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L’arte dell’essere imperfetti: onore agli errori e agli sbagli

La tendenza al perfezionismo è sempre più comune nell’attuale società; quando la precisione suprema è l’unica meta desiderabile ogni fallimento è devastante

Di Maria Romeo

Pubblicato il 08 Ott. 2021

L’assenza di errori non è desiderabile: il perfezionismo patologico, infatti, è come un tarlo che deteriora la salute mentale.

 

Come mai, se sbagliando si impara, si cerca di evitare gli errori?

Sarà forse perché, fin da piccoli, si ricevono messaggi che, implicitamente o esplicitamente, suggeriscono che sbagliare è sbagliato? Forse perché l’errore, nei temi di italiano, veniva cerchiato con una penna rosso fuoco, e più volte sottolineato? O forse perché solamente il compagno che svolgeva un compito in classe eccellente meritava un dieci? Ma è davvero compito della scuola insegnare agli studenti che una prestazione è ottimale soltanto se perfetta?

Naturalmente, non c’è niente di male nell’osannare un successo: è giusto che, ad ogni merito, corrisponda un’adeguata ricompensa. Il lavorar sodo non è di certo criticabile.

Il problema è un altro, e sta nella condanna degli sbagli e dell’imperfezione.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è stato dimostrato che eludere totalmente gli errori nei processi di apprendimento è sconveniente in quanto, se seguiti da un feedback correttivo, diventano vantaggiosi per i discenti (Metcalfe; 2016): del resto, non serve dire agli altri se hanno torto o ragione, senza giustificarne il perché. Dunque, piuttosto che incoraggiare gli studenti a non fallire mai, li si dovrebbe aiutare a considerare gli insuccessi scolastici come nuove opportunità di sviluppo.

Al di là del mondo accademico, qual è il senso della corsa soffocante finalizzata al raggiungimento della massima prestazione?

In verità, l’assenza di errori non è desiderabile: il perfezionismo patologico, infatti, è come un tarlo che deteriora la salute mentale.

Non a caso, secondo l’OMS, l’aumento vertiginoso della sintomatologia ansiosa e depressiva tra i più giovani, è dovuto, anche e in parte, a prototipi di perfezione inesistenti con cui ci si confronta, a standard sociali eccessivamente elevati, ad aspettative irrealistiche sui risultati accademici e professionali raggiungibili (Curran, Hill; 2018).

Purtroppo, la tendenza al perfezionismo è sempre più comune nell’attuale società narcisistica, e va da sé che, quando la precisione suprema è l’unica meta desiderabile, ogni fallimento diventa devastante (Metcalfe; 2016). L’ossessione per la meticolosità assoluta porta a rimuginare in maniera cronica sui propri insuccessi, sulle proprie carenze, sulle parole e sul comportamento più giusto da adottare, nel luogo giusto e al momento giusto; tutto ciò può provocare la sperimentazione di Ansia, Depressione, Disturbi alimentari, Autolesionismo, Fobia e Ansia sociale, Marcata Autocritica, Sensi di colpa e timore per il giudizio altrui. Il perfezionismo patologico impedisce di ragionare su ciò che è concretamente realizzabile e, piuttosto che far apprezzare i traguardi raggiunti, obbliga il soggetto a focalizzare l’attenzione su ciò che non ha ancora compiuto al meglio.

Si dovrebbe, dunque, far comprendere ai più giovani che non è attraverso una prestazione impeccabile che si dimostra il proprio valore, ma piuttosto, che è necessario onorare gli errori come i più veri tra i maestri. In fondo, non è dal rigore, ma dall’imperfezione, che può nascere qualcosa di straordinario: si pensi agli errori compiuti in laboratorio, che hanno portato a nuove scoperte, o a quelli che hanno aperto nuove linee di pensiero (Shallenberger; 2015). A chi non è mai capitato, sbagliando, di far meglio qualcosa? Di trovare una via d’uscita?

E poi, soltanto attraverso una più sincera imprecisione si può essere autentici.

 

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