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Il paradosso dell’obesità: cosa ci dicono i topi più obesi al mondo

La ricerca scientifica è impegnata nell'indagare le conseguenze dell'obesità sulla salute ma anche la condizione poco chiara di obesità medicalmente sana

Di Valentina Sassi

Pubblicato il 15 Ott. 2021

Aggiornato il 13 Mag. 2022 15:47

Nonostante l’incessante incremento del tasso di obesità, nel 2018 pari al 42% della popolazione statunitense adulta (Hales et al., 2020), negli ultimi tempi medici e ricercatori stanno promuovendo un approccio volto a non demonizzare il grasso, quanto a favorirne una comprensione più profonda.

 

Essere obesi, difatti, non sembrerebbe sempre sinonimo di malattia, ragion per cui risulta doveroso valutare singolarmente caso per caso, persona per persona, approcciandovisi spogli da pregiudizi.

Partiamo da un interrogativo, motore che ha determinato il diffondersi di numerosi studi nell’ambito di obesità, metabolismo e salute: “Si può essere considerati sani pur pesando 270 chilogrammi?”.

Secondo il ricercatore americano Philip Scherer, del Southwestern Medical Center, ed i suoi topi, i più grassi del mondo, sì (Lee et al., 2014). La loro caratteristica principale era quella di essere nati da genitori ingegnerizzati. Ad alcuni di questi è stato soppresso l’ormone leptina, fondamentale per regolare il senso di sazietà, mentre altri sono stati indotti a sovra produrre adiponectina, responsabile di un buono stato di salute metabolica. Dal loro incrocio, i topi di Scherer mangiavano e ingrassavano senza sviluppare patologie metaboliche, risultando quindi estremamente sovrappeso ma incredibilmente sani. I roditori infatti, a differenza dei loro simili carenti di leptina, presentavano livelli di colesterolo e glicemia nella norma. Tuttavia, a dispetto del buono stato metabolico, a causa della mole eccessiva, i topi erano spesso impossibilitati nel muoversi e finivano per capovolgersi, morendo disidratati (Asterholm et al., 2007).

Seppur quella dei roditori del laboratorio texano sia una storia senza lieto fine, porta con sé un messaggio importante: peso e salute metabolica possono non necessariamente procedere sullo stesso binario, considerabili talvolta come due concetti disgiunti. Sulla stessa lunghezza d’onda di Scherer si colloca anche la genetista Ruth Loos, dell’Università di Copenaghen. La ricerca dell’équipe danese è iniziata quando una striscia di DNA li ha condotti su di una strada inaspettata.

Hanno difatti scoperto che nelle persone più predisposte all’incremento ponderale erano identificabili distinti tratti di DNA, uno in particolare responsabile dell’accumulo di grasso localizzato su fianchi e cosce. Questo filamento appariva però puntualmente accanto ad un gene chiamato IRS1, noto per ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete (Kilpeläinen et al., 2011).

Sulla base di questa scoperta Loos e Scherer hanno esaminato, attraverso modelli animali ed umani, come determinati fattori quali la distribuzione del grasso corporeo o la natura del grasso stesso, potessero aggravarne o attenuarne gli effetti sulla salute.

I primi ad offrire un indizio su tali differenze sono stati proprio i topi di Scherer: il loro adipe era prevalentemente immagazzinato a livello sottocutaneo e non viscerale, quest’ultimo più dannoso in quanto tendenzialmente associato all’infiammazione di organi e muscoli, quali pancreas e fegato.

Il modello animale in esame calza perfettamente con quanto riscontrato nell’essere umano: ampi studi hanno accertato che le persone con una percentuale più alta di grasso viscerale sono maggiormente soggette a problemi di salute, rispetto a quanto non accada in quelle con accumuli adiposi sottocutanei (Paiman et al., 2020). Il ruolo giocato dal grasso viscerale è stato approfondito anche da Zinman, endocrinologo dell’Università di Toronto (Kramer et al., 2013). Attraverso i suoi studi, ha dimostrato che è proprio l’adipe viscerale a generare le molecole infiammatorie responsabili di molte patologie metaboliche, particelle che agiscono prevalentemente a livello pancreatico. Di contro, quello sottocutaneo può renderci più sani, fungendo sia da riserva energetica che da cuscinetto a protezione di muscoli ed ossa. In aggiunta, quadri clinici connotati da insufficienza cardiaca ed alcune tipologie di cancro, fra cui quello mammario, traggono beneficio dall’accumulo di grasso sottocutaneo (Bradshaw et al., 2019).

Sulla base di quanto suggerisce la scienza non è errato affermare che un leggero sovrappeso, rispetto ad una corporatura più esile, può avere in alcuni casi una certa utilità. È sempre il ricercatore di Toronto ad affermare che in assenza di una zona in cui accumulare i depositi di grasso in eccesso, quest’ultimo si dirigerebbe pericolosamente nella regione viscerale. Le persone affette da sindromi da lipodistrofia ne sarebbero l’esempio vivente: la loro impossibilità di accumulare grasso sottocutaneo le fa apparire estremamente magre, a dispetto di elevatissimi livelli di grasso collocati però attorno agli organi, che li predispongono allo sviluppo di malattie gravi, fra cui anche il diabete di tipo 2 (Nagayama et al., 2021).

Ad appannaggio di queste ricerche anche gli effetti di alcuni farmaci per il diabete introdotti alla fine degli anni ’90: i tiazolidinedioni.

La loro azione di riduzione dei livelli di glucosio nel sangue ha curiosamente portato i pazienti ad accumulare peso. Diversi studi hanno dimostrato che questi farmaci aiutano a convertire le cellule precursori del grasso in cellule adipose sottocutanee mature. I pazienti che hanno ottenuto questo effetto collaterale, sviluppavano in media meno infiammazioni, rivelandosi meno insulinoresistenti (Natali & Ferrannini, 2006).

Obesità metabolicamente sana

Dal proliferare di studi in tale ambito, si evince chiaramente l’affermarsi di un nuovo campo di ricerca scientifica, impegnata nell’indagare una condizione tutt’oggi poco definita, ma parecchio frequente fra gli esseri umani: l’MHO, ossia la metabolically healthy obesity (obesità metabolicamente sana) (Gómez-Zorita et al., 2021). Imprescindibile in questo settore, affermano gli esperti, è stabilirne i confini ed esaminare quanto possa essere comune o per quanto tempo possa persistere la MHO prima che degeneri in patologica. Difatti, è buona prassi ricordare che sussiste una chiara correlazione tra incremento ponderale e diabete di tipo 2, seppur tale patologia non si manifesti immediatamente. Inoltre, l’obesità si associa a numerosi altri problemi di salute inclusi artrosi da usura, sovraccarico delle articolazioni e vari tipi di cancro (Abdelaal et al., 2017).

Se tuttavia tramite queste indagini, da un lato, si procede contro la demonizzazione del grasso, dall’altro la nostra società corre nella direzione opposta. Così le persone obese, nella maggior parte dei casi discriminate, possono ritrovarsi bersaglio degli stessi medici, che frequentemente finiscono per ridurre un qualsivoglia indizio di malattia ad un problema di peso, senza procedere con altri approfondimenti (Puhl & Brownell, 2001). Il numero sulla bilancia e la circonferenza vita costituiscono, oggigiorno, un vero e proprio stigma sociale, che induce ad approcci superficiali e stereotipati.

Obesità e stigma

A sensibilizzare la popolazione scientifica e non relativamente a questa tematica è il fisiologo Lindo Bacon, Università della California, nonché fermo sostenitore della Body Positivity. Egli afferma che tartassare le persone con consigli volti al dimagrimento si rivela spesso un grosso errore, talvolta addirittura controproducente (Bacon, L. 2010). Appellandosi alle teorie sopracitate, definisce oggettivo il fatto che esistano molte persone appartenenti alla categoria degli obesi che in realtà conducono vite lunghe e sane, senza alcun segno di malattie metaboliche.

Seppur concorde con il pensiero comune che associa l’obesità ad uno status di cattiva salute, Bacon insiste sul fatto che il grasso, in sé, non è il vero colpevole di determinate patologie. I reali colpevoli andrebbero cercati anche tra povertà, discriminazione e disomogenee opportunità di accesso ai cibi sani. Infatti, come dimostrato, le persone obese che non presentano disfunzioni metaboliche, sono spesso benestanti e più istruite rispetto a quelle nelle quali si presentano le patologie.

Oltre alla povertà, altra imputata è l’etnia: da uno studio del 2020, condotto nel Regno Unito su quasi 3 milioni di adulti monitorati per 11 anni, l’Obesity Science and Pratice ha evinto che le persone con BMI compreso tra 30 e 35 correvano il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 con una probabilità ben cinque volte superiore rispetto a coloro con un indice di massa corporea nella norma. I soggetti con un BMI tra 40 e 45 il rischio era 12 volte più elevato (Tillin et al., 2015).

Lo studio ha evidenziato in aggiunta che il campione composto da soggetti con obesità era anche più propenso a soffrire di malattie cardiache, apnea notturna, ictus, osteoartrite e cancro.

Nonostante questi dati piuttosto allarmanti, Antonio Vidal-Puig, esperto in malattie metaboliche, riconosce la presenza di molte persone che, nonostante il peso in eccesso, mantengono livelli di colesterolo e glicemia perfettamente in norma, contrariamente ad altri pazienti normopeso.

Tale tendenza sembrerebbe proprio ascrivibile all’etnia. Ad esempio, secondo altri studi, le persone di origine sud asiatica sarebbero più predisposte a sviluppare patologie metaboliche anche se non obese (Stanford et al., 2019).

Questa variabile, insieme alla localizzazione del grasso corporeo e alla sua natura, amplierebbe ulteriormente il numero di fattori da tenere in considerazione in caso di insorgenza di tali patologie.

Obesità e fibrosi

È proprio dalla collaborazione fra Vidal-Puig e la genetista Loos, entrambi operativi presso l’Università di Cambridge, che nascono nuovi interrogativi volti a comprendere meglio un altro aspetto molto interessante in merito alla relazione che intercorre tra infiammazioni e malattie metaboliche: la fibrosi. Definibile come l’inspessimento o cicatrizzazione del tessuto connettivo, essa promuove quella serie di infiammazioni dannose responsabili della scarsa salute di alcuni organi, fra cui il fegato. Queste fibrosi, molto frequenti nell’adipe di pazienti obesi, portano gli autori a ribadire la loro reticenza nel considerare l’obesità non pericolosa per la salute (Loos & Kilpeläinen, 2018). Come confermano i topi oversize di Scherer, le fibrosi riducevano nei roditori la produzione endogena di adiponectina, ormone che sembrerebbe fungere da protettore per malattie metaboliche. Uno degli studi più esaurienti relativo all’effetto delle cicatrizzazioni sull’uomo è quello condotto da Samuel Klein, direttore del Nutrition Obesity Research Center presso la Washington University di St. Luis. Dal 2016 lui e i suoi colleghi hanno eseguito una serie di test su tre gruppi, così composti: 45 persone obese metabolicamente sane, 45 persone obese metabolicamente malate e 25 persone normopeso, magre (Cifarelli et al., 2020). I partecipanti sono stati sottoposti a diverse diete, randomizzate, tra le quali una mediterranea ed una a base vegetale. Periodicamente, i ricercatori hanno somministrato ai soggetti iniezioni di insulina, effettuando successivamente delle biopsie sia su massa grassa che muscolare. Inoltre, un prelievo di sangue permetteva loro di comprendere come l’ormone iniettato regolasse il metabolismo del glucosio nei diversi tessuti e nel flusso ematico.

L’obiettivo principe di Klein era proprio quello di comprendere il motivo per cui alcune persone con obesità appaiono “resistenti” ai suoi aspetti negativi, nonché valutare se sussistono differenze tra il grasso sottocutaneo delle persone obese sane rispetto a quello dei soggetti con patologie. Ha recentemente riscontrato che la grande differenza tra questi due gruppi è da attribuirsi alla maggiore produzione di tessuto fibroso e di conseguenti infiammazioni nella controparte “malata”. Questo studio, prosegue l’equipe di ricerca, apre la strada ad una quantità infinita di domande che trovano risposta, molto probabilmente, nel codice genetico delle persone prese a campione.

Tuttavia, i dati ottenuti rafforzano il punto di vista di studiosi come Loos: ossia che esistano persone geneticamente predisposte all’obesità seppur con basso rischio di sviluppo di malattie cardiovascolari o metaboliche, quindi annoverabili nella sopracitata definizione di obesità metabolicamente sana.

Conclusioni

Per appartenere a questa categoria, dice la scienza, è necessario avere al massimo due tra i molti fattori di rischio che caratterizzano la sindrome metabolica; fra questi: girovita ampio, ipertensione, colesterolo HDL basso, trigliceridi e glicemia elevati (Donataccio et al., 2021). Inoltre, le donne, i giovani e le persone con BMI inferiore a 35 avrebbero maggiori probabilità di soddisfare i criteri di una MHO.

Nonostante questi risultati, l’epidemiologo direttore del programma di prevenzione dell’obesità presso l’Harvard T.H. Chan School of Public Health, Frank Hu, è perentorio nell’affermare che le persone obese metabolicamente sane ad un certo punto cominciano comunque a sviluppare delle patologie (Eckel et al., 2018). Basandosi su esami eseguiti su oltre 90.000 donne selezionate dal Nurse Health Study, i ricercatori hanno avviato un progetto decennale nato per raccogliere dati riguardanti lo status di salute e lo stile di vita. È stato così scoperto che l’84% delle donne obese considerate metabolicamente sane finivano prima o poi per manifestare sintomi di patologie cardiovascolari o metaboliche, portando Hu ad affermare la transitorietà della MHO.

Giunti fin qui, risulterà chiaro che i risvolti degli studi citati sono molteplici e notevolmente complessi. Nonostante ciò, non si può certo ignorare il messaggio implicito sotteso a tutte le indagini: quando si affrontano pazienti sovrappeso, è quanto mai necessario spostare il focus dal semplice calcolo del BMI a fattori più complessi e articolati. Per Bilik e Vidal-Puig focus dell’attenzione medica dovrebbero essere i marcatori cardiaci e metabolici, come pressione e trigliceridi. Ancora, Bozello e Vanzo (2020) sottolineano l’importanza del rapporto vita/fianchi, facilmente misurabile da chiunque (Bosello & Vanzo, 2021).

Fil rouge di queste evidenze è l’importanza attribuita all’esercizio fisico, principale responsabile di una migliore risposta all’insulina e a capo della riduzione dei livelli di grasso viscerale. “Non si tratta di grasso, si tratta di essere in forma!”, questo il mantra che Vidal-Puig fa imparare a memoria ai suoi pazienti. Pertanto, il trattamento dell’obesità non dovrebbe mirare esclusivamente alla perdita di peso, quanto più a favorire anche il miglioramento metabolico del paziente.

Secondo Bacon la domanda che dovrebbe porsi ogni medico di fronte ad un paziente sovrappeso è: “Che tipo di consigli darei ad una persona più magra?” ed aggiunge: “Per allontanarsi dal pregiudizio sul peso, una delle prima cose che i medici possono fare, è eliminarlo dal quadro clinico…prima di prenderlo in considerazione”.

 


 

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