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Il contributo di Wilfred Bion agli sviluppi del concetto di identificazione proiettiva

Con Bion, l’identificazione proiettiva, oltre ad essere una difesa primitiva del bambino, diventa un’importante modalità di comunicazione

Di Lucia Filetti

Pubblicato il 01 Giu. 2021

Aggiornato il 04 Giu. 2021 12:23

Wilfred Bion ha rielaborato l’originario concetto kleiniano di identificazione proiettiva, trasformandolo da meccanismo psichico primitivo a concetto che delinea un processo interpersonale

 

Il concetto di identificazione proiettiva venne descritto nel 1946 da M. Klein, in “Note su alcuni meccanismi schizoidi”. Ipotizzando l’esistenza di una posizione schizoide normale già nei primissimi tempi dello sviluppo, M. Klein descrive una particolare fantasia attraverso la quale il neonato, per difendersi dall’angoscia, scinde e proietta all’interno della madre parti di sé intollerabili, in modo tale da poterle controllare.

Wilfred Bion ha rielaborato l’originario concetto kleiniano di identificazione proiettiva, trasformandolo da meccanismo psichico primitivo (qualcosa che il neonato faceva nei confronti di qualcuno) a concetto che delinea un processo interpersonale, nel quale il ruolo del destinatario delle proiezioni è significativamente importante.

Con Bion, l’identificazione proiettiva, oltre ad essere una difesa primitiva del bambino contro un’angoscia intollerabile, diventa un’importante modalità di comunicazione attraverso la quale l’organismo immaturo riesce a trasmettere sentimenti ed emozioni non ancora nominabili ad un oggetto recettivo. L’effetto che essa produce sull’oggetto che riceve la proiezione, ed il ruolo che esso ha nell’accoglierla e nel modificarla, determinano le basi per lo sviluppo del pensiero.

Bion (1962) descrive una relazione in cui la madre accoglie dentro di sé, attraverso l’identificazione proiettiva del neonato, esperienze sensoriali, emozioni, disagi fisici disorganizzanti e inelaborabili e, tramite la funzione alfa, li restituisce arricchiti di senso. Ciò che il neonato reintroietta, non sarà solo la propria originaria esperienza, resa tollerabile dalla mente materna, ma l’esperienza della relazione amorevole con un oggetto recettivo: è identificandosi in questa esperienza interpersonale creativa che il neonato apprende, a propria volta, a pensare.

Se la madre non riesce a tollerare le proiezioni del figlio, quest’ultimo aumenterà la frequenza e l’intensità delle identificazioni proiettive e ciò priverà le proiezioni del loro stesso significato, causando delle reintroiezioni massicce ed intollerabili per la rudimentale coscienza del neonato (Bion, 1961). In tal caso, per Bion, siamo in presenza di una forma di identificazione proiettiva patologica che si contraddistingue per la sua qualità onnipotente e per il grado di violenza con cui viene messa in atto.

Pazienti che, a livello di relazione primaria, hanno avuto l’esperienza di un oggetto chiuso alla comprensione e non recettivo rispetto alle proiezioni della propria sofferenza, ricorrono all’uso ipertrofico dell’identificazione proiettiva per negare la realtà e l’angoscia (Bion, 1961).

Modello contenuto/contenitore

Bion ipotizza l’esistenza di un rapporto dinamico contenitore/contenuto come modello attraverso cui guardare alla strutturazione della personalità. Egli ritiene che, affinché si formino pensieri, è necessario che si crei un contenitore mentale, al cui interno dei contenuti possano prendere forma.

In Bion il pensare viene concepito come conseguenza della pressione esercitata dai pensieri sulla psiche. In altre parole, i pensieri sono antecedenti al pensare stesso. Bion ipotizza, avendo in mente il concetto di identificazione proiettiva, che sofferenza fisica e psichica inizialmente sono indistinguibili per il bambino. Nel momento in cui il piccolo vive un’esperienza di angoscia che non è in grado di comprendere o gestire da solo, nello sforzo di trovare sollievo, cerca di espellere il dolore e sbarazzarsi di tutte le sensazioni angosciose. La presenza di una madre ‘sufficientemente buona’, in grado di accogliere le proiezioni del figlio, di non lasciarsi sopraffare da esse e di renderle gestibili, offrirà al bambino la possibilità di sentirsi reintegrato. In tale dinamica, la madre è il contenitore mentre l’angoscia del bambino è il contenuto. Ciò che viene re-introiettato nella relazione contenuto/contenitore, non è solo un contenuto modificato dall’elaborazione del contenitore, ma la capacità stessa di rielaborazione del contenitore.

Rêverie e Funzione Alfa

All’inizio è la madre che pensa per il neonato, ella favorisce la formazione delle strutture e delle funzioni mentali, ponendosi dapprima come contenitore degli elementi beta (afferenze sensoriali ed emotive grezze) che il bambino proietta in lei. Il bambino infatti evacua impulsi, sofferenze, desideri e sensazioni sconnesse e prive di significato; la madre, grazie all’accudimento, ma soprattutto grazie alla capacità di intuire lo stato emotivo del figlio, bonifica i momenti di terrore e cerca di dare un significato a tutti quegli stimoli che per il bambino sono incomprensibili. Bion utilizza il termine rêverie per indicare la capacità inconscia della madre di immedesimarsi, in modo empatico, nei vissuti del piccolo. Il concetto di rêverie indica lo stato mentale della madre aperto alla ricezione delle identificazioni proiettive del bambino e dunque la capacità di accogliere contenuti impregnati di odio o di amore. Si potrebbe dire che la madre sente nel suo corpo ciò che sente il bambino, con la differenza che ella sa darvi un senso e quindi una risposta adeguata. Ella tollera e mette insieme i frammenti del Sé angosciato del bambino, cercando di restituire a quest’ultimo un senso di coesione e coerenza.

Se le circostanze sono favorevoli, ovvero se il bambino è sufficientemente contenuto, a livello psichico e fisico, da una persona in grado di farlo, potrà avvertire un’esperienza di integrazione e dunque lui stesso acquisirà la sensazione di avere una capacità contenitiva interna. Questo avviene perché la mente del neonato non è in grado da sola di fare uso dei dati sensoriali, ma necessita di una mente che possa ‘masticare’ ogni elemento per poi restituirlo in forma ‘digerita’. A questo processo di contenimento attivo dello stato mentale del bambino e di bonifica degli elementi beta, Bion diede il nome di funzione alfa. Si tratta della capacità di contenere e conferire una figura e una forma ad emozioni che sono proprie del bambino, senza imporre sentimenti dall’esterno e senza limitarsi a rifletterli come uno specchio. Il bambino dunque apprende ed introietta, grazie alla madre, questa capacità di contenimento e, successivamente, sarà egli stesso in grado di metabolizzare sensazioni grezze per elaborare pensieri, pertanto sarà egli stesso in grado di trasformare gli elementi beta in elementi alfa grazie alla funzione alfa.

Qualora la funzione alfa dovesse essere alterata, l’esperienza non potrà essere assimilata e, pertanto, invece di diventare cibo per la mente, resterà un fatto ‘non digerito’, un elemento beta, il cui destino sarà quello di essere evacuato (Corrao, 1981). Il bambino, incompreso nei suoi bisogni primari, dunque privo della capacità di contenere le emozioni, introietta «non più una paura di morire resa tollerabile, ma un terrore senza nome» (Bion, 1962, p. 178). L’espressione terrore senza nome descrive la perdita di ogni traccia di significato e dunque l’esperienza di un bambino che, non solo non ha a disposizione una mente entro cui poter proiettare la sua ansietà, ma che vede anche la propria ansia accresciuta in modo spaventoso dalla scoperta di una situazione in cui non c’è una madre che allevia le sue spiacevoli sensazioni, bensì le aumenta.

I concetti di relazione contenitore/contenuto, funzione alfa e rêverie vengono impiegati, dallo stesso Bion, anche per definire l’assetto mentale dell’analista in seduta.

Disponendosi all’ascolto, «lo psicoanalista deve esercitare la sua intuizione in modo tale che essa non venga danneggiata dall’intrusione della memoria, del desiderio e della comprensione» (Bion,1970), egli si rende ricettivo verso le emozioni trasmesse dall’analizzando, mediante l’identificazione proiettiva, in attesa che il lavoro della propria funzione alfa produca in lui rappresentazioni spontanee, da cui potranno scaturire forme adeguate di comprensione e interpretazione. L’ingresso dei contenuti del paziente all’interno della mente-contenitore dell’analista produce, in quest’ultimo, una condizione mentale iniziale caratterizzata dalla non integrazione del significato, associata a sentimenti di angoscia persecutoria. Se l’analista riuscirà a tollerare questo stato di sofferenza, allora potrà, attraverso la funzione alfa, rielaborare i contenuti che il paziente ha proiettato in lui per poi restituirglieli in forma comprensibile e tollerabile. Nella mente dell’analista in stato di rêverie affioreranno, ad esempio, immagini visive ma anche rappresentazioni acustiche o di altri registri sensoriali, più o meno organizzate, da semplici flash istantanei a sequenze narrative di varia durata (Ferro, 2002). La capacità di tollerare l’ignoto è legata alla fiducia in un qualche cosa che va sviluppandosi attraverso il contatto emotivo con il paziente, sarà la possibilità di mettere in parole questo qualcosa, a produrre la possibilità di un cambiamento catastrofico nel paziente, ovvero un salto brusco nella crescita mentale (Corrao, 1981).

Conclusioni

Gli sviluppi teorici del concetto di identificazione proiettiva hanno contribuito a mettere in evidenza l’importanza di tale fenomeno, in quanto ponte e collegamento tra mondo intrapsichico e mondo sensibile, presente in tutte le forme di relazione e particolarmente visibile nella relazione di transfert/controtransfert tra paziente ed analista.

Alla luce del prezioso contributo di Bion, l’identificazione proiettiva ha assunto una valenza ‘terapeutica’ ed euristica, essenziale nel setting psicoanalitico, sia esso individuale o gruppale.

L’identificazione proiettiva può essere riconosciuta nei processi transferali e controtransferali ed essere utilizzata come chiave di accesso al mondo interno del paziente. Riconoscerne il valore significa lasciare aperto lo spazio alla possibilità di una esperienza emozionale di conoscenza e crescita per i protagonisti del campo analitico. Affinché ciò accada è necessario che l’analista sia disponibile ad accogliere il ‘sentire’ del paziente in casa propria e che quel sentire prenda casa nella propria casa per poi uscire ristorato e riposato (Guarinelli S., 2007).

 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bion W. (1961), Il pensare: una teoria. In: International Journal of Psycho Analysis, 43, pp. 306-310.
  • Bion W. (1962), Apprendere dall’esperienza. Armando Editori.
  • Bion W. (1970), Attenzione e interpretazione. Armando Editori.
  • Corrao F. (1981), Struttura poliadica e funzione gamma. In: Orme. Contributi alla psicoanalisi di           gruppo. Raffaello Cortina Editore.
  • Ferro A. (2002), Fattori di malattia, fattori di guarigione. Genesi della sofferenza e cura psicoanalitica. Raffaello Cortina Editore.
  • Guarinelli S. (2007), L’inquietudine dell’altro. A proposito di empatia e identificazione proiettiva. In: Tredimennsioni, 4, pp. 8-18.
  • Klein M. (1946), Note su alcuni meccanismi schizoidi. Tr.it. in: Scritti 1921-1958, Boringhieri Torino.
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