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Vivere i lutti e le separazioni durante la pandemia: pre e post lockdown

La realtà del lutto e della perdita con la quale ci confrontiamo dall'avvento del Covid-19 spinge ciascuno di noi a fare i conti con le proprie emozioni.

Di Pamela Contini

Pubblicato il 09 Apr. 2021

Oggi, a quasi un anno dall’arrivo del covid-19, poter far visita al defunto e partecipare al rito funebre sono probabilmente gli unici elementi concreti che ci fanno sperimentare più sofferenza e meno rabbia.

 

É impossibile continuare senza di te,
ma è anche impossibile non continuare senza di te. (Beckett)

La realtà del lutto e della perdita con la quale ci stiamo confrontando, ormai da diversi mesi e in misura maggiore in questo periodo di pandemia, spinge ciascuno di noi a fare i conti con le proprie emozioni. Ad inizio pandemia, le emozioni con le quali ci siamo maggiormente confrontati sono state la tristezza e la rabbia, unitamente al senso d’impotenza e frustrazione che abbiamo provato per il non poter far nulla, restando “sospesi” ed “immobili” all’interno delle nostre case, mentre ci veniva negata la possibilità di dare almeno un ultimo saluto al nostro caro, che in quel momento ci stava lasciando. La privazione della libertà di poter partecipare attivamente alle celebrazioni di sepoltura e poter condividere fisicamente con gli altri la perdita, come unica soluzione possibile per sentirsi “vicini ma non troppo” a quel mondo oscuro colorato di nero, ha amplificato la rabbia, la sofferenza, l’impotenza.

S. Freud (1925) ha affermato che:

Il dolore è la vera reazione alla perdita dell’oggetto; il lutto è un’altra delle reazioni emotive alla perdita dell’oggetto: si forma dalla consapevolezza di doversi separare effettivamente dall’oggetto perché di fatto non c’è più.

Pensando alla parola perdita la prima immagine che richiamo nella mia mente è quella di un bambino molto piccolo che giocando vede la sua mamma allontanarsi dalla stanza: il bambino continua a giocare ma, quando si accorge che la mamma è andata via, inizia a piangere credendo che la mamma sia andata via per sempre. Questi due aspetti, quello della “perdita” e quello del “per sempre” sono tra loro collegati in quanto implicano un allontanamento, una separazione, per un tempo che può essere breve ma percepito come molto lungo, oppure esteso e senza possibilità di ritorno ma che in realtà percepiamo ridotto.

Galimberti U. (1999) definì l’esperienza della perdita come quello

stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o di un oggetto interno come il chiudersi di una prospettiva, la perdita della propria immagine sociale, un fallimento personale etc.

Le famiglie che hanno perso o stanno perdendo un proprio caro sono chiamate a riadattarsi personalmente alla perdita, devono cioè fare i conti con sé stessi e con la propria identità, imparando anche a dover vivere nel mondo senza la presenza della persona che li ha lasciati. Oggi, a quasi un anno dall’inizio della pandemia, il poter far visita al defunto e partecipare al rito funebre, seppur con tutte le dovute precauzioni è probabilmente l’unico elemento concreto che ci fa sperimentare più sofferenza e meno rabbia. Partecipare “attivamente” alla commemorazione del defunto lascia spazio a quel sentimento di impotenza e dolore che, durante il rito, trova simbolicamente una ricollocazione nella fase della sepoltura.

Come scrive Massimo Recalcati in un’intervista rilasciata sul periodico Hospes di qualche mese fa:

ogni morte è sempre prematura, è sempre traumatica. In certi casi ovviamente in modo indicibile, come quando si spegne la vita di un figlio. Ma in ogni caso anche la morte di un anziano non è mai un evento naturale. Non ci si può mai abituare alla morte. Per questo il lavoro del lutto è sempre difficile. Si può lavorare attorno alla perdita. Si può provare a simbolizzarla. Ma il reale traumatico della perdita non si può assorbire mai integralmente. La capacità di reazione non consiste nel vincere o tanto meno nel negare maniacalmente la perdita ma, paradossalmente, nell’incorporarla simbolicamente.

Questo è ciò che viene definito in psicoanalisi elaborazione del lutto: un percorso che ci porta ad una comprensione più profonda della persona che ci ha lasciato. Recalcati parla di morte e di perdita non come di un processo statico bensì come un lavoro dinamico, in movimento, che interessa e vede protagonisti anche chi resta.

Lavorare sulla e con la perdita ci permette di entrare in contatto con quel lato oscuro della nostra mente, quella parte più in ombra… Ma, permettendo di raccontare come è stata vissuta l’esperienza della separazione, si potrà creare un filo elastico tra quello che è stato il “prima” e quello che sarà il dopo. Il rituale funebre, che nei primi periodi della pandemia ci è stato negato, è una delle possibilità di elaborazione del lutto cosiddetto complicato (es. covid-19; terremoto) che ci ha spinto in questi mesi a ricreare, anche in seguito alla mancanza di una condivisione sociale, un ambiente comune a tutti attraverso i media ed i social network.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, S. (1925). Angoscia, dolore e lutto. Torino: Bollati Boringhieri (2012).
  • Freud, S. (2013). L' elaborazione del lutto. Scritti sulla perdita. BUR Biblioteca Univ. Rizzoli.
  • Galimberti, U. (1999). Psicologia. Torino: Garzanti.
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