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Il burnout lavorativo: effetti psicologici e trattamento

Per fronteggiare il burnout è necessario prendersi cura di chi si prende cura attraverso una buona prevenzione e interventi di trattamento quando necessario

Di Flavia La Gona

Pubblicato il 01 Dic. 2021

Il burnout è una sindrome tipica delle professioni coinvolte nelle relazioni di aiuto; è una reazione emotiva, cognitiva e comportamentale di progressivo allontanamento da una fonte di malessere.

 

Lavorare in determinati ambiti infatti non è sempre facile, le componenti stressanti, ovvero gli “stressors” con cui ci si confronta, possono portare ad un logoramento professionale, emotivo, psichico, provocando delle alterazioni sull’efficacia lavorativa e sul rapporto con l’utenza.

Si rende nota la presenza del burnout negli anni ’70, quando i rapporti familiari e sociali cambiano andando verso una dimensione più privata, mettendo in secondo piano in gruppo informale e delegando le funzioni di sostegno esclusivamente alle istituzioni pubbliche.

Maslach e Jackson definiscono il burnout come un costrutto caratterizzato tipicamente da tre dimensioni:

  • Esaurimento emotivo: sensazione di essere svuotati, logorati, inariditi;
  • Depersonalizzazione: atteggiamento distaccato, cinico, ostile, freddo dell’operatore nei rapporti con l’utenza;
  • Ridotta realizzazione personale: percezione della propria inadeguatezza nel lavoro.

Oltre allo stress, le cause che possono provocare tale stato alterato vanno ricercate anche nella prospettiva di importanza che viene data all’attività lavorativa; infatti, spesso vi è una vera e propria etica della consacrazione delle helping professions, secondo cui la persona che vi si dedica raggiungerebbe il senso della propria vita. Il lavoro è il centro del proprio mondo, se fallisce si è falliti in tutto e soprattutto nel proprio progetto personale. Si tratta di molteplici professioni, dall’insegnante allo psicologo, sino all’infermiere; tipico di queste professioni d’aiuto infatti è contribuire alle modifiche di un’altra persona e alla relazione in cui sono coinvolte attraverso tecniche specialistiche e attraverso la propria preparazione e professionalità. Per Rogers si tratta di una relazione in cui uno dei due ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturazione nei processi di adattamento e di risoluzione dei problemi che da sola non è in grado di affrontare.

L’operatore della professione d’aiuto è una persona che deve porre continuamente se stesso come catalizzatore dei processi di crescita dell’altro, per cui c’è il rischio di una prolungata situazione di stress lavorativo; le conseguenze sono, dunque, una ridotta produttività, deterioramento delle relazioni con utenza e colleghi, alterazione dell’equilibrio emotivo. Ci sono, però, alcune “tecniche” che l’operatore può mettere in atto per contrastare l’insorgenza del burnout:

  • Personalizzare l’aiuto, per cui ogni caso è a sé;
  • Lasciare libera espressione delle sensazioni del cliente;
  • Impegnarsi autenticamente ma evitando il coinvolgimento emotivo;
  • Astenersi dal giudizio;
  • Mantenere il segreto professionale;

Le condizioni interne di personalità del lavoratore si intersecano con quelle dell’ambiente in cui lavora, per cui fattori predisponenti sono l’essere soggetti sensibili, eccessivamente empatici, idealisti. Gli ambienti maggiormente “a rischio” sono: pronto soccorso, terapia intensiva, oncologia, patologie croniche, dipendenze, disturbi psichiatrici…dipende molto dunque dal tipo di mansione, durata, contesto.

Maslach ha creato uno strumento apposito per indagare sull’eventuale insorgenza di burnout, il MBI, Maslach Bornout Inventory, che si basa appunto sui tre aspetti del bornout (depersonalizzazione, esaurimento emotivo, ridotta realizzazione).

Le professioni più colpite dal burnout

La riabilitazione del ritardo mentale è uno dei settori colpiti da burnout; maggiore gravità del paziente corrisponde ad una maggiore probabilità di insorgenza di burnout. Infatti, i soggetti che non riescono a raggiungere certi obiettivi, che non inviano feedback, che non gratificano l’operatore, risultano essere molto stressanti. Fonti di stress risultano essere anche i rapporti con le famiglie e gli altri operatori professionali.

Anche se non è esattamente una professione d’aiuto, anche il caregiver può essere soggetto a burnout. Sono coloro i quali assistono persone malate, generalmente familiari. Da alcuni studi emerge una differenza tra uomini e donne, le quali risultano essere più stressate, e tra laureati e non, i primi infatti sembrano più consapevoli della gravità della situazione. Molto spesso il caregiver si porta dietro l’investimento emotivo, ansia, dolori e problemi fisici, perdita di controllo. Sembra inoltre esserci un atteggiamento diverso, dipendente dal tipo di patologia di cui ci si occupa: infatti i caregiver di pazienti neurologici sono molto stressati, di meno lo è chi si occupa di pazienti oncologici, probabilmente per la consapevolezza della durata della malattia. Progetti di informazione e rieducazione possono aiutare il caregiver a capire ed affrontare il cambiamento del congiunto e ridurre lo stress.

Gli operatori sanitari più a rischio sono coloro i quali si occupano di oncologia, AIDS e pazienti sieropositivi. Il reparto di oncologia soprattutto mette a dura prova gli operatori, in quanto provoca delle idee di morte riferite anche a sé ed ai propri familiari. Inoltre contribuiscono caratteristiche di personalità, impossibilità di ritirarsi dalla relazione, mancanza di preparazione per una cura globale del paziente, identificazione con il paziente. Spesso esaurimento emotivo e depersonalizzazione sono più alti nei casi di pazienti oncologici adulti piuttosto che nei bambini. Infatti in questi ultimi casi si può avere un decorso più lento e maggiore speranza di ripresa.

Anche gli insegnanti possono subire il burnout, nella difficoltà a rapportarsi agli alunni, nell’insensibilità verso i loro problemi, nella percezione di inefficacia del loro insegnamento; gli insegnanti di sostegno hanno maggiore probabilità di per via delle più ore di lavoro, stress, grado di disturbo dell’allievo.

Per fronteggiare il problema è necessario “prendersi cura di chi si prende cura”. È importante che si avvii una buona prevenzione, in modo tale da evitare che chi si prenda cura di qualcuno abbia bisogno a sua volta di aiuto.

I livelli di intervento sono:

  • Cognitivo: maggiore conoscenza degli elementi di rischio che caratterizzano la malattia e dei fattori di rischio nel relazionarsi con essa;
  • Emotivo: consapevolezza delle proprie emozioni, motivazioni, vissuti…
  • Organizzativo: supporto tra colleghi e professionisti del settore

Durante la formazione alle professioni va riaffermata la formazione non solo tecnico-professionale, ma anche quella personale, in quanto persona. In alcune professioni, come ad esempio la psicoterapia, è già previsto. Sarebbe importante ed utile estendere anche ad altre professioni questo indirizzo.

Il trattamento del burnout

Sul piano della prevenzione, Cherniss ha elencato le seguenti strategie da adottare prima che la sindrome si manifesti in maniera conclamata.

  • In primo luogo, bisogna conoscere le dinamiche implicite della sindrome, analizzare gli obiettivi e le aspettative personali, accertare la proporzionalità tra richieste e risorse e creare meccanismi difensivi alternativi che sostituiscano il “ritiro” tipico del burnout.
  • È necessario intervenire in ambito lavorativo: una modifica delle strutture di ruolo, di potere e normative dovrà procedere ogni altro tipo di intervento.
  • Come dice l’autore sopra, bisogna prevenire: non si deve sottovalutare il valore delle azioni antecedenti l’insorgere della sindrome.

È altrettanto importante sottolineare il “valore della consapevolezza”, intesa come presa di coscienza dei propri progressi, e il fallimento delle strategie tese al solo potenziamento delle risorse individuali.

Sulla base di questi principi l’intervento si articolerà in:

1. Organizzare mirati aggiornamenti di sviluppo professionale: gli operatori possono essere incoraggiati a ridurre il livello di stress lavorativo attraverso un’accurata pianificazione dello sviluppo professionale, mirato a promuovere tra gli operatori obiettivi più realistici o nuovi obiettivi, che possono fornire fonti alternative di gratificazione. Si può, quindi, intervenire aiutando gli operatori a utilizzare meccanismi di controllo e di feed-back, fornendo frequente possibilità di supervisione e di formazione per incrementare l’efficienza del ruolo; insegnare al team a difendersi mediante strategie quali il corretto utilizzo del tempo; orientare preventivamente i nuovi arrivati sulle difficoltà del lavoro; effettuare dei check-up organizzativi periodici o utilizzare un servizio di consulenza centrata sui temi del lavoro e dello stress; incoraggiare la formazione di gruppi di sostegno.

2. Un cambio delle mansioni e delle strutture di ruolo: migliorando la struttura di ruolo si accresce la realizzazione personale e professionale degli operatori, riducendo così lo stress. È fondamentale che i ruoli e le strutture siano flessibili, in funzione delle diverse soggettività e delle diverse motivazioni lavorative. Le trasformazioni strutturali si possono articolare in questo modo, limitando il numero degli utenti; distribuendo tra tutti i membri del team i compiti più difficili e meno gratificanti; pianificando le attività, in modo da alternare quelle gratificanti e quelle non gratificanti; permettendo agli operatori di prendersi “periodi di riposo” quando è necessario; utilizzando personale ausiliario per fornire al team ordinario possibilità di riposo; incoraggiando gli operatori a prendersi frequenti vacanze, anche con un breve preavviso se necessario; limitando il numero di ore di lavoro; non demonizzare il lavoro part-time; dare ad ogni operatore la possibilità di fare proposte nuove; costruire dei percorsi di carriera trasparenti.

3. Pianificazione della gestione: nell’organizzazione la qualità della leadership è molto importante in quanto esige una certa capacità di risoluzione dei problemi e di individuazione delle priorità. Si raccomanda di creare programmi specifici di supervisione e di sviluppo del management; creare per i dirigenti dei sistemi regolari di feed-back sulle prestazioni dei loro subordinati; controllare i livelli di conflitto e di tensione ed intervenire se diventano eccessivi.

4. Problem solving: anche nel caso in cui il lavoro è ben pianificato e strutturato c’è sempre il rischio che sorgano dei conflitti sul piano interpersonale e organizzativo. Per questo motivo è opportuno intervenire creando meccanismi di gruppo per la soluzione di problemi e dei conflitti organizzativi; programmare dei percorsi formativi che orientino alla risoluzione del conflitto; accentuare l’autonomia del personale e contemporaneamente curare la partecipazione alle decisioni. Migliorare la chiarezza degli obiettivi e dei modelli di management: si può intervenire per sostenere il burnout rendendo chiari e compatibili gli obiettivi, sviluppando un adeguato modello gestionale, investendo in formazione.

Le azioni per prevenire il burnout sono numerose, ma non essendoci una terapia specifica è indispensabile intervenire sul gruppo, oltre che sull’individuo. Nelle helping profession, il malessere dell’operatore si ripercuote sull’utente, che ha già delle difficoltà che si trovano a essere vittime inconsapevoli dell’organizzazione alla quale chiedono invece sostegno.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • C. Maslach, M. P. Leither (2000). Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro. Erikson Edizioni, Trento.
  • C. Cherniss. (1983) La sindrome del burn-out : lo stress lavorativo degli operatori dei servizi socio-sanitari. Centro scientifico Torinese, Torino.
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