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Pratica degli scacchi e demenza

Diversi studi dimostrano l’esistenza di una correlazione tra la pratica degli scacchi e la riduzione dei sintomi associati alla demenza

Di Angela De Figlio

Pubblicato il 21 Mag. 2021

Il gioco degli scacchi sembra ridurre il rischio di demenza e combatterne i sintomi.

 

Diversi studi dimostrano l’esistenza di una correlazione tra la pratica degli scacchi e la riduzione degli effetti di decadimento cognitivo associati alla demenza, in particolare uno studio recente reso noto dalla rivista The New England Journal of Medicine ha rilevato nei soggetti al di sopra di 75 anni impegnati nel gioco degli scacchi, un allenamento cognitivo tale da indurre in loro un minor rischio di sviluppare demenza rispetto ai coetanei non giocatori.

Il gioco degli scacchi costituisce una vera e propria disciplina sportiva riconosciuta dal CONI e in realtà può essere considerato molto più di un semplice gioco, in quanto è oramai noto che la pratica costante ha delle positive ripercussioni sull’allenamento e lo sviluppo di abilità cognitive, che attualmente sono prese in considerazione anche in ambito psicoeducativo. Basti pensare che in alcuni paesi come Francia, Germania e Regno Unito il gioco di scacchi è entrato anche nella didattica come materia scolastica che aumenta le capacità logiche. In termini pedagogici, la pratica degli scacchi comporta diversi benefici a livello di concentrazione, accettazione di regole con notevoli ripercussioni anche su autostima, responsabilità, autocontrollo, memoria, coordinazione, creatività e quindi consente di raggiungere nei bambini diversi obiettivi fondamentali per lo sviluppo della mente e del comportamento pro sociale. Possiamo quindi considerare il gioco di scacchi come una palestra della mente, ovvero un training cognitivo e come tale è stato attenzionato e applicato anche in altri ambiti sperimentali come ad esempio la riabilitazione neuro cognitiva rispetto a disturbi vari, tra cui in particolare la demenza. In Italia, ad esempio, la Brain Care, centro che si occupa di stimolazione e potenziamento cognitivo nei soggetti disabili ma anche in soggetti normo e iper-abili, di cui è direttrice dal 2011 la dottoressa Anna Cantagallo, nonché docente in diversi Atenei italiani e coordinatrice delle sezioni di Riabilitazione Neuropsicologica (GIRN) dal 2006 al 2014, ha mostrato notevole interesse per il gioco degli scacchi considerato anche come sorta di test di valutazione di processi cognitivi, quali risoluzione di problemi ed expertise (insieme di comportamenti generali e specifici associati al pensiero creativo). La dottoressa Cantagallo, infatti, spiega che il gioco degli scacchi “si basa principalmente sull’attivazione rapida e consapevole di vari processi come ad esempio la memoria a lungo termine, problem solving, autocontrollo e la teoria della mente”.

Nelle ricerche condotte, pare si sia evidenziata inoltre, un’attivazione bilaterale della corteccia frontale superiore, dei lobi parietali, dell’emisfero sinistro e della corteccia occipitale in tutte le fasi del gioco ed in misura direttamente proporzionale alla sua complessità. Tutto ciò sembra molto interessante anche come applicazione alla riabilitazione cognitiva e psichiatrica, soprattutto per via dell’ampio coinvolgimento del lobo frontale; si è visto come ad esempio il gioco degli scacchi abbia permesso di diminuire la frequenza di deliri e allucinazioni, disturbi formali del pensiero in alcune patologie psichiatriche come ad esempio la psicosi schizofrenica.

Invece, per quanto riguarda la pratica degli scacchi intesa come ‘fattore protettivo’ in altri disturbi come la demenza, che è molto diffusa nella popolazione, è interessante riportare una recente pubblicazione del 2019 di Crespo e colleghi (Crespo et al., 2019), nella quale si evidenzia una connessione tra gioco di scacchi e possibilità di prevenire l’insorgenza della demenza nella popolazione non diagnosticata. Gli autori hanno condotto una ricerca sulla base di 21 articoli selezionati in seguito all’applicazione di precisi criteri di inclusione e di esclusione, con l’intento di comprendere se gli scacchi potessero essere considerati fattore protettivo (inteso cioè come aspetto del comportamento o stile di vita personale, esposizione ambientale o innato o caratteristica ereditaria che, sulla base di evidenze epidemiologiche, è noto per essere associato con la prevenzione o mitigazione di una condizione correlata alla salute) e quali potessero essere i benefici per le persone con una diagnosi di demenza. Ricordiamo che tra i principali sintomi della demenza vi sono: perdita della memoria con forte ripercussione sulla vita quotidiana delle persone affette, senso di confusione spazio/tempo e difficoltà nella risoluzione di problemi. Il cervello di pazienti con Alzheimer, nello specifico, mostra la presenza di placche insieme ad un accumulo di proteine tra le cellule nervose, che normalmente si determina con l’avanzamento dell’età, ma che nei pazienti con la suddetta patologia neurologica è presente in modo maggiore rispetto alla media dei soggetti anziani. A tal proposito, è possibile citare un lavoro riportato sul New England Journal of Medicine (Coyle et al. 2003), che ha sottoposto 500 partecipanti di età superiore ai 75 anni, ad uno studio della durata di circa 5 anni, in cui gli stessi erano impegnati in svariate attività ricreative compresi gli scacchi e per i quali si è evidenziato che tali attività tendevano a ritardare lo sviluppo di segni di demenza, rispetto a quanto emerso per i soggetti che non vi avevano giocato. Il coinvolgimento dei partecipanti allo studio in circa 10 attività di esercizio della mente, compresi appunto gli scacchi, ha ritardato per la precisione i segni della demenza di circa 1,5 anni, pertanto, gli individui che giocavano a giochi da tavolo avevano oltre il 35% in meno di probabilità di sviluppare demenza rispetto a chi vi aveva partecipato occasionalmente o raramente.

La ricerca di Crespo ha considerato come criteri di inclusione degli studi revisionati, in primis l’inserimento di quelli riportati in articoli pubblicati su riviste scientifiche, revisioni sistematiche con o senza meta-analisi, studi sperimentali, descrittivi e revisioni bibliografiche. Sono stati invece esclusi i documenti relativi agli animali, limitandosi esclusivamente a considerare le indagini condotte su esseri umani. I risultati della revisione dei vari studi ha dimostrato quindi, quanto la promozione negli anziani di un loro coinvolgimento in attività cognitivamente stimolanti come la lettura, i giochi da tavola ma anche ad esempio il ballo, in quanto attività ricreative, possa migliorare la condizione della malattia e addirittura influenzarne il percorso di avanzamento, rafforzando le funzioni cognitive se praticate in fasi iniziali. Ciò sarebbe spiegato dal fatto che attività mentali che richiedono un certo sforzo producono e rafforzano le connessioni sinaptiche, stimolando la neuro genesi e la promozione di cambiamenti plastici a livello cerebrale, che inevitabilmente rallenterebbero i sintomi della demenza.

Anche altri studi come quello di Lin e colleghi (2003) conferma che il “GOgame”, ovvero una tipologia di scacchi cinese risalente a circa 5000 anni fa, può migliorare la qualità di vita di pazienti con demenza. In effetti questo tipo di gioco pare comporti modifiche associate a molte funzioni cognitive quali apprendimento, ragionamento astratto e autocontrollo che peraltro facilitavano la terapia cognitivo- comportamentale con cui i soggetti dello studio erano trattati. Un’altra interessante ipotesi riportata da studi epidemiologici riguarda invece l’affermazione secondo cui vi sia una associazione tra alti tassi di attività ricreative in età avanzata e un minor declino cognitivo basata sulla “teoria della riserva cognitiva”. Tale teoria sostiene che gli individui con una maggiore riserva cognitiva posseggano reti neurali più efficienti o che abbiano la possibilità di impiegare reti alternative, ritardando in tal modo l’incidenza della demenza.

Infine si può affermare che, nonostante tutti i vantaggi menzionati e la scarsa esistenza di dati che vadano contro gli effetti positivi del gioco di scacchi, le prove attualmente non sono abbastanza consistenti da sostenere un nesso causale diretto. Non vi è dubbio sul fatto che sarebbe necessario condurre ulteriori sperimentazioni più controllate a supporto di quanto detto e valutare meglio l’effetto protettivo delle attività cognitive sul rischio di demenza soprattutto sulla popolazione già con diagnosi acclarata.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Manuel Lillo- Crespo,  Mar Forner- Ruiz, Riquelme- Galindo, Daniel Ruiz –Fernandez, Sofia Garcia –Sanjuan (2019). Chess practice as a protective factor in dementia. International Journal of Environmental Research and Public Healt 2019 Jun; 16(12) 2116.
  • Coyle J.T. (2003). Use it or lose it- Do effortful mental activities protect against dementia?. New England Journal Medicine. 2003; 348:2489-2490. Doi: 10.1056/NEJMp030051
  • Lin Q., Cao Y., Gao J. (2015). The impacts of a GO-game (Chinese chess) interventions on Alzheimer disease in a Notheast Chinese population, Front. Aging Neurosci. 2015; 7:163 doi:10.3389/ fnagi 2015. 00163.
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