Nel trattamento dell’obesità la figura dello psicologo ha un ruolo sommariamente marginale: limitato unicamente alla fase di assessment, tramite colloquio clinico e valutazione psicometrica, e all’individuazione di eventuali fattori di controindicazione per la chirurgia bariatrica.
L’obesità è definita come una patologia cronica multifattoriale di natura metabolica e neuroendocrina, non psicopatologica; motivo per cui spesso viene trascurato il ruolo cruciale dei fattori emotivi connessi a tale condizione clinica (Dalle Grave, Sartirana, El Ghoch & Calugi, 2019). La prevalenza di tale patologia nell’ultimo cinquantennio è triplicata: stimando circa 650 milioni di casi con obesità su scala mondiale (WHO, 2020) e con il 9,8% di soggetti maggiorenni nella popolazione italiana, con una notevole disparità di genere (28,3% maschi, 21,3% femmine; ISTAT, 2016).
La gestione preventiva e mirata del fenomeno risulta, dunque, essenziale sia per migliorare la qualità di vita dei pazienti, sia per ridurre le relative comorbilità psicofisiche e i conseguenti costi per la sanità pubblica (Schutz et al., 2019). Lo stato dell’arte attuale della letteratura scientifica sul trattamento dell’obesità attribuisce alla figura dello psicologo un ruolo sommariamente marginale: limitato unicamente alla fase di assessment, tramite colloquio clinico e valutazione psicometrica, e all’individuazione di eventuali fattori di controindicazione per la chirurgia bariatrica. Sia le linee guida internazionali evidence-based per il trattamento dell’obesità negli adulti (Semlitsch, Stigler, Jeitler, Horvath, & Siebenhofer, 2019), sia le indicazioni fornite dalla Società Italiana dell’Obesità (SIO), ribadiscono la necessità di un trattamento in équipe multisciplinare, all’interno della quale i vari specialisti possano operare in maniera mirata, sinergica e collaborativa (Sbraccia et al., 2016). Nonostante ciò, il ruolo effettivo attribuito allo psicologo non assume ancora la centralità necessaria; infatti in letteratura non sono ancora presenti pubblicazioni che attestino il consenso dello psicologo nel trattamento dell’obesità; in quanto questa figura viene coinvolta solo quando si presentano quadri clinici con comorbiltà conclamate (es. gravi disturbi alimentari), per interventi brevi e focalizzati (Donini et al., 2016).
La letteratura è concorde nell’affermare che una variabile cruciale, ai fini del trattamento, è la motivazione del paziente al cambiamento: al quale viene richiesto di scardinarsi dal suo precedente stile di vita e dalle consolidate abitudini quotidiane, vissute ormai alla stregua di automatismi. Risulta, dunque, fondamentale innescare un solido ingaggio terapeutico a partire dalle prime fasi (Dansinger, Gleason, Grifth, Selker, & Schaefer, 2005; Makris & Foster, 2011).
Nei programmi riabilitativi attuali per il trattamento dell’obesità risulta totalmente carente l’analisi dei processi cognitivi sottostanti che possono inficiare l’aderenza del paziente al cambiamento. Si tratta di un limite estremamente impattante e iatrogeno, che può implicare la perdita d’efficacia di tutti gli altri interventi implementati all’interno di un’équipe multidisciplinare (Calugi et al., 2020). A tal proposito molteplici trial clinici, eseguiti in Italia nell’ultimo quindicennio, hanno dimostrato che molti processi cognitivi sono significatamene associati al drop-out; per svariate motivazioni tra cui: obiettivi terapeutici troppo elevati (es. aspettative perdite di peso maggiori o insoddisfazione dei risultati raggiunti), eccessiva restrizione cognitiva o difficoltà nel mantenimento del peso (Calugi, Marchesini, El Ghoch, Gavasso, & Dalle Grave, 2017; Marchesini, Marzocchi, & Dalle Grave, 2006).
Un fattore che si è rivelato notevolmente iatrogeno è stato la continua riduzione semplicistica alla mancanza di volontà del paziente come unico ostacolo alla buona riuscita del trattamento, senza minimamente analizzare le emozioni e le cognizioni connesse alla sua condizione; esacerbando, dunque, stigma e sensi di colpa preesistenti (Carels, Cacciapaglia, Douglass, Rydin & O’Brien, 2003). Negli ultimi anni la ricerca ha ripetutamente focalizzato l’attenzione su quanto l’incombenza dello stigma interiorizzato vada a incrementare la frequenza di comportamenti disfunzionali quali: episodi di abbuffate, riduzione dell’esercizio fisico, ritiro sociale e soprattutto evitamento della richiesta d’aiuto a specialisti (Puhl, Himmelstein, & Quinn, 2018).
Risulta, dunque, evidente che la mera psico-educazione sui comportamenti salutari da adottare non risulta sufficiente per affrontare la complessità di tali quadri clinici; a tal proposito risulta necessario ed urgente riconsiderare e nobilitare il ruolo dello psicologo nel trattamento multidisciplinare dell’obesità; in quanto è l’unico a detenere le competenze specifiche per comprendere, riconoscere e affrontare la complessità dei processi cognitivi sottostanti al quadro clinico. Risulta opportuno ribadire che le competenze richieste per il trattamento specifico dell’obesità non sono quelle di uno psicologo generico, bensì di chi abbia ricevuto una formazione specifica nell’ambito; finalizzata alla conoscenza approfondita del fenomeno e delle sue complicanze mediche e psicosociali. Tale formazione necessita un notevole dinamismo e costante aggiornamento, al fine di aiutare il paziente ad affrontare tutti gli aspetti di natura emotiva, cognitiva e comportamentale connessi alla perdita e al mantenimento del peso (Calugi et al., 2021).