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Indice di massa corporea (IMC): un acronimo controverso

Molti esperti sono reticenti nel definire totalmente appropriato il parametro dell'IMC (Indice di Massa Corporea), visti i diversi limiti che presenta

Di Valentina Sassi

Pubblicato il 02 Lug. 2021

Aggiornato il 08 Feb. 2024 14:55

L’IMC, acronimo di Indice di Massa Corporea, è il principale parametro utilizzato oggigiorno per valutare lo stato nutrizionale e di salute di una persona. Ne sentiamo parlare in ambito medico, ha contagiato il mondo dello sport e funge da dittatore quando si parla di peso e forma del corpo. Ma questo parametro è totalmente affidabile?

 

 Non è trascorso molto tempo da quando le persone più robuste erano di comune accordo considerate “sane”. I medici erano molto più preoccupati per tutti coloro il cui peso risultasse insufficiente, scarso, persone spesso troppo povere per permettersi un adeguato introito calorico. Ma non appena il processo di industrializzazione prese avvio ed il cibo divenne più accessibile, la situazione cambiò inesorabilmente. Poco dopo la Seconda guerra mondiale, divenne chiaro che un surplus alimentare era in grado di causare tanti problemi quanto il non mangiare abbastanza. Così, le compagnie assicurative si accorsero che i loro clienti con un peso superiore alla media manifestavano una probabilità significativamente maggiore di morire prematuramente rispetto a coloro di peso inferiore. Cercarono quindi un modo rapido ed economico per misurare l’adipe in eccesso e trovarono una semplice formula che ancora oggi conosciamo con il termine di IMC.

L’IMC, acronimo di Indice di Massa Corporea, è il principale parametro utilizzato oggigiorno per valutare lo stato nutrizionale e di salute di una persona. Ne sentiamo parlare in ambito medico, ha contagiato il mondo dello sport e funge da dittatore quando si parla di peso e forma del corpo. Addirittura, rientra nei prerequisiti valutati per stabilire l’idoneità per il vaccino Covid.

Seppur spopolino applicazioni in grado di calcolarlo mediante pochi click, la formula alla base è molto semplice: si tratta di una regola matematica che divide il peso di un soggetto, in chilogrammi, per il quadrato della sua altezza, espressa in metri. Il risultato ottenuto colloca la persona all’interno di quattro categorie principali, descrivendone la corporatura: sottopeso (IMC inferiore a 18.5), normopeso (da 18.5 a 24.9), sovrappeso (da 25.0 a 29.9) ed obeso (30 o superiore).

Nonostante la sua popolarità, però, è realmente opportuno considerare questo parametro come totalmente affidabile?

Di seguito, proviamo a comprendere i motivi per cui molti esperti appaiano reticenti nel definire totalmente appropriato questo acronimo. Al contrario, viene spesso dipinto come responsabile di stigma e obsolete stereotipie.

Indice standard nella maggior parte delle strutture sanitarie, fu introdotto negli anni 30 dell’Ottocento dal ricercatore belga Lambert Adolphe Jacques Quetelet, padre fondatore degli studi epidemiologici su base statistica. L’Indice di Massa Corporea prese poi piede negli anni Settanta grazie agli studi del fisiologo Ancel Keys: utilizzando un campione non clinico composto da 7.000 uomini sani, per lo più di mezza età, Keys e colleghi dimostrarono che tale acronimo appariva un efficace predittore del grasso corporeo individuale, per di più di semplice elaborazione (Keys et al., 1972).

La praticità di calcolo e l’apparente efficienza nel catalogare le fattezze corporee, lo rendono ancor oggi molto utilizzato soprattutto nella branca negli studi epidemiologici su larga scala. Qui, Dai e colleghi (2020) hanno evidenziato che un Indice di Massa Corporea superiore a 30 si associa tendenzialmente ad una maggiore predisposizione a malattie cardiache, diabete di tipo 2, cancro, difficoltà respiratore, steatosi epatica non alcolica e problemi di mobilità. Inoltre, è stata dimostrata una relazione tra l’indice in questione e mortalità, rapporto che pare seguire una distintiva curva a forma di “J”. Nello specifico, un Indice di Massa Corporea eccessivamente basso o elevato sembra correlare, nella maggior parte dei casi, al decesso precoce; una diminuita mortalità, al contrario, si rileva nell’intervallo tra i due estremi (Bhaskaran et al., 2018).

Nonostante la sua praticità quale strumento di ricerca e sebbene vi siano numerose evidenze che collegano indici alti e bassi ad aumentati rischi per la salute, la sua applicazione presenta indubbiamente numerose lacune, apparendo poco utile in rapporto all’unicità individuale. Difatti, benché fornisca un’istantanea sulla corporeità di un individuo, ne ignora totalmente altre componenti (Nuttall, 2015).

In primo luogo, l’IMC presume che il peso sia tutto uguale, prescindendo dal considerare il differente impatto esercitato dal grasso corporeo, muscolatura, viscere e struttura scheletrica su di esso. A parità di peso tra muscoli e grasso, i primi, poiché più densi, occupano decisamente meno spazio. Conseguentemente, due persone con eguale peso ed altezza, potrebbero apparire estremamente differenti in base alla percentuale di adipe e muscoli che li compongono (Willoughby et al., 2018). Ad esempio, la prima potrebbe essere un allenato bodybuilder con un’elevata componente di massa magra mentre, la seconda, sedentaria e con più adipe.

Anche la posizione occupata dal tessuto adiposo può fare la differenza: il cosiddetto grasso viscerale, ossia quello localizzato all’interno della cavità addominale e distribuito tra gli organi interni ed il tronco, è più problematico rispetto a quello sottocutaneo ripartito su fianchi, glutei e parte inferiore del corpo. È per tale motivo che oggigiorno, oltre al calcolo dell’indice di massa corporea, è prassi rilevare anche la circonferenza addominale. La vita degli uomini dovrebbe essere inferiore a 102 cm mentre, per le donne, il cut off è 88 cm (Bosello & Vanzo, 2021).

L’avanzare dell’età rappresenta un anch’essa un altro snodo fondamentale, poco considerato dal parametro in analisi. Con l’invecchiamento, è assai frequente perdere una percentuale di massa ossea e muscolare acquisendo, di contro, grasso viscerale. Si tratta di un cambiamento sostanziale nella composizione corporea e preoccupante per la salute, ma potenzialmente capace di passare inosservato in caso di un mancato cambiamento dell’IMC della persona.

Ulteriore falla è l’incapacità nel prevedere la salute metabolica generale della popolazione: comunemente, una persona etichettata come “obesa o sovrappeso” è considerata come cagionevole, a rischio. Rientrare invece nel range associato al normopeso viene con più probabilità reso sinonimo di salute e prestanza fisica. In realtà, i dati empirici smentiscono ancora una volta questa sommaria generalizzazione. Una ricerca pubblicata nel 2016, che ha valutato una serie di misure cardio metaboliche (pressione sanguigna, trigliceridi, colesterolo, insulino resistenza ecc.) in un campione di 75 milioni di americani, ha evidenziato che fra questi, i 54 milioni definiti sovrappeso o obesi godevano di un perfetto stato di salute. Il restante, “normopeso”, non poteva considerarsi metabolicamente sano (Tomiyama et al., 2016). In definitiva, etichettare una persona unicamente sulla base del proprio peso senza ulteriori approfondimenti, risulta senza dubbio poco corretto.

 Nonostante l’uso su ampia scala, tale strumento potrebbe inoltre non riflettere adeguatamene il benessere di particolari popolazioni, in quanto non considera il variare della composizione corporea e il suo rapporto con la salute in base al sesso, razza ed etnia. Sviluppato e convalidato principalmente su un campione di uomini di origine caucasica, appare chiaro quanto la generalizzazione dell’Indice di Massa Corporea a livello globale possa considerarsi inappropriata. Ad esempio, numerosi studi hanno dimostrato che le persone di origine asiatica siano esposte ad un maggiore rischio di malattie cardiovascolari a tassi di IMC più bassi rispetto ai caucasici. Ulteriormente, alcune popolazioni africane tendono ad essere erroneamente classificate come sovrappeso seppur la loro corporatura sia composta da una massa grassa inferiore rispetto alla componente muscolare, pertanto meno esposti a complicanze cardiache (Seo & Torabi, 2006), aspetto ancor più marcato nelle donne.

Sulla base di queste considerazioni, l’indice di massa corporea apparirebbe utile unicamente se usato a scopi epidemiologici e per ricerche su ampia scala, per scandagliare la popolazione e descriverla in linea generale. Al contrario, se considerato come unico strumento per determinare in maniera arbitraria gli standard relativi alla fisicità, può addirittura rivelarsi una lama a doppio taglio.

In alcuni casi, utilizzare l’Indice di Massa Corporea come unico parametro è infatti una scorciatoia pericolosa. Per prima cosa, può rendere ciechi medici e professionisti innanzi alle effettive condizioni di salute di un paziente. Molti maschi con prodromi di anoressia nervosa, ad esempio, non ricevono adeguata attenzione clinica poiché tecnicamente inclusi nella categoria “normopeso”(Strother et al., 2012). La stessa cosa accade a coloro che presentano un peso più elevato, spesso non sottoposti a screening per disturbi alimentari sebbene sia ravvisabile un recente perdita di peso significativa, un evidente peso soppresso (differenza fra peso massimo e quello attuale) (Calugi et. al., 2018).

Può altresì essere dannosa la generica propensione nel presumere che una persona normopeso sia automaticamente “sana” prescindendo dalla valutazione di abitudini, invece, potenzialmente malsane: seguire un’alimentazione povera, sbilanciata, non svolgere alcuna forma di attività fisica o al contrario impegnarsi in allenamenti estenuanti, ne sono solo alcuni esempi.

Un altro aspetto che si associa negativamente alla popolarità dell’IMC come dittatore in ambito di peso, forma del corpo e salute è decisamente lo stigma. Con questo termine si fa riferimento alle convinzioni ed attitudini prevalentemente negative rivolte ad una persona in base al proprio peso, considerazioni che si concretizzano in stereotipi e pregiudizi. Queste, marcatamente evidenti quando si parla di peso in eccesso ed obesità, vengono poi interiorizzate dai destinatari stessi diventando motivo di autocritica e giudizi negativi ego riferiti (Calugi & Dalle Grave, 2020). La discriminazione nei confronti di queste persone si articola quindi in una serie di etichette dispregiative che conducono a marginalizzazione e disuguaglianza. Lo stigma basato sul peso, di natura relazionale, verbale o fisica, impregna molteplici aree quali quella scolastica, lavorativa, interpersonale e perfino sanitaria (Puhl & Brownell, 2001).

La ricerca ha dimostrato che il luogo comune “grasso = malasanità” influenzerebbe addirittura l’atteggiamento del clinico con i pazienti, risultando più intransigenti, giudicanti e perentori. In linea con queste evidenze, i risultati dell’indagine di Puhl e Bownell (2006): circa il 69% delle donne, riferiva di aver ricevuto almeno una volta un commento discriminatorio da parte di un medico, ed il  52% più di una volta (R. M. Puhl & Brownell, 2006).

Da qui, le persone che si sono sentite discriminate a causa del proprio peso hanno mostrato una probabilità di circa 2,5 superiore di manifestare disturbi d’ansia o dell’umore, così come successivi incrementi ponderali ed un’aspettativa di vita più breve (R. M. Puhl et al., 2016). Un calo in termini di frequenza di controlli medici, minore fiducia nell’istituzione sanitaria e scarsa aderenza al trattamento sono fra le principali conseguenze di tale approccio.

Al netto di quanto detto, l’indice di massa corporea potrebbe dunque essere definito come un utile strumento se usato con scopi di screening, per identificare problematiche su larga scala ed aspetti trasversali a varie popolazioni. Il suo impiego, invece, come misura univoca relativa alla composizione corporea di una persona viene considerato, da clinici e ricercatori, come “inappropriato” (Maalin et al., 2020).

Di qui, la decisione di molti esperti di non fermarsi unicamente a questo dato per stimare il benessere soggettivo; si pensi ad esempio alla già sopracitata misurazione della circonferenza vita, efficace nel quantificare il grasso viscerale. Ancora, cresce il consenso relativo ad una raccolta più ricca e indicativa della complessità corporale: oltre all’Indice di Massa Corporea, inciderebbero sullo status di salute anche il background culturale, livelli di stress, accessibilità alle risorse, abitudini alimentari, pregresse problematiche e propensione all’esercizio fisico (Hoffmann et al., 2020). Una pratica decisamente più lunga e dispendiosa, ma sicuramente più centrata sull’unicità individuale.

Altri metodi, sicuramente meno utilizzati in quanto apparecchiature sofisticate e non sempre accessibili, sono la densitometria a doppio raggio X (DXA), la diluizione isotopica e l’impedenzometria (Evans et al., 2017).

In definitiva, è sicuramente un bene prestare attenzione al numero che compare sulla bilancia, senza però dimenticare l’importanza del metro, degli esami strumentali ma soprattutto dei vissuti individuali. Essere in sovrappeso, oppure sottopeso, interessa indubbiamente l’ambito estetico, funzionale e salutare di una persona. Una valutazione approfondita da parte di professionisti come medici, psicologi e nutrizionisti è fondamentale in questi casi. Il suggerimento? Tenere a mente che un numero non rappresenterà mai la complessità che ci contraddistingue.

 

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