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Psicodinamica e letteratura: Rosso Malpelo (1880) di Giovanni Verga

Più che deprecare il Malpelo e i suoi capelli rossi, Verga vuole denunciare l'estremo disagio dei giovani siciliani destinati al lavoro nelle cave

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 16 Giu. 2021

Aggiornato il 18 Giu. 2021 11:58

Rosso Malpelo tratta la storia di un ragazzo destinato a lavorare nelle cave, dove si sporca di terra e di polvere, ingoiate insieme alla tristezza, alla rabbia e al pane secco che addenta, proprio come una bestia, durante le poche interruzioni dal lavoro. 

 

Scrivendo di Rosso Malpelo il Verga deve aver pensato ad uno di quei figli di nessuno che popolavano le cave di rena rossa della Sicilia, lavorando dalla mattina alla sera per guadagnarsi un tozzo di pane. E così vuole presentarlo ai lettori, forse peggiore di quello che era in realtà: sporco, violento e riottoso, cattivo persino nell’aspetto, con quel suo sguardo maligno, gli occhiacci biechi sotto la smorfia delle labbra tese in un ghigno balordo. Ma l’intenzione è ben diversa: più che deprecare il Malpelo e i suoi capelli rossi, Verga vuole denunciare la condizione di estremo disagio, che oggi definiremmo di sfruttamento, riservata ai giovani siciliani destinati al lavoro nelle cave. Vessati da condizioni di estrema povertà essi venivano costretti, spesso dagli stessi genitori, a sgobbare notte e giorno nelle miniere, dove imparavano a diventare grandi troppo presto, così come troppo presto apprendevano il dolore, la sofferenza, il senso amaro della vita.

Sono bambini strappati all’infanzia: gli “adulti d’emergenza”, di cui la Sicilia di fine ‘800 era tristemente colma.

È proprio il caso di Rosso Malpelo, destinato a lavorare anche lui nelle cave, dove si sporca di terra e di polvere, ingoiate insieme alla tristezza, alla rabbia e al pane secco che addenta, proprio come una bestia, durante le poche interruzioni dal lavoro.

Malpelo è uno di quei frutti maturati anzitempo e senza sole, se è vero che i bambini maltrattati possiedono una sofferenza che li porta a crescere prima degli altri (Ferenczi, 1929). Della vita ha conosciuto gli aspetti più duri: la fame, la sporcizia, la violenza e la solitudine. Ma soprattutto la crudezza del lavoro.

Tutti lo sfuggono e lo disprezzano. La sua stessa madre non lo può soffrire: lo considera un ragazzaccio ingrato, inutile e ladro, visto che lo accusa di rubare i pochi denari che riesce a guadagnare col lavoro.

Solo il padre gli vuol bene, ma muore presto, in quella maledetta cava dove lavora anche lui, sepolto da un grosso pilastro che cercava di estrarre nel tentativo di riportare più soldi a casa. Nonostante i disperati tentativi il ragazzo non riesce a salvarlo, e questo fallimento semina in lui un vissuto colpevolizzante persecutorio.

Malpelo si sente in colpa per aver lasciato morire l’unica persona che gli abbia mai dimostrato un po’ d’affetto, ma come al solito non riesce ad esternare questa profonda sofferenza. Il suo dolore, “agito” più che vissuto, è frutto di un’ analfabetizzazione emotiva, un deficit simbolico generato a sua volta da legami affettivi inattendibili, che lo hanno spinto a far fronte solo su stesso per superare problemi e difficoltà.

Nel mondo di questo ragazzaccio non c’è astrazione né pensiero. Ma soprattutto non esistono parole. Tutto è concretezza e azione: lo stesso dolore diventa un pugno, la lacrima si trasforma in un ghigno, l’angoscia si fa tracotanza, la voglia d’affetto finisce sepolta sotto una pala di rena, gettata giù nella cava dove il sole non sorge e non tramonta, e tutto è sempre uguale a se stesso.

I suoi lutti si tramutano così in voragini psichiche, vuoti incolmabili cui li Malpelo non avrà mai il coraggio di avvicinarsi, non del tutto e non come vorrebbe, nel terrore di venirne inghiottito.

Un “forte” amico dei deboli

Malpelo è un duro, uno che ha imparato a dare botte alla vita e a riceverne altrettante, senza lagnarsi, tanto alla fine è sempre il più forte che vince, e il debole deve rassegnarsi a subire in silenzio il dolore.

In un mare di sopraffazione e arroganza la forza-intesa come vigore fisico- gli appare l’unico mezzo di sopravvivenza.

Solo a sapersi difendere dai duri si riesce a sopravvivere

è solito dire. La violenza rappresenta un’esperienza appresa, uno stile di vita che si impara da piccoli e che si finisce con l’interiorizzare, consapevoli che si tratta dell’unica possibilità di restare a galla.

In questa concezione di forza prettamente fisica e prevaricatrice anche i sentimenti rivestono un ruolo inutile, se non dannoso, poiché impediscono il raggiungimento di ben più salienti obiettivi. Ma pur rifuggendo la debolezza e la vulnerabilità come fossero sciagure, Malpelo si imbatte in un autentico paradosso: gli unici soggetti con cui riesce ad in instaurare un seppur minimo legame sono proprio due deboli, figure di cui il Verga enfatizza la condizione di estrema inferiorità, rispetto alla gerarchia della cava e del mondo. Uno è un asino grigio, una povera bestia che trasporta pesanti sacchi di rena avanti e indietro per la cava, e l’altro è un compagno di lavoro piccolo e malaticcio, la cui andatura zoppicante gli è valsa il soprannome di Ranocchio. Due nullità cui Malpelo non risparmia un trattamento violento e livoroso, del quale si compiace persino: l’asino va picchiato perché non vale niente, e perché tanto non può picchiar lui, mentre Ranocchio deve imparare a difendersi in un vita in cui a vincere è sempre chi mena più forte, e il debole è destinato a soccombere.

È su questi deboli che il ragazzo può proiettare tutta la sua aggressività, la frustrazione, la rabbia abbandonica, e mentre scaglia contro di loro la violenza delle mani e del cuore riesce ad identificarsi con gli aggressori che prima hanno colpito lui, e si sente forte al loro pari. Picchiare gli restituisce un breve sollievo interiore, disegna una tregua nella vessazione di quell’oggetto abbandonico che ha perduto da piccolo- la madre- e che continua a cercare con pulsioni d’affetto e rivalsa (Bion, 1958). Al contempo queste vittime opportune costituiscono la rappresentazione concreta di quella debolezza che odia in se stesso e che cerca di punire evacuandola all’esterno, nel disperato tentativo di controllarla, e dunque di liberarsene.

Ma la violenza è anche il solo stile relazionale che gli sia mai stato insegnato, in famiglia e nella cava; così non è insensato credere che dietro tanta aggressività sia sotteso il tentativo di costruire una vicinanza affettiva, magari con quello stesso asino che tanto rimbrotta e con quel ragazzino malaticcio che non sa sostenere i pesi della cava come quelli della vita, e che deve imparare a difendersi prima che il mondo se lo inghiottisca.

Gli opposti di Malpelo: La “moralità immorale” e la forza vulnerabile

In apparenza Malpelo ci appare un ragazzaccio senza morale, uno di quelli che se ne va in giro a menar le mani contro i più deboli per sopraffarli ed appagare pulsioni narcisistiche frustrate. Lo si direbbe privo di un Super-Io, tanto si mostra lontano dall’ etica, dall’ empatia e dal rispetto per l’altro.

E tuttavia non si tratterebbe di un’affermazione veritiera, poiché è pur visibile in lui il residuo di una dimensione superegoica. Certo non si tratta del Super-Io moralizzante creatosi al termine di una triangolazione funzionale, non è certo l’erede di un’evoluzione edipica (Freud, 1905) ma è piuttosto il frutto di un oggetto persecutorio interiorizzato, che gli impone il sopruso quasi fosse un dovere. È il Super-Io crudele tipico della depressione introiettiva, nella quale l’Io, non sopportando la separazione dall’oggetto abbandonico, decide di introiettarlo per mantenere con esso una simbioticità avida e maligna che lo perseguita, svuotandolo di ogni risorsa (Spitz, 1945). Diventando una compagine indistinta con l’oggetto cattivo l’Io si rende cattivo a sua volta, e nel tentativo di dominare un vissuto carico di distruttività (Klein, 1935) si anima di una malvagità persecutoria che rivolge ora verso se stesso ora verso l’altro, svuotandosi di ogni potenzialità evolutiva.

Ma quello di Malpelo non è il vuoto emotivo tipico dei narcisisti; non è neppure la freddezza utilitaristica degli antisociali, né l’aggressività invidiosa dei paranoidi. È piuttosto l’operato di un Sé alieno e sabotante (Fonagy e Target, 2001; Gazzillo, 2012) che gli ricorda l’affetto di cui è stato privato e di cui va costantemente alla ricerca, pur illudendosi di non averne bisogno (Winnicott, 1970).

E dopo tanto dibattersi, alla fine questo ragazzaccio si arrende: rimasto solo al mondo dopo la morte del padre e degli unici amici che abbia mai avuto- Ranocchio è morto di una malattia buscata alla cava e l’asino ha ceduto sotto il giogo delle botte e della fame- decide di raccogliere l’ultima sfida che gli lancia il destino, e si avventura nel ventre tetro della caverna per esplorare una vecchia galleria che raggiunge un pozzo.

È un compito rischioso, che richiede di addentrarsi all’interno di cunicoli stretti e bui. E nessun cavatore accetta il pericolo. Perlomeno nessuno che ha famiglia, o che lascerebbe qualcuno a piangerlo, laddove morisse. Ma non è il caso di Malpelo: la sorella si è sposata, così come la madre, che ha un nuovo marito, ed entrambe si ricordano appena di lui. Può anzi immaginare il loro sollievo al pensiero di liberarsi di quel ragazzaccio dai capelli rossi che tira calci e ruba il pane, e non conclude nulla di buono. Nessuno piangerebbe la sua scomparsa, perché nessuno può amare chi non è mai esistito.

E Malpelo, che una sfida con la morte l’ha da sempre cercata, alla fine decide di darsi in pasto al proprio istinto di autodistruzione, urlando quel grido di disperazione che per troppo tempo gli è rimasto in gola, chiuso in un silenzio ringhioso: con i suoi attrezzi, un tozzo di pane e i calzoni sdruciti si avventura nel pancione della cava, profondo e minaccioso come il ventre materno che non ha mai conosciuto.

Egli ne ha paura, ma al contempo lo desidera profondamente, così come teme e desidera la madre. Quella miniera che lo nutre e lo affama, che gli dà vita mentre lo uccide, è alla fine la simbolizzazione del seno buono e del seno cattivo, quell’oggetto materno -ora presente ora abbandonico- da cui Malpelo si lascia distruggere (Klein, 1928). Forse nel tentativo di abbracciarlo.

Una storia senza lieto fine: il vuoto psicotico e la disgregazione del Sé

Malpelo non è riuscito a superare il dolore per la perdita dell’oggetto primario, e a questo stesso oggetto è rimasto inconsapevolmente legato, in un rapporto maligno e captativo da cui si è lasciato sabotare, dando vita ad un’aggressività dai connotati psicotici che finisce col sopraffarlo (Freud, 1917; Gazzillo, 2012).

La sconfitta di questo vinto è anche la disfatta del suo tempo; è il grido letterario che Verga concede ad una realtà sotterranea e sepolta che portare alla luce è doloroso, per certi aspetti inutile, e che quindi si preferisce ignorare, rimuovere o negare, proprio come si fa con un trauma.

I protagonisti di questa storia non sono dei veri personaggi. Nessuno riconosce loro un’identità, perché non si meritano neppure quella, laggiù nel buio della cava dove tutto si confonde con tutto e il niente regna sovrano. Così, se persino l’asino è grigio come il colore del vuoto e del nulla, il vero nome di Malpelo non se lo ricorda più nessuno. Neppure la sua stessa madre che glielo ha imposto, e che preferisce chiamarlo, anche lei, con quell’appellativo tanto bieco e dispregiativo.

Sembra un’esposizione cronachistica, nuda e senza cuore. Ma la storia di questo aggressore impotente che a modo suo vince la battaglia contro la solitudine e il dolore lascia un po’ di amaro in bocca. Il suo è un pessimismo cosmico: non c’è speranza di redenzione perché non c’è bontà nel cuore degli uomini, ma solo intento di reciproca sopraffazione.

Se non picchi vieni picchiato, il debole è destinato a soccombere, vince chi picchia più forte.

Per lui gli uomini sono uguali alla terra, traditori pronti a schiacciarti quando meno te lo aspetti.

Può sembrare un pensiero paranoide, quasi delirante, un’invettiva contro il genere umano in toto. Ma dietro questa convinzione si nasconde la muta speranza di imbattersi prima o poi in una smentita; qualcosa in grado di dimostrargli che merita qualcosa di diverso dalla polvere della cava, che gli affetti esistono e che anche lui è degno di riceverli.

Lo attenderà l’ennesima delusione, perché Malpelo non troverà mai l’amore. La sua storia finisce inghiottita dal ventre senza luce di una grotta, posta a metafora di una dimensione psichica inesplorata, fatta di oggetti scissi, spezzati, frammenti mnestici e  vuoti affettivi (Klein, 1928; 1935), in cui la realtà perde ogni valore oggettivo e l’imperante dominio della scissione provoca la polarizzazione degli estremi, la dicotomia inesplorabile degli opposti.

Lo scenario evocativo della lotta tra Eros e Tanatos costituisce il filo conduttore di tutta l’esistenza del ragazzo, ponendosi a vessillo della lotta infinita che gli si agita nel petto: quella tra il rosso dei suoi capelli e il buio della caverna, tra la luce della passione e il nero dell’inerzia, e dunque tra vita e morte, due dimensioni che, non potendo conciliare in un tutto sintetico e armonioso, Malpelo scinde sincreticamente nel disperato tentativo di salvarsi dal pericolo che percepisce in entrambi.

La sua stessa scomparsa nella caverna appare il sofferto compromesso tra l’angoscia di fusione e di separazione verso quegli affetti che per tutta la vita ha rifuggito, pur andandone disperatamente alla ricerca.

Non sappiamo neppure cosa abbia trovato al termine del suo viaggio, né se lo abbia mai concluso davvero. La novella non lo racconta, né l’autore fa menzione della sua morte, limitandosi piuttosto a lasciarla intuire, nemmeno fosse una verità troppo paurosa da pronunciare.

Ciò che alla fine ci resta di lui sono i suoi capelli rossi e quegli occhiacci grigi che i lavoratori della cava, pur tanto tempo dopo la sua scomparsa, hanno ancora paura di incontrare, esattamente come si teme di imbattersi in un fantasma, in un’angoscia senza nome, in un pensiero mortifero che di tanto in tanto attraversa la mente, rendendola ora onnipotente, ora vulnerabile.

La verità è che Malpelo non può morire perché non è mai vissuto. Questo antieroe dai capelli rossi è piuttosto un’angoscia rabbiosa costruita su abbracci negati, su speranze fallite, su sogni traditi. È un’esistenza al margine che, prigioniera di un dolore grezzo e troppo ruvido per le parole, trova in un silenzio psicotico l’unica redenzione possibile. E per sempre lascia il dubbio di come avrebbe potuto essere, se così non fosse stato.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bion, W. (1958), L’arroganza, in Le rabbie croniche, AA.VV., Bollati Boringhieri, Torino;
  • Ferenczi, S. (1929), Il bambino indesiderato e il suo istinto di morte, in Ferenczi, Fondamenti di psicoanalisi, Guaraldi, Rimini, 1974, vol. 3;
  • Fonagy, P. Target, M. (2001), Attaccamento e funzione riflessiva, tr.it. Raffaello Cortina, Milano;
  • Freud, S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale, Bollati Boringhieri, vol. 4, Torino;
  • Freud, S. (1917) Lutto e melanconia, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Gazzillo, F. (2012), I Sabotatori interni, il funzionamento delle organizzazione patologiche della personalità, Raffello Cortina, Milano;
  • Klein, M. (1928) Aggressività, angoscia senso di colpa, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Klein, M. (1935) Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Klein, M. (1921-1958), pp. 297-325;
  • Spitz, R.A. (1945), Hospitalism: an inquiry into the genesis of psychiatric conditions in early childhood, I, The psychoanalytic Study of the Child, vol. I, pp. 53-74;
  • Verga, G. (1880), Rosso Malpelo, in Vita dei campi, Racconto Verista, consultato in data 30 aprile 2021;
  • Winnicott, D.W. ( 1970), Il bambino deprivato, tr.it. Raffaello Cortina Editore, Milano.
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