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Assenza… più acuta presenza – Diario di viaggio con un gruppo intermedio fuori dai confini nazionali

Il racconto dell'esperienza della partecipazione a un gruppo intermedio che si riunisce a Londra cinque fine settimana l’anno

Di Fiore Bello

Pubblicato il 22 Lug. 2021

In questo articolo racconto la frequenza in un gruppo intermedio che si riunisce a Londra cinque fine settimana l’anno. Il gruppo intermedio, che si colloca tra il piccolo gruppo di 7-8 persone e quello grande di oltre 30, pone la sua attenzione principalmente sulla cultura, le interazioni e i miti sociali.

 

Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.

(Attilio Bertolucci)

Introduzione

In questo articolo racconto la frequenza in un gruppo intermedio che si riunisce a Londra cinque fine settimana l’anno. Il gruppo intermedio, che si colloca tra il piccolo gruppo di 7-8 persone e quello grande di oltre 30, pone la sua attenzione principalmente sulla cultura, le interazioni e i miti sociali. Il focus è sul qui ed ora e gli aspetti non transferali sono molto più ampi di quelli del piccolo gruppo. Il conduttore non è direttivo, rimane relativamente disimpegnato con l’intento di porre i partecipanti in condizione di sviluppare un processo trasformativo basato sul dialogo (de Maré, 1991). Ho scelto una narrazione diaristica che, a volte, comporta salti temporali e, nonostante varie citazioni e riferimenti bibliografici, non sempre rispetta i criteri di un articolo scientifico. In queste pagine, sostanzialmente ri-narro a me stesso l’esperienza vissuta per poterla assimilare meglio e riflettere sui cambiamenti che ha prodotto nel pensiero, nella professione e nella mia vita e la metto a disposizione del lettore. Esploro alcuni processi gruppali che attraversano le mie incertezze, le mie paure e i miei vissuti nella speranza che tale operazione possa aiutare a capire l’importanza non solo della conoscenza teorica, ma anche della riflessione intima e personale nel momento in cui esercitiamo una professione così delicata come la psicoterapia.

Un po’ di storia personale

La prima volta che salii a bordo di un aereo avevo 13 anni ed accompagnavo mio nonno paterno dai figli che vivevano a Londra. L’aeroporto di Gatwick diventò subito il varco di un nuovo mondo che nei successivi 20 anni avrei attraversato per lavorare. Ad ogni partenza estiva, mi lasciavo alle spalle l’invidia dei miei compagni di scuola, le proteste dei miei fratelli, la tristezza di mia madre e l’approvazione di mio padre che incassava i miei guadagni. A Londra abitavo con mio zio G. che, con tutta la famiglia allargata (un gruppo intermedio di quasi venti persone!), lavorava proficuamente nel settore della ristorazione mobile. Appena maggiorenne, con i risparmi pagai gli studi universitari e comprai un appartamento a Roma mantenendo un fortissimo legame con la mia famiglia “inglese” e la città di Londra che mi ha regalato anche l’ebbrezza del primo amore. Spesso sono ritornato a visitarli e puntualmente sperimentavo la malinconica riapertura della stanza di tanti ricordi e di qualche rimpianto. Dopo la laurea in Psicologia, ho iniziato a lavorare in un centro di salute mentale pubblico e mi sono specializzato senza mai smettere di aggiornarmi. Perciò, mi sono subito incuriosito quando ho saputo che Teresa von Sommaruga Howard stava organizzando a Londra un corso di formazione denominato Creating Large Group Dialogue in Organisation and Society. Pur interessandomi di gruppi da molti anni, conoscevo poco quelli intermedi ed allargati, nonostante da studente mi fossi ritrovato a fare un’esperienza del genere con Rocco Pisani (2000a) all’università “Sapienza” di Roma. In quel gruppo, nonostante l’entusiasmo iniziale, fui assalito da una forte ansia che ancora ricordo e, dopo il secondo incontro, non vi feci più ritorno. Questa volta però non avrei sciupato l’opportunità che il fato mi offriva!

Creating Large Group Dialogue in Organisation and Society (CLGD)

Leggendo il materiale introduttivo, capivo che CLGD era un corso residenziale di cinque fine settimana l’anno, che si sviluppavano dal venerdì alla domenica pomeriggio in un centro studi vicino Londra. Le singole giornate erano suddivise in sessioni di 60 (Social dreaming) e di 90 minuti (Gruppo intermedio esperienziale, Seminario teorico, Gruppo come consulente). Gli organizzatori scrivevano che l’obiettivo del corso era “⦋…⦌ rendere i laboratori capaci di inspirare e trasformare, abbinando l’apprendimento alla pratica sia con esperienze di gruppo sia con una ricerca-azione dal vivo che parta dal vostro ambiente professionale o di vita. ⦋…⦌ L’intenzione è quella di sostenere lo sviluppo delle vostre abilità e conoscenze affinché possiate promuovere con maggiore sicurezza spazi di dialogo in qualsiasi contesto di vostra scelta.” Contattai la promotrice del corso, mi iscrissi, pianificai la mia agenda e nel giro di qualche settimana ero in viaggio.

Giungevo all’aeroporto di Gatwick in un freddo pomeriggio di gennaio 2019 e con tre colleghe appena conosciute mi recavo in taxi alla sede del corso, il Roffey Park Institute. Ero molto contento e spaventato ma quando Teresa, Göran Ahline e Mike Tait ci accolsero con umanità e disponibilità, capii subito di aver fatto una buona scelta. Il gruppo, oltre ai tre conduttori (convenors), era composto da altri 15 membri provenienti da vari Paesi e le diverse sessioni didattiche permettevano ad ogni allievo di scegliere tempi e modi per condividere le proprie esperienze ed ho potuto apprezzare anche le pause perché arricchite da ottimo cibo consumato in locali ampi, caldi ed accoglienti; le stanze da letto non erano da meno.

Essere nel gruppo intermedio

Durante il primo incontro fui molto colpito dalla componente “di lingua inglese” che si sentiva minoritaria e mortificata per le vicende politiche che stavano portando la Gran Bretagna fuori dall’Europa. Il tema della lingua, delle differenze e del campo/spazio caratterizzeranno molti incontri. All’inizio ero disorientato e mi sentivo in soggezione, ma poi sono stato capace di interagire, di guardarmi dall’esterno e di ragionare insieme agli altri sulle reciproche differenze ed uguaglianze. Non nascondo però che ebbi anche bisogno di preservare i miei spazi individuali.

Le diverse provenienze geografiche, la vasta gamma di culture e la ricchezza delle esperienze dei partecipanti mi hanno entusiasmato e ben presto mi è sembrato che il mio pensiero si arricchisse. Altre volte, poi, ho persino avuto l’impressione di conoscermi meglio osservando la reazione degli altri e l’immagine di me che mi veniva restituita. Secondo de Marè (1978, pag. 143) nel gruppo allargato – forse anche in quello intermedio – si verifica una “[…] mutua conoscenza inter-personale, intersoggettiva di ciascuno in reciprocità [che] sviluppata alla sua piena estensione, può condurre altresì ad un allargamento della coscienza, perché la stessa coscienza è per derivazione processo di conoscenza con gli altri.”

Al termine del primo fine settimana, in procinto di lasciare la sede del corso, non ricordavo il codice di sblocco del cellulare. Ho interpretato questa lieve amnesia come una faticosa transizione ad essere nuovamente quello che ero in altri luoghi. Mi ero fuso con l’esperienza del qui ed ora e una parte di me faceva resistenza a tornare al là ed allora? (Turquet, 1978).  Contemporaneamente, mentre prendevamo l’ultimo caffè, ho chiesto alle colleghe di non farmi prenotare il taxi per l’aeroporto. Teresa sorridendo, ha commentato che forse il gruppo poteva aiutarmi ad essere meno accudente (parental child). Pur apprezzando la sua osservazione, mi sono difeso sostenendo che due psicoterapie personali avevano modificato poco questo aspetto della mia personalità. Göran ha aggiunto: “non preoccuparti, Fiore. Ognuno di noi porta dentro qualcosa di incompiuto.

Nei successivi incontri, la presenza di nuovi membri dello staff turberà l’atmosfera gruppale, ma, con il tempo, saranno chiari gli obiettivi di non formare una “setta” autoreferenziale e di mantenere permeabile la membrana gruppale. Nonostante ciò, non mi è stato sempre facile accettare la presenza di persone nuove, tanto che una notte sognai di uccidere un cane. L’angoscia e la vergogna generate dal sogno ne resero faticosa la condivisione nel social dreaming (SD) che, forse contribuì ad orientare alcuni contenuti di quella matrice. Contenuti che, poi, si trasferirono nel disegno comune su grande foglio che realizzavamo alla fine del SD. La spontanea visualizzazione del cane e del gatto di mio padre che giocavano placò l’angoscia e mi permise di disegnare la faccia sorridente di un gatto. Poco dopo, F. cancellò il sorriso dalla faccia del gatto alla quale successivamente aggiunsi le vibrisse. Mentre mi osservavo in interazione e confrontavo il vissuto di quei momenti con le mie relazioni gruppali a Roma, mi rendevo conto che, talvolta, ricorrevo a fantasie compensatorie per alleviare l’ansia. Pur perdendo qualche scambio linguistico, mi sento interno ai processi gruppali e penso che la difficoltà linguistica sia diventata una risorsa che mi permette di riflettere di più sulle mie reazioni e di ponderarne le modalità.

Sin dall’inizio del corso, mi sono posto i seguenti obiettivi di apprendimento e di cambiamento personale e professionale:

  • Il gruppo intermedio è uno spazio transizionale per uscire dalla Kinship (la famiglia narcisistica) ed entrare nella Kithship (la cittadinanza-società)” (Pisani, 2000a).
  • La funzione dei conduttori ⦋nel gruppo intermedioè quella di mettere gli individui in una posizione di acquisire l’individuazione in un’atmosfera più sviluppata di interazioni sociali” (Pisani, 2000a).
  • Affidarmi, tollerare paure e vicinanza emotiva nel gruppo.
  • Valorizzare dubbi ed attivare una cooperazione nel pieno riconoscimento dell’alterità.

La presenza di nuovi ospiti all’ultimo incontro del primo anno, pur generando malumore legato a pregressi eventi esterni, ha favorito un’interessante riflessione sui concetti di esterno/interno, noi/voi, sulla qualità delle relazioni e sulla porosità dei confini gruppali. A tale proposito, Hinshelwood (1989), parlando di piccolo gruppo, distingue il concetto di “barriera” da quello di “confine”. Il primo indica una chiusura difensiva che compromette la crescita del gruppo, il secondo invece deve essere permeabile e flessibile per consentire ad ogni membro di affermare la propria individualità. S. ha sostenuto che sarebbe meglio conoscere in anticipo i nomi degli ospiti, che i confini di CLGD fossero troppo elastici e alcuni laboratori poco differenziati. Ho pensato che la collega stesse attaccando la leadership, ma non ho avuto il coraggio di verbalizzare il mio pensiero. Teresa ha spiegato con tranquillità che la struttura, ma soprattutto il contenuto degli incontri, potessero variare per accogliere le proposte di tutti.

Questa tematica emergerà altre volte, infatti, ricordo che R. sarà dispiaciuta quando non accetteremo la proposta di invitare suoi colleghi. Nello stesso incontro, S. affermò che spesso si sentisse “costretta” a parlare al posto degli altri ipotizzando che il gruppo trasferisse nella sua mente alcuni dei suoi pensieri. Confessai che, a volte, evitavo di parlare e che mi sentivo sollevato quando lo facevano altri e pensai al ruolo del portavoce.

Pichon-Rivière (1970) definisce il portavoce come colui che, ad un certo punto, enuncia qualcosa che è il segno di un processo gruppale che fino a quel momento era rimasto latente o implicito e che, per il buon funzionamento di un gruppo, necessita di essere decodificato. Nel corso degli incontri, anche Mike ribadirà l’importanza di proporre contributi e R., cogliendo al volo l’invito, ci condurrà in un’esperienza gruppale di contatto corporeo. Successivamente, riuscirò ad illustrare la proposta di scrivere un libro collettivo e R., nonostante, spesso si fosse lamentata di sentirsi esclusa, guiderà una sessione di scrittura creativa.

Teresa e Mike ci hanno informato che CLGD, forse perché concepito fuori da un’istituzione, ha avuto una lunga gestazione ed è stato impegnativo ottenere il patrocinio dell’IGA e della GASI e coinvolgere altri colleghi.

Chiedendomi se esistano situazioni umane tranquille ed aliene da conflitti e sentimenti, ho l’impressione che ogni cosa che facciamo sia, in qualche modo, influenzata da sentimenti ed azioni che circolano dentro e fuori di noi. Le dinamiche dei contesti e gli intrecci relazionali sono molto complessi e con rilevanti sfumature inconsce che possono scatenare reazioni a catena, anche di tipo aggressivo. Necessitano quindi di essere analizzate e condivise proprio come suggerisce il titolo del corso, creando dialogo. A questo proposito, de Marè (1991) afferma che nel gruppo intermedio gli individui imparano a parlare e a gestire le emozioni che emergono. In siffatto modo l’Io si allena a fronteggiare le forze repressive e le emozioni suscitate e gradualmente impara a parlare e a pensare spontaneamente, creando le premesse per l’affermazione della propria individualità.

Alla fine del I anno, ognuno di noi ha condiviso un elaborato finale.

L’inizio del II anno

All’inizio del II anno, la proposta di accettare, senza grandi alternative, la direzione di un Centro Diurno (CD) per pazienti psichiatrici agitava i miei sonni. Se l’avessi accettata, avrei dovuto trasferirmi ed abbandonare l’attività di psicoterapia di gruppo che conduco da anni. Mi sentivo spaventato, afflitto ed anche un po’ confuso perché avrei voluto accettare l’incarico al CD senza rinunciare all’attività di psicoterapia. Non mi spaventava il maggiore carico lavorativo, forse un po’ dubitavo della mia capacità di possedere quelle competenze manageriali necessarie a gestire efficacemente persone, complessità, cambiamenti, demotivazione e stress. Avevo espresso i miei dubbi e formulato un’alternativa alla mia responsabile che però insisteva che dovevo accettare questa “promozione” senza compromessi. Messo in condizioni di non poter scegliere e la paura del cambiamento producevano in me pensieri di espulsione e timori di perdere legami pluriennali. Pensavo persino che il mio direttore volesse espellermi perché le risultavo scomodo e per questo mi tornava in mente ossessivamente la frase latina promoveatur ut amoveatur.

Riconoscendo la mia ambivalenza rispetto alla gestione del potere, chiedevo la consulenza al gruppo che mi faceva notare che non sempre l’ambivalenza è negativa. Il dilemma che stavo vivendo, per quanto doloroso, rappresentava difatti un’opportunità di confronto reale con la complessità, la macchina burocratica e gli intrecci e le dinamiche istituzionali. Scegliendo, sarei passato dal ruolo di spettatore a quello di attore nella gestione del potere, ma continuavo a vedermi solo e schiacciato dalle aspettative dei superiori e dalle richieste dei collaboratori. CLGD mi ha rassicurato, mi sono sentito meno spaventato e più disponibile alla relazione e all’ascolto e mi sono avviato sulla strada del confronto sincero e della mediazione. Una lenta trasformazione del mio stato mentale mi ha condotto qualche mese dopo a raggiungere un accordo con il mio superiore, soddisfacente per entrambi.

Questo gruppo stava diventando il mio posto sicuro.

Pandemia e vita virtuale

Il secondo fine settimana si svolgeva in un clima di incertezza ed attesa perché l’Europa stava per precipitare in una tragica pandemia causata dal virus Covid-19. Alla vigilia della partenza per Londra, dubbi ed ansia crescevano di ora in ora perché non capivo bene quale fosse la portata dell’evento, in giro c’era smarrimento ed ansia che venivano rafforzate anche dalle innumerevoli informazioni e dalle prescrizioni istituzionali che a volte risultavano contraddittorie. Partivo coltivando la fantasia che se al mio arrivo fossi stato messo in quarantena, avrei trascorso due settimane con la mia famiglia. Giunto a destinazione, nonostante l’allerta sanitaria, ebbi l’impressione che il clima fosse caratterizzato da scetticismo e da un pizzico di sarcasmo. In contemporanea, in Italia la situazione sanitaria precipitava di ora in ora tanto che pochi giorni dopo assistevamo inebetiti a quelle immagini strazianti dei camion militari che a Bergamo trasportavano centinaia di bare verso i forni crematori. Dall’aeroporto prendevo un taxi con due colleghe tedesche che mi chiedevano informazioni su quanto stesse accadendo nel mio Paese e si sorprendevano che tenessi la distanza ed evitassi il contatto fisico. Nella sede del corso percepivo una strana calma, anche se erano stati posizionati liquidi igienizzanti e inviti scritti al lavaggio delle mani, le persone non indossavano la mascherina né rispettavano il distanziamento fisico. Durante i laboratori mi sentivo un po’ ridicolo perché coprivo goffamente il viso con una sciarpa ed evitavo sistematicamente la vicinanza fisica; purtroppo non riuscivo a condividere pienamente i miei vissuti.

In quei giorni erano presenti tre persone nuove, due dello staff (D. e I.) ed un’allieva croata che purtroppo non vedremo più. Avevo letto un interessante articolo di I. sulle pratiche riflessive e, nonostante il piacere di conoscerlo e di stare con i miei colleghi, ero molto ansioso. Dormii male e una notte sognai che la casa della mia compianta sorella era inspiegabilmente affumicata e piena di fuliggine che gli sforzi miei e della mia compagna non riuscivano a ripulire. La mattina mi svegliavo angosciato, preoccupato per i miei familiari e temevo di non rivedere più i miei colleghi. Il mio malessere proseguì non solo per tutta la durata del corso ma anche dopo, tanto che in aeroporto fui sopraffatto dalla stanchezza e mi addormentai su una poltrona e quasi persi l’aereo. Nonostante ciò, sentivo il bisogno di raccontare gli sviluppi del mio lavoro. Gli ospiti ci aiutarono a focalizzare l’attenzione su come ci si può sentire quando si entra per una sola volta in un gruppo già formato da tempo. Analizzeremo i nostri vissuti in merito ed esploreremo le “resistenze” nei confronti della proposta dello staff di aggiornare i nostri progetti professionali. Riflettevamo anche sulla scarsa comunicazione tra un incontro e l’altro. Perché non adottare uno strumento tecnologico per rafforzare connessioni e ridurre le distanze? Secondo I. il gruppo aveva ancora bisogno di proteggere il suo spazio reale. Alla fine, incoraggiati dai membri dello staff, adottavamo la piattaforma Slack per creare Canto Hondo che ad oggi continua ad ospitare scambi ed interazioni di ogni tipo. Questo spazio virtuale ci permetterà di conoscerci meglio, di consolidare il nostro legame e di rafforzare l’identità gruppale. Diventava sempre più chiaro il ruolo dei convenors in questo tipo di gruppo. Jarrar (2003, pag. 36), parlando del large group e del suo inconscio, sostiene che il compito dei consulenti sia «[…] quello di creare e sostenere un’atmosfera che faciliti ed incoraggi lo sviluppo sostenibile ed attivo del dialogo tra individui e tra sottogruppi. Ampliare l’area della partecipazione e dell’inclusione delle diverse voci è un obiettivo pregevole ed auspicabile. L’enfasi va posta sull’incontro dialogico che permette ai partecipanti di scoprire sia la propria ed unica soggettività sia quella degli “altri”».

La sessione gruppo come consulente di sabato sera accolse sia la “crisi” di K., come la definì J., sia gli sviluppi del mio dilemma lavorativo ed ero talmente coinvolto nel racconto da non rendermi conto della fine dell’ora. Nella sessione successiva, pur sentendomi a disagio perché stavo sconfinando, ho riproposto il mio racconto. Secondo I., nel mio gruppo di lavoro in Italia ero diventato il capro espiatorio, una persona da espellere perché rappresentava o faceva qualcosa di poco digeribile. Chiedendoci poi che cosa stesse accadendo in quel preciso momento, J. ha affermato che io e K. stavamo investendo il gruppo con troppi problemi personali. Mi sono vergognato per aver trasferito le mie difficoltà da un contenitore ad un altro e sinceramente non so se J. ha dato voce al pensiero del gruppo o di una sua parte. Tutto questo, però, ha aperto la riflessione sulle differenze tra il piccolo gruppo e quello intermedio permettendoci di ribadire che, mentre nel primo l’attenzione è maggiormente focalizzata sul conflitto intrapsichico, nel secondo trova espressione e sottolineatura il contesto socioculturale, o meglio si verifica una maggiore correlazione tra l’intrapsichico e il sociale (Pisani, 2000a). In altre parole, mentre il piccolo gruppo evoca esperienze conosciute per la prima volta all’interno della famiglia e permette ai suoi partecipanti di imparare ad esprimere i sentimenti, quello intermedio richiama esperienze sociali e macro culturali e favorisce lo sviluppo del dialogo tra i partecipanti affinché imparino ad esprimere il pensiero (de Marè, 1991).

A proposito del significato della parola dialogo, Maxweel (2000, pag. 39) confessa: “Inizialmente pensavo che il dialogo fosse semplicemente l’arte di parlare ad un altro; poi mi sono reso conto che la parola dialogo non ha la sua radice in “di”, che significa due, implicando così una conversazione tra due persone […], bensì nell’avverbio greco “dia” che significa “attraverso” o “tra”, come in diametro, attraverso il centro, o in diagonale, da angolo ad angolo.

Secondo Socrate e Platone, il dialogo è un lavoro di gruppo stimolante che insegna la partecipazione attiva, l’ascolto, la tolleranza e il rispetto del pensiero altrui. Non è una competizione per attribuire la ragione a qualcuno, bensì un “venirsi incontro.” Nel cosiddetto dialogo socratico, ogni partecipante ha il suo spazio e le diverse visioni dello stesso problema vengono prese in esame ed accolte con l’apertura mentale di chi è consapevole che la stessa tematica può assumere diverse sfaccettature. Lo spirito del dialogo socratico è quello della ricerca di gruppo che stimola nuove domande in chi vi partecipa ed è una pratica che invita a separare l’opinione o il pensiero da chi lo espone attraverso la sospensione del pregiudizio e del giudizio nei confronti di chi parla. CLGD rappresenta una ghiotta occasione per i partecipanti di immaginare, come sostiene Arendt (2009), che un’altra persona possa aver ragione ed un’imperdibile opportunità per provare a piegare la propria intenzione ed integrarla con quella altrui. Solo il dialogo, cioè quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione, può condurre all’esperienza di verità (Gadamer, 1960).

La distanza fisica che ho adottato scrupolosamente durante il secondo fine settimana a Londra, si aggiungeva o copriva quel disagio che mi compare ogni volta che si riduce la vicinanza emotiva. È come se coprissi il mio timore di una “contaminazione” emotiva con quella di tipo fisico che, a sua volta, giustifica il distanziamento. Una cosa analoga può accadere anche con l’uso della mascherina, che, proteggendo dal contagio del virus, ci protegge anche dal mostrare i sentimenti attraverso le espressioni del viso.

A un certo punto, nella sessione successiva al SD di domenica, ero perso a rincorrere frammenti di ricordi, sogni ed immagini non ben collegate tra di loro. E solo quando Teresa mi ha detto “Fiore, prova a dare voce ai tuoi pensieri” sono riuscito a ricomporre la mia coscienza, ad ordinare i miei pensieri e a parlarne. Di conseguenza, il gruppo ha generato altri pensieri che, in una circolarità ricorrente, hanno contribuito a cambiare il mio pensiero iniziale.

Purtroppo il Covid-19 ha messo in ginocchio il mondo intero tanto che nella primavera del 2020 l’Italia è stata sottoposta ad un duro “isolamento sanitario” durato 69 giorni che, oltre alle pratiche sanitarie per prevenire il contagio, ha comportato molte rinunce. Sospensione di varie libertà civili, riduzione di molte attività produttive e rimodulazione delle relazioni sociali e delle coordinate spazio-temporali quotidiane. È stato un trauma collettivo e, nonostante il disorientamento e l’angoscia devastante, abbiamo iniziato a trasferire le nostre attività quotidiane sul web. La stessa sorte è toccata a CLGD che, per non restare soli in un momento di incertezza e disperazione, ha deciso di incontrarsi mensilmente. L’assenza del contatto fisico, la sospensione del vivere sociale, la convivenza casalinga forzata, il vuoto e l’angoscia di morte erano insopportabili in quel periodo! La mattina mi spostavo in una città completamente deserta per giungere a lavoro dove, lentamente, ho cominciato ad organizzare il lavoro psicologico in modo virtuale. Ho anche cominciato a curare la pubblicazione di un libro sulla pandemia. La scrittura, le interazioni su Slack e gli incontri virtuali del nostro gruppo sono stati la mia spina dorsale. L’estate ha portato con sé l’illusione di un ritorno alla normalità, ma in autunno la pandemia è ritornata con devastante puntualità, causando in sei mesi più di 3.000.000 di morti in tutto il mondo. Su proposta di Teresa, abbiamo aderito ad un gruppo allargato chiamato Alternative Large Group (ALG) che si riunisce online ogni domenica. Ancora non riesco a garantire una presenza costante, perché, come sostiene Turquet (1978), avverto un forte contrasto interno tra due forze, quella di appartenenza e quella di tirarmi indietro. L’autore (ibidem, pag. 97) sostiene: «Sebbene qualsiasi rapporto può essere conflittuale in questo stesso modo, nel gruppo allargato, il singolo (che interagisce e lotta contemporaneamente) vive la polarità in termini estremi di separazione isolata o alternativamente di una fusione completa con, o perdita nel, gruppo. Il gruppo allargato mette in risalto le difficoltà del singolo di mantenere una distanza psicologica interattiva tra se stesso e l’“altro”, sia questo “altro” un avvenimento, un’esperienza o un membro.» In ALG ho sperimentato ansia e disagio che, in qualche modo, hanno rievocato il ricordo delle assemblee politiche che frequentavo da universitario. Erano gruppi allargati che professavano in modo strumentale l’incontro dialogico e la democrazia, assumendo spesso le caratteristiche di vere e proprie orde all’interno delle quali i sotto gruppi agivano la loro rabbia in azioni di sabotaggio sociale oltre a scontrarsi fisicamente tra di loro e con altri di colore politico opposto. Se il singolo non si allineava al pensiero dominante era emarginato, espulso o persino percosso; ricordo infatti un leader che dichiarava apertamente lo “schiaffone politico” per persuadere i dissidenti.

Dopo più di anno, l’angoscia, i lutti e le restrizioni generate dalla pandemia ancora non sono scomparsi, nonostante la campagna di vaccinazioni anti-Covid-19 sembra portarci verso una ripresa della “vita normale”. Sin dall’inizio della pandemia, nonostante la scarsa esperienza di lavoro online, sono riuscito a fornire ai miei utenti costanti prestazioni psicologiche sostitutive. Da poco mi sono reso conto però che il trasferimento online di quasi tutte le attività metteva a rischio la mia salute e quindi ho cercato di ridimensionare il mio ingaggio. Sento il bisogno di proteggere la mia mente e i miei spazi privati dalle incursioni continue di eventi, seminari e convegni virtuali che si svolgono a qualsiasi ora del giorno e della notte e spesso vi partecipo dall’unica postazione casalinga. Partecipare ad un seminario per un intero fine settimana da casa dove non sono solo, mi distrae e mi inquieta. È quasi impossibile proteggere e separare i vari spazi (professionali, intimi e familiari), cosa che invece facevo quando la formazione e il lavoro si svolgevano fuori casa. Attualmente, CLGD è al suo terzo di anno di vita e purtroppo si svolge ancora online.

Conclusioni

Con lo smart working i confini interni ed esterni delle persone diventano troppo liquidi, gli spazi si saturano facilmente e scompaiono quei momenti di vitale decantazione dell’esperienza. Durante le pause di un convegno in presenza, sorseggiando un caffè con i colleghi, parlavo, ascoltavo, li guardavo negli occhi e sentivo il loro profumo. La distanza fisica da casa mi proteggeva da altre incombenze, mi permetteva di vivere il momento presente e di abitare lo stesso campo del gruppo incarnato; tutto ciò, pur essendo faticoso, portava con sé piacere e senso di appartenenza. Attualmente, invece, quel fragile campo che con difficoltà si genera attraverso lo schermo, durante le pause viene contaminato da elementi e bisogni estranei che rendono altresì difficile riprendere il lavoro lasciato in sospeso. Non basta chiudersi in una stanza davanti al computer, spegnere i telefoni e chiedere ai familiari di non fare rumore. Partire, spostarsi verso una meta fisica – così come il ritornare a casa – sono gesti che contribuiscono a creare lo stato mentale necessario per affrontare un compito diverso da quello precedente. Alla fine degli incontri dal vivo di CLGD, mi godevo il viaggio in taxi per l’aeroporto e dopo le pratiche d’imbarco, cercavo un posto tranquillo e cominciavo a scrivere un resoconto dei seminari, operazione che purtroppo non ho più fatto da quando ci siamo trasferiti online. Scrivere nella sala d’attesa – uno spazio intermedio che per definizione sospende il prima dal dopo – sedava l’ansia per il viaggio e poneva le basi del graduale ritorno alla vita consueta. Inoltre, permetteva alla mia mente di iniziare un processo digestivo per metabolizzare ed elaborare quelle impressioni sensoriali generate dall’esperienza sensoriale ed emotiva vissuta. Queste impressioni “grezze” sono definite da Bion (1967) elementi beta che sarebbero destinate a rimanere tali se non fossero metabolizzate e depurate da quell’apparato mentale che lo stesso autore definisce funzione alfa. Infatti, questa funzione avrebbe proprio il compito di eliminare i residui oggettuali degli elementi beta rendendoli, così, disponibili per un pensiero che sia orientato verso la modificazione della realtà.

Lo sconvolgimento causato dalla pandemia e l’assenza delle relazioni incarnate hanno prodotto in me un cambiamento dalla sfumature traumatiche che necessita approfondimento, aggiustamenti e riadattamenti anche di tipo fisico. La prima cosa che mi è sembrata giusta fare è stata la riduzione degli impegni virtuali e l’attivazione di nuovi processi di pensiero sul mio rapporto con il tempo, lo spazio e il lavoro. Una seconda cosa da ponderare, in attesa di poter rivivere la presenza fisica e mentale, sarà trasferire l’attività professionale virtuale in un altro spazio “sicuro” per decontaminare quello casalingo e riattivare il passaggio tra il dentro e il fuori e rivivere pienamente il suo valore transizionale.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Arendt, H., Le origini del totalitarismo. Einaudi, Torino, 2009.
  • Bion, W.R. (1967). Una teoria del pensare. In Riflettendoci meglio. Astrolabio, Roma, 2016.
  • De Marè, P., Large group psychotherapy: a suggested technique. Group Analysis, 5, pp. 106-108. SAGE Publications, London, 1972.
  • De Marè, P. La strategia dei gruppi allargati. In Kreeger, L., Il gruppo allargato. Armando Armando Editore, Roma, 1978.
  • De Marè, P., Piper, R., Thompson, S., Koinonia. Edizioni universitarie romane, Roma, 1991.
  • Gadamer, H.G. (1960), Verità e metodo. Tr. It., Bompiani, Roma, 1983.
  • Hinshelwood, R.D., (1987), Che cosa accade nei gruppi? Raffaello Cortina Editore, Milano, 1989.
  • Jarrar, L. K., A consultant’s journey into the large group unconscious: principle and techniques. In Schneider, S., Weinberg, H., The large group re-visited., International library of group analysis, Jessica Kingsley publisher, London and New York, 2003.
  • Maxwell, B., The Median Group. Group Analysis, 33(1), pp. 35-47. SAGE Publications, London, 2000.
  • Pichon-Rivière, E. (1970), «El concepto de portavoz». Temas de Psicologia Social, 2, 1978, pp. 11-20.
  • Pisani, R., The median group in Clinical Practice: An Experience of Eight Years. Group Analysis, Vol. 33, 77-90, 2000 (a).
  • Pisani, R., Elementi di gruppoanalisi. Edizioni universitarie romane, Roma, 2000 (b).
  • Schneider, S., Weinberg, H., The large group re-visited. Jessica Kingsley Publishers, London and New York, 2003.Thousand Oaks, CA and New Delhi), Vol. 33 (2000), 35-47.
  • Turquet, P., Minacce all’identità nel gruppo allargato. In Kreeger, L., Il gruppo allargato. Armando Armando Editore, Roma, 1978.
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