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La dimensione psicosociale dei disturbi neurocognitivi

Gli interventi per i disturbi neurocognitivi dovrebbero focalizzarsi sulla persona più che sulla malattia puntando su quanto può aiutarli a vivere al meglio

Di Irene Raffagnini

Pubblicato il 22 Apr. 2022

Nel trattamento dei disturbi neurocognitivi si sta passando da un’ottica centrata sulla malattia ad un’ottica centrata sulla persona, tenendo in considerazione la volontà e le motivazioni del paziente ad essere agente attivo della propria cura.

 

L’impatto di un disturbo neurodegenerativo differisce fortemente in base alle caratteristiche del paziente, della famiglia e del contesto ambientale in cui è inserito. Considerare gli aspetti puramente medici è un approccio utile, ma non sufficiente a comprendere a fondo cosa caratterizza questi disturbi a livello individuale e sociale. Infatti, se da una parte l’ottica biomedica ha permesso di attuare grandi passi nella ricerca, dall’altra rischia di indurre a sottovalutare aspetti molto importanti che influenzano sia l’esordio che il decorso della malattia.

Un cambiamento di approccio

Ormai da qualche decennio l’approccio elettivo della scienza psicologica è il modello biopsicosociale, concettualizzato da Engel nel 1977 ed improntato a contrastare i riduzionismi che il modello biomedico apporta. Un esempio classico di riduzionismo si può ritrovare nella concezione di un dualismo mente-corpo, che porta ad immaginare la psiche divisa dal soma e comporta di conseguenza una frammentazione corporea corroborante, tra gli altri, i disturbi psicosomatici riscontrabili in numerose persone. Il modello biopsicosociale si basa sulla teoria generale dei sistemi e mira a superare la causalità diretta che si credeva fosse alla base delle malattie, individuando invece come ci sia una presenza di fattori multipli in una ottica di causalità circolare (Delle Fave e Bassi, 2013). In questa concezione, si può pensare ai disturbi neurocognitivi come causati da – e causanti – una complessa rete di problematiche presente a livello biologico, psicologico e sociale. Vi è stato quindi un ripensamento della salute in termini soggettivi più che oggettivi, concentrandosi maggiormente sulla prevenzione a priori piuttosto che sulla cura a posteriori, seppur riconoscendo l’importanza di entrambe. Il significato di questo è esemplificabile attraverso il cambiamento in atto nel trattamento delle malattie neurodegenerative: si sta passando da un’ottica centrata sulla malattia ad un’ottica centrata sulla persona, tenendo in considerazione la volontà e le motivazioni del paziente ad essere agente attivo della propria cura (Converso, 2015).

L’approccio centrato sulla persona

L’approccio centrato sulla persona è stato inizialmente introdotto da Balint negli anni ’40, il quale sottolineava la necessità di comprendere il paziente nella sua umanità e unicità, ponendo attenzione soprattutto alla rappresentazione soggettiva della malattia da parte del paziente, contrapposta alla malattia organica a sé stante (Michie et al., 2003). In inglese, i due termini si possono tradurre rispettivamente con illness e disease, permettendo di differenziare le due componenti (Eisenberg, 1977). L’approccio è una filosofia di cura che si basa sul modello biopsicosociale e sulla visione del paziente come persona, considerando il suo vissuto, i suoi stili di coping e le risorse individuali e ambientali che gli permettono di adattarsi alla malattia. Tra professionista e paziente vi è una condivisione di potere e di responsabilità che si esplicita in un percorso terapeutico costruito insieme, valorizzando l’esperienza e le aspettative di entrambi (Delle Fave e Bassi, 2013).

In definitiva, si dovrebbe cercare di costruire una alleanza terapeutica, promossa soprattutto da atteggiamenti come empatia, coerenza, disponibilità ed apertura incondizionate. Infatti, è compito del professionista facilitare l’alleanza terapeutica, poiché è proprio questo – insieme ad una modalità di coinvolgimento attiva – che influisce sulla futura aderenza al trattamento.

Impatto sul trattamento dei disturbi neurocognitivi

Un documento pubblicato nel 2016 dalla British Psychological Society, intitolato Psychological Dimensions of Dementia: Putting the Person at the Centre of the Care, esprime chiaramente che cosa significa adottare un approccio centrato sulla persona nell’ottica dei disturbi neurocognitivi. Gli interventi devono focalizzarsi sulla persona invece che sulla malattia, con una enfasi su ciò che può aiutare questi pazienti a vivere la miglior vita possibile, permettendo loro di assumere potere decisionale e di essere attivi nella loro cura. Il modo migliore per diagnosticare, trattare e supportare gli individui affetti da disturbi neurocognitivi, e le patologie croniche progressive in generale, è attraverso un team multidisciplinare che include medici, infermieri, operatori sanitari, psicologi e psicoterapeuti (Converso, 2015). L’elemento chiave è non far perdere il senso di controllo, l’identità e connessione con le persone, per quanto i deficit cognitivi lo permettano, durante tutte le fasi della malattia. Inoltre, aumentare i contributi psicologici in questo campo ha molti benefici, tra i quali diagnosi più precoci, meno disagio psicologico, una riduzione del bisogno di farmaci, una riduzione dei pazienti in case di riposo ed una maggior qualità di vita degli anziani.

I temi affrontati nel documento sono prevenzione, assessment, pianificazione della cura e trattamento.

Prevenzione

Innanzitutto, prevenire significa ridurre il rischio di mortalità e morbilità e prolungare la tempistica dell’esordio (Middleton e Yaffe, 2009). Si fonda su una rete complessa di fattori come i geni, lo stile di vita e l’ambiente, ed è particolarmente vantaggiosa per le forme non prevalentemente genetiche di disturbo neurocognitivo, come può essere l’MCI, il morbo di Alzheimer e la demenza vascolare (Escher, 2019). È stato stimato, infatti, che un terzo dei casi di Alzheimer è attribuibile a fattori biopsicosociali potenzialmente modificabili come la ipertensione arteriosa, l’obesità, l’inattività fisica, la depressione, il fumo e la bassa scolarità. La letteratura concorda nel considerare la presenza di multipli fattori di rischio come un indice importante che porterebbe ad una precisione diagnostica maggiore. Per quanto riguarda i fattori di protezione, l’impegno sociale, l’attività fisica, la stimolazione cognitiva e una dieta sana sono tra quelli più accreditati, incrementati da interventi di prevenzione e promozione della salute basati su teorie motivazionali e di cambiamento comportamentale.

Assessment

L’assessment può essere definito come il processo diagnostico che inevitabilmente cambierà la vita della persona affetta da demenza. Dato che sottoporsi ad esso può creare un forte disagio, il supporto psicologico a priori e a posteriori è essenziale. Esso è utile in quanto permette di ascoltare le preoccupazioni del paziente e tranquillizzarlo, assicurando che comprenda le informazioni che gli vengono date e portandolo a capire che non verrà lasciato solo ad affrontare questo cambiamento. Le sedute di counseling a questo proposito si rivelano adatte, poiché permettono di concentrarsi sul problema specifico riguardante il disturbo neurocognitivo, dando anche informazioni sui test neuropsicologici, la loro natura e i possibili risultati. È importante assicurarsi il consenso informato del paziente per fare in modo che comprenda in che cosa consiste il procedimento diagnostico e quali sono le sue opzioni. La comunicazione della diagnosi deve essere fatta in maniera sensibile, con alcune linee guida da seguire, rivolte agli psicologici ma soprattutto ai medici che non hanno ricevuto un training specifico in questo.

Pianificazione della cura

L’aderenza al trattamento si basa spesso sui meccanismi di difesa e sulle strategie di coping messi in atto successivamente alla comunicazione della diagnosi (Delle Fave e Bassi, 2013). Vi sono pazienti che la accettano e si attivano per migliorare la situazione, mentre altri la negano o la sottovalutano, probabilmente per non subire la pressione psicologica di una comunicazione così nefasta. La non consapevolezza della malattia può comunque essere data dai deficit cognitivi, se questi sono già abbastanza avanzati, e in quel caso la pianificazione viene svolta principalmente con il caregiver e la famiglia, tenendo in considerazione la probabile volontà del paziente. Il supporto deve essere il più possibile individualizzato ed è rilevante mantenere contatti regolari che, oltre all’aspetto più prettamente clinico, svolgono il ruolo di ancorare alla realtà e instaurare un senso di fiducia e connessione, mitigando l’impatto di alcuni sintomi.

Il trattamento

La tematica finale riguarda il trattamento, nel quale l’aspetto farmacologico dovrebbe essere corredato da interventi psicosociali evidence-based (non solo cognitivo-comportamentali, ma anche sistemici, psicodinamici etc..) a supporto del paziente e della famiglia (Brodaty et al., 2003). Gli interventi più efficaci in questo ambito rimandano alla creazione di un senso di appartenenza, come la creazione di comunità di anziani affetti dalle stesse problematiche che si impegnano in attività di reminiscenza collettiva, stimolazione cognitiva, attività creative, stimolazione sensoriale e così via. Il supporto sociale e la creazione di una rete amicale permetterebbero un aumento del benessere con conseguente diminuzione del bisogno di farmaci.

Gli interventi dovrebbero essere volti anche ad aiutare la transizione del paziente in una casa di riposo dato che può essere destabilizzante sia per quest’ultimo che per la famiglia. A questo proposito, è stato messo in luce come la maggior parte dei pazienti metta in atto comportamenti bizzarri una volta diventati residenti, e come spesso la risposta degli operatori sanitari sia di prescrivere antipsicotici o tranquillanti. Viene quindi proposto di utilizzare un approccio farmacologico solo successivamente ad aver tentato un intervento psicosociale, che tenga conto del significato del comportamento, piuttosto che considerarlo inevitabile data la malattia, e che possa in questo modo prevenirlo (Brooker et al., 2016). Per quanto riguarda la frequente comorbidità con altre patologie, viene raccomandato di trattarle solo se è nei migliori interessi della persona.  Lo stesso concetto si applica al trattamento in fase terminale della malattia: si privilegia la qualità della vita piuttosto che la quantità, per cui è preferibile mantenere solo cure palliative piuttosto che tentare interventi straordinari, se in questi ultimi vi è uno sbilancio tra la quantità di sofferenza imposta e i probabili risultati (Trabucchi, 1998)

Interventi con i caregiver

In ultimo, diventa estremamente importante supportare i caregiver e coinvolgerli nel processo decisionale del trattamento con interventi atti ad aumentare la resilienza, le strategie di coping adattive e a ridurre il distress psicologico. La modalità migliore consisterebbe nell’offrire approcci psicologici multicomponenziali a breve termine con un contatto mantenuto anche in seguito.

Qualunque sia la natura del disturbo neurocognitivo, è inevitabile che il caregiver sperimenti emozioni come tristezza, rabbia e frustrazione. Di conseguenza, i vari interventi psicologici disponibili, elencati dai medesimi autori, devono innanzitutto permettere l’espressione delle inevitabili emozioni negative viste spesso come inaccettabili, in modo da normalizzarle e rielaborarle. In secondo luogo si dovrebbe spronare il caregiver a ritagliarsi un po’ di tempo per svolgere le proprie attività, informando sui servizi disponibili a riguardo (es. centro diurno o gruppo di supporto).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • British Psychological Society. (2016). Psychological dimensions of dementia: Putting the person at the centre of care. Leicester, UK: British Psychological Society.
  • Brodaty, H., Green, A., & Koschera, A. (2003). Meta-analysis of psychosocial interventions for caregivers of people with dementia. Journal of the American Geriatrics Society, 51(5), 657–664.
  • Brooker, D. J., Latham, I., Evans, S. C., Jacobson, N., Perry, W., Bray, J., ... & Pickett, J. (2016). FITS into practice: translating research into practice in reducing the use of anti-psychotic medication for people with dementia living in care homes. Aging & mental health, 20(7), 709-718.
  • Converso, Daniela. (2015). La sfida della cronicità: quale organizzazione delle cure è necessaria? [The rise and the challenge of chronic diseases: which is the requisite health care organization?]. Salute e Societa. 3.
  • Delle Fave A. e Bassi M. (2013). Psicologia e Salute. Esperienze e risorse dei protagonisti della cura. Torino, Utet Università.
  • Eisenberg L. (1977). Disease and illness. Distinctions between professional and popular ideas of sickness. Culture, medicine and psychiatry, 1(1), 9–23.
  • Escher, C., & Jessen, F. (2019). Prevention of cognitive decline and dementia by treatment of risk factors. Der Nervenarzt, 90(9), 921–925.
  • Michie, S., Miles, J., & Weinman, J. (2003). Patient-centredness in chronic illness: what is it and does it matter?. Patient education and counseling, 51(3), 197–206.
  • Middleton, L. E., & Yaffe, K. (2009). Promising strategies for the prevention of dementia. Archives of neurology, 66(10), 1210-1215.
  • Trabucchi M. (1998). Le demenze. Torino, Utet Università.
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