essendo questi individui, minacciati nel mantenimento di un sé integrato, perché nella loro infanzia sono mancate adeguate risposte di conferma (rispecchiamento) da parte dell’ambiente, si sono rivolti alla stimolazione del sé per conservare la coesione precaria del loro sé che sperimenta e agisce”.

Il bambino quindi dà inizio alla propria linea di sviluppo narcisistico, in cui il sé diventa il legislatore di sé stesso. Il terapeuta può spesso fare esperienza di un intenso stato di annullamento, l’impressione di essere “tagliato fuori”. Ciò mira a costringere l’analista nel fare ammenda e dare spazio pertanto ad una violenta rivendicazione di “innocenza”. Per esempio, il soggetto può uscirsene con affermazioni del tipo: “Non so davvero di cosa stia parlando”. Ciò che il terapeuta dice, va a collidere con il legislatore interno, il quale, però, non va confuso con una struttura super-egoica rigida, ma invece rispecchia proprio un’assenza di struttura, un sé ideale, un oggetto/sé grandioso-onnipotente a detta di Kohut, il grande Altro a detta di Recalcati. Questo legislatore interno, nega l’esistenza dell’altro, allo scopo di annientare l’ordine materno fagocitante e tuttavia di mantenere un sé potenziale incontaminato. Emerge quindi la mancanza nella possibilità di coltivare in maniera sana quelli che Winnicott definisce “fenomeni transizionali”. In particolare, egli fa riferimento a delle aree intermedie di esperienza tra l’esperienza interna e l’esterno. Relazioni “sufficientemente buone” con i caregiver, in cui, inizialmente quest’ultimo si adatta in maniera quasi perfetta ai bisogni del bambino, per poi dare spazio graduale al raggiungimento di un equilibrio tra esperienze di “illusione e delusione”, portando l’individuo ad acquisire un “senso di sicurezza nel cambiamento” e quindi a fare esperienza della frustrazione come uno “stato mentale” con dei limiti temporali. Il caregiver dà al bambino la possibilità di illudersi, fin quando non sarà possibile che cominci a svilupparsi la capacità di una relazione con la realtà esterna. Winnicott scrive: “La madre colloca il seno, laddove il bambino è pronto a crearlo” (Winnicott, 1965). Questo evidenzia come, senza sufficienti occasioni di illusione, di onnipotenza, di contingenza quasi perfetta, non ci possa essere per l’essere umano alcun significato o, per meglio dire, nessuna possibilità trasformativa che derivi dall’incontro con la realtà esterna. Le aree intermedie di esperienza, se coltivate con continuità durante il percorso di vita, costituiscono la base per la creatività e per incontrare l’altro su un piano umano. Ora, secondo Bollas, il bisogno del narcisista di essere rispecchiato, si estrinseca in quello che Winnicott definisce “madre ambiente” e quindi in tutta una serie di oggetti che permettono di mantenere l’omeostasi rassicurante di una realtà creata da lui. Emerge quindi la fantasia di “autocreazione” come trionfo, ma in questa “autocreazione”, in questo nutrimento autoerotico, si percepisce chiaramente, secondo Bollas, “l’impossibilità di creare”. L’autore lo sottolinea in merito a quello che lui definisce “narcisismo negativo”. La distruzione, per lui, rappresenta un’alternativa alla vita creativa, fornendo nondimeno un sentimento di potere compensatorio a ciò che non vi è stato. È in questa condizione che si può cogliere in modo particolare la tirannia del legislatore, o come Bollas lo definisce con un linguaggio a mio parere alquanto evocativo, “Il leader mafioso”. In questa configurazione narcisistica negativa, il soggetto scinde gli aspetti amorevoli di sé con quelli che si comportano come una gang guidata da un mafioso. Egli reperisce il nutrimento nell’onnipotenza della distruttività, nell’odio, dinamiche che spesso emergono nel fondamentalismo e che può portare a dimensioni deliranti. Il soggetto, in questo caso, si identifica con un grande altro, secondo Yalom, un salvatore ultimo con il quale sancire una dimensione contrattuale che gli consenta di salvaguardare la propria innocenza. Infatti, in questo può impegnarsi in azioni missionarie, guidato da quella che nel testo viene definita “autorizzazione alla confessione”, in cui può sembrare che stia empatizzando e comunicando con gli altri in maniera autentica, ma in realtà si sta occupando di ripristinare l’idealizzazione. È un dare, un debito verso l’altro che in realtà contiene l’aspettativa di ricompensa e credito, di accumulare punti per un’immagine di sé incontaminata e che lo esoneri completamente da un senso di responsabilità verso la propria vita. Ovviamente, in tutto questo, ciò che prende rilievo, è una componente di “vita non vissuta” che non può essere tollerata, e quindi viene negata. Tuttavia, secondo Bollas, ad un certo punto dell’esistenza del narcisista, emerge una profonda angoscia esistenziale, che può portare l’individuo a sperimentare uno stato depressivo di rilevanza clinica non indifferente. L’individuo semplicemente interrompe ogni modalità di funzionamento: si mette a letto, guarda la tv e parla a monosillabi. Cosa sta avvenendo? Egli comincia a sentire che la vita non ha significato e inizia un incontro con la realtà della morte. Questo, per Bollas, rappresenta il ritorno dell’ucciso.

Ma cosa lo spinge a chiedere la terapia? In genere, è proprio l’emergere della dimensione depressiva e di deterioramento somatico, che lo porta a chiedere aiuto e che in alcuni casi può manifestarsi in una depressione psicotica. Di fondo, dopo decenni di diniego della realtà mentale e del dolore annesso, il narcisista ha imparato automaticamente a funzionare soltanto all’insegna del sé grandioso, soffocando pertanto le parti non psicotiche della propria struttura di personalità e sviluppando quindi una soglia di attivazione più bassa al funzionamento psicotico. Insomma, in parole semplici, non ha avuto possibilità di coltivare altri modi di funzionare e stare con se stesso. Pertanto, quella che è stata definita prima come angoscia esistenziale, viene alimentata proprio dal sé grandioso compensatorio, che soffoca l’esplorazione di altre parti del sé. Così, ad un certo punto della vita, queste difese crollano e l’angoscia di morte diventa intollerabile. D’altronde, come afferma Yalom: “Più elevata è la componente di vita non vissuta, più alta è l’angoscia di morte” (Yalom, 1980). Nel testo, vengono presentati alcuni assiomi della logica narcisistica e quello che può, a mio avviso, rappresentare di più il periodo in cui il soggetto abbia maggiore probabilità di chiedere aiuto, è il seguente: “Devo infine sperimentare l’ineluttabilità della scomparsa delle mie illusioni e affrontare il creatore con me stesso come assassino” (Bollas, 2022). Secondo Bollas, per il paziente narcisista, da un punto di vista clinico e terapeutico, risulta di rilevante importanza il concetto di “transfert idealizzante” elaborato da Kohut. Infatti, egli argomenta che, per consentire al paziente di sperimentare un’esperienza di intimità, è importante che la relazione terapeutica offra un’alternativa alla vita delirante. In pratica, sottolinea Bollas, è fondamentale che, nella relazione terapeutica, il paziente venga rispecchiato nelle sue “proteste”. Nel dialogo con Sacha Bollas, nella parte finale del libro, l’autore mette in risalto questo punto, facendo l’esempio di un potenziale paziente che si lamenta degli immigrati e del fatto che egli sia convinto che, a causa loro, la sua propria vita stia andando distrutta. È importante che il terapeuta verbalizzi la protesta del paziente, rispecchiando quindi il suo punto di vista. Così, lo incoraggia anche ad entrare in contatto con altri punti di vista e quindi altre parti di sé. Ciò permette anche di dare “spazio psichico” a quella che si presenta come una convinzione ben radicata e quindi consente anche un processo di mentalizzazione. In poche parole, Bollas aspetta che “il paziente corregga sé stesso”.

Tre caratteri: la struttura borderline

Altra configurazione trattata è la struttura borderline, alla cui base, secondo l’autore, c’è il bisogno di questi soggetti di introdurre il dolore nel sé per appropriarsi dell’ombra dell’oggetto. Egli afferma: “Il borderline amplifica il dolore in un abbraccio frenetico”. In particolare, la mancanza di continuità dell’esperienza del sé e dell’altro, cristallizzata nelle esperienze di attaccamento con caregivers in cui emerge il carico di un’imprevedibilità angosciante. Il soggetto, quindi, vive un senso di sé estremamente confuso e un’altrettanta spinta ad evacuare all’esterno di sé stati della mente in cui l’esperienza della realtà è sopraffatta da un dolore intollerabile. Bollas evidenzia quello che risulta essere il contratto bordeline e, nello specifico, come in questa dinamica emerga il senso di confusione del terapeuta. Emerge un’ossessione dubitativa tra ciò che sia reale o meno con un quesito che esprime abbastanza chiaramente l’angoscia sottostante: “È l’altro a provocare questo dolore oppure il paziente sta proiettando nell’altro il negativo?”. Naturalmente alla base di questa dinamica, c’è l’utilizzo dell’identificazione proiettiva. Bollas parla di un’identificazione proiettiva eviscerativa, per cui il particolare perde la propria identità e che porta il soggetto a non poter riportare i dettagli dell’esperienza con se stesso e con l’altro, ma soltanto degli slogan astratti, delle allegorie (Bollas, 2022). Quindi, alla base di questo contratto, vi è un mondo di “relazioni abortite” basate sulla turbolenza, senza soluzione di continuità, con immagini, sensazioni, emozioni, pensieri guidati da un interruttore, il cui pilota automatico le incastra in compartimenti che non comunicano tra di loro. L’altro viene idealizzato, per poi mutare radicalmente. Il borderline, vive in una sorta di autoannullamento, in un costante stordimento alimentato da una scissione interna e quindi alla ricerca costante di un altro come contenitore di stati mentali intollerabili. Lo spazio della terapia, sottolinea Bollas, in quanto spazio potenziale, può essere vissuto come un buco nero. La cronicità della paura, della rabbia, della vergogna, dell’angoscia, rende per esempio insopportabile l’imprevedibilità delle libere associazioni. A proposito della rabbia, Bollas, fa una distinzione fondamentale tra la rabbia narcisistica e quella borderline. La prima nasconde la paura che l’equilibrio omeostatico del sé grandioso possa venire destabilizzato, e quindi un tentativo di ripristinarlo. La seconda, invece, fa riferimento al fulcro di quello che l’autore definisce “intimità borderline”. Egli scrive: “La rabbia è l’oggetto primario ed egli la intensifica al fine di intensificare la relazione oggettuale”. Questo perché, alla base degli assiomi della logica borderline, secondo Bollas, sta l’affermazione: “Non possiedo un senso originario di chi sono ma possiedo un “me” che si instaura in una reazione ad un altro che arreca disturbo. Reagisco a quello che fai tu” (Bollas, 2022). Altro aspetto fondamentale sottolineato da Bollas, di cui ho accennato all’inizio, è il suggerimento per clinici e terapeuti di non collassare sul deficit. Ciò, non farebbe altro che rinforzare la struttura borderline e l’angoscia di separazione, in una dinamica difensiva che non farebbe altro che proteggere entrambi dalla paura del cambiamento psichico. Un ultimo, a mio avviso, importante aspetto che viene sottolineato da Bollas, a proposito del borderline, riguarda quella che lui definisce “scissione per opera dell’altro”. Il soggetto è stato scisso per opera di un altro caleidoscopico. Il sé diventa quindi uno strano contenitore di compiti casuali, venendo a mancare quindi, quella che Winnicott definisce continuità del sé e pertanto reazioni automatiche ad un altro “disturbante”.

Tre caratteri: la struttura maniaco depressiva

Ultima configurazione presa in esame, è il maniaco depressivo. Caratteristica fenomenologica centrale, evidenziata da Bollas, è che questi individui risultano essere un vulcano di idee. Durante la fase maniacale, questi soggetti, parlano ad una velocità sorprendente e l’autore, durante la propria esperienza terapeutica con loro, permettendosi di ascoltarli liberamente, si rende conto che in realtà essi stiano producendo libere associazioni. Alla base del processo di cambiamento secondo Bollas, vi è quello che lui definisce “rallentamento terapeutico”. Egli si focalizza sulla raccolta della storia del paziente, guidandolo sotto il peso dei ricordi, dinamica che, di per sé, rallenta l’episodio maniacale. Questo sancisce il legame con la quotidianità del soggetto, restituendogli pertanto il contesto della propria mania e il recupero di parti depressive scisse. In questo senso, il terapeuta stesso costituisce un elemento depressivo. Ma quale background contribuisce all’accelerazione maniacale e alla conseguente caduta depressiva con sentimenti di perdita di agentività e distruzione di significato?

Partendo dal presupposto che entrambe costituiscano una sorta di immunizzazione psichica contro il lavoro di insight, il soggetto cresce in un clima di accudimento in cui nessuno lo sta ascoltando perché nessuno ha il tempo di farlo. Allora, in queste condizioni, la mente del bambino accelera ulteriormente per dimostrarsi più interessante. Gradualmente si va intensificando una condizione in cui la trascuratezza da parte delle figure di accudimento porta l’individuo ad attingere a una indispensabile fonte di nutrimento della mente, la quale però viene percepita come abbastanza separata da lui. Nasce quindi una segreta collaborazione tra le menti di autori, musicisti, artisti e la sua mente, il tutto nell’ottica di una fuga da un sé banale, sperimentato con un’impotenza estrema durante la fase depressiva. In questo stato, egli vive un abbandono da parte della mente. Si percepisce come un angelo caduto e quindi vive nell’ombra dell’epoca d’oro della sua mente, nell’inerzia più totale di un ritorno tra i morti viventi. Nello stato maniacale, la mente costituisce il salvatore ultimo e che molto spesso conduce all’identificazione con Dio e alla consegna della sua parola. La ripetuta esperienza di non essere ascoltati, porta ad un’identificazione proiettiva con un sé che non ascolta nessuno. Proprio in relazione all’esperienza di non essere stato ascoltato, emerge uno stato cronico di rabbia, che emerge durante la fase depressiva, che risulta connessa al senso di ingiustizia e tradimento legato al destino depressivo e che è diretta principalmente ai genitori che lui ritiene abbiano soffocato la propria vitalità. Per lui è fondamentale convertire gli altri al proprio modo di vedere il mondo. Il maniaco depressivo quindi mette in atto un continuo processo di suzione dalla propria mente e, in terapia, il terapeuta può sentirsi coinvolto in maniera controtransferale in questa dinamica. Il tutto per fuggire dalle potenzialità trasformative offerte da una “mente differente” e quindi dalla relazione autentica con l’altro. Ma la “mente differente”, e quindi l’esperienza della “separatezza del pensiero del terapeuta”, pur rappresentando un forte elemento depressivo e quindi un incontro con “la morte”, tuttavia rappresenta uno spazio potenziale in cui le libere associazioni smontano il senso di grandiosità e i significati che il paziente presumeva di aver compreso.

Conclusioni

Vorrei terminare la recensione di questo testo sottolineando uno dei temi che a mio parere risulta centrale all’interno dello scritto. Mi riferisco all’incontro con la morte. In tutte le configurazioni caratteriali prese in esame, c’è un quantitativo intenso di “vita non vissuta”. In seduta, è come se il paziente intimasse al terapeuta: “Non azzardarti a riportarmi in vita”. Carotenuto, in merito, riporta il tema dell’individuazione e come la “vita non vissuta”, in realtà contenga la paura di affrontare un altro stadio dell’esistenza, un modo maggiormente consapevole di approcciarsi alla sofferenza e quindi a quel passaggio che equivale alla morte. Carotenuto scrive:

Scegliere di crescere, implica anche un simbolico gesto suicida, una tensione alla trasformazione che il dolore dell’anima rende improcrastinabile (Carotenuto, 1991).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bollas, C. (2021). Forze del destino. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Carotenuto, A. (1991). Amare, tradire. Quasi un’apologia del tradimento. Milano: Casa editrice Bompiani
  • Kohut, H. (1977). Narcisismo e analisi del sé. Torino: Bollati Boringhieri
  • Recalcati, M. (2017). Contro il sacrificio. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Yalom, I. D. (2019). Psicoterapia Esistenziale. Vicenza: Neri pozzi Editore
  • Winnicott, D. (2018). Sviluppo affettivo e ambiente. Roma: Armando Editore
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