Il film La famiglia Savage è una riflessione su come la malattia e la perdita delle autonomie di un genitore comportino spesso il riemergere di dinamiche familiari congelate per anni.
Di sicuro il rovescio della medaglia dell’aumento della speranza di vita, e del conseguente aumento della popolazione anziana, è l’incremento dei tassi di prevalenza di malattie croniche e degenerative come la demenza. Negli ultimi decenni sempre più film trattano questa problematica, ognuno dando peso a differenti aspetti della care. Uno di questi è La famiglia Savage (2007), scritto e diretto da Tamara Jenkins.
Il film vede come protagonisti Jon e Wendy, fratello e sorella, che vivono in zone diverse degli States e si sentono raramente, entrambi con una vita sentimentale e professionale insoddisfacente. All’improvviso ricevono una notizia: l’anziano padre, con cui i rapporti si sono interrotti da un po’, sembra avere i sintomi tipici della demenza e, dopo la morte della compagna, viene cacciato dalla casa in cui si trovava. Ora che è rimasto senza tetto e non più autosufficiente, come non occuparsene? Questo evento improvviso e repentino porta i due fratelli a riconciliarsi al fine di decidere circa l’assistenza del padre, cambiando le proprie abitudini quotidiane. Viene rappresentata, quindi, l’intensa, coinvolgente e complessa esperienza del prendersi cura del proprio genitore anziano fragile.
Ogni famiglia vive momenti di difficoltà e crisi che portano a un disequilibrio e che necessitano di una nuova organizzazione dei rapporti tra i membri della famiglia stessa. Nel caso della non-autosufficienza, il primo passo per organizzare la care è individuare un familiare o una persona fidata che assuma il ruolo di caregiver principale. Nel caso dei Savage, Jon e Wendy decidono di prendersi entrambi la responsabilità di compiere delle scelte per il padre, optando per l’istituzionalizzazione.
Diventano allora protagoniste le dinamiche relazionali che si innescano tra i membri della famiglia coinvolti, in particolare alla luce del loro passato. Il film è, quindi, una riflessione su come la malattia e la perdita delle autonomie di un genitore comportino spesso il riemergere di dinamiche familiari congelate per anni. Due sono gli aspetti su cui è bene concentrare l’attenzione, ovvero la modalità con cui viene comunicata la diagnosi e la difficile scelta di inserire il proprio caro in una struttura.
La comunicazione della diagnosi
Fin dalle prime scene vediamo un anziano scorbutico, offensivo e con disturbi del comportamento evidenti. Ai figli viene riferito che “non è più quello di prima” e che “si dimentica tutto”. Raggiunto l’ospedale in cui è ricoverato, i figli trovano il padre a letto, agitato, confuso, con misure di contenzione. Qui hanno modo di interfacciarsi con il medico che li accompagna velocemente a visionare i risultati di neuroimaging. Il medico adotta un linguaggio molto tecnico e sbrigativo, elencando una serie di segni e sintomi riscontrati nel padre (caduta dei freni inibitori, fissità dello sguardo, aggressività, inespressività del volto) che lo fanno propendere più per una diagnosi di morbo di Parkinson, prospettando ai familiari un crescendo di complicazioni e deficit.
Il medico adotta, quindi, un modello di comunicazione della diagnosi che Emanuel ed Emanuel (1992) definiscono informativo: il professionista è simile a un tecnico esperto che deve fornire al paziente tutte le informazioni, sarà poi il paziente o chi per lui a decidere su come intervenire. I limiti di questa modello, riscontrati dagli autori, sono la presunzione che il paziente o caregiver siano in grado di prendere decisioni che sono il più delle volte complesse e la semplificazione della realtà clinica e del ruolo del medico.
Più attuale e adeguato è invece il modello deliberativo, secondo cui il medico è tenuto a instaurare un dialogo con il paziente su quale azione potrebbe essere la migliore da intraprendere, andando al di là degli obiettivi immediati della relazione professionale. Il professionista dovrebbe rispettare le difese del paziente e non distruggere la speranza, dal momento che è sempre possibile intraprendere interventi utili, almeno per diminuire la sofferenza. Soprattutto nel caso di prognosi infausta, il medico dovrebbe cercare di comprendere il peso del sapere che il paziente può sopportare e, nella comunicazione della diagnosi, dovrebbe saper coniugare il “diritto alla verità” con il “diritto alla speranza”.
J: E quindi che cosa ci dobbiamo aspettare?
M: Beh non è più giovanissimo e una crisi cardiaca o polmonare potrebbe risparmiargli il peggio. Tuttavia, non mancheranno tremori, un incedere saltellante, improvvise immobilità, difficoltà nel controllo degli arti… insomma un crescente deficit motorio.
L’istituzionalizzazione
Il prendersi cura di un genitore è un’esperienza complessa che riporta a galla legami, relazioni e “conti in sospeso”.
Ogni scelta presa, sia essa temporanea o permanente, comporta un costo emotivo, facendo emergere sentimenti ambivalenti e contrastanti. Mentre Wendy appare più coinvolta emotivamente e in preda ai sensi di colpa, Jon risulta più distaccato e razionale. Nella scelta di inserire il padre in una struttura per anziani, mentre Wendy si sente un “mostro orripilante” e valuta attentamente la qualità dei servizi offerti per garantire al genitore la migliore assistenza possibile, Jon individua e sceglie una struttura in base alla vicinanza e risponde ai sensi di colpa della sorella con un “gli stiamo dando più di quello che lui ha dato a noi”.
Aspetti della relazione precedente hanno, dunque, un impatto sul modo in cui la relazione di cura funziona e su come viene vissuto il ruolo di caregiver.
Wendy cerca di fare il possibile per lenire il proprio senso di colpa: personalizza la stanza del padre arredandola in modo che faccia più “casa”, porta con sé il fratello a gruppi di sostegno per familiari di anziani con demenza e prova a inserire il padre in una struttura qualitativamente superiore a quella in cui risiede, con scarso successo.
Questa esperienza avvicinerà i due fratelli, portandoli a conoscersi meglio, a cambiare e migliorare, riprendendo in mano la loro vita.
J: Non è a lui che non piace la casa di riposo dove sta adesso.
W: Voglio solo migliorare la sua situazione, è un delitto?
J: La situazione di papà va benissimo com’è, ma non ci si abituerà mai se continuiamo a sbatacchiarlo a destra e sinistra… Anzi per dirla tutta, questa tua fissa per i posti chic è controproducente e spaventosamente egoista!
W: Egoista?
J: Sì perché lui non c’entra, sei tu e il tuo senso di colpa.. che è la cosa su cui puntano loro [le case di riposo]
W: Io osservo soltanto che qui è più dignitoso!
J: È logico, perchè sei il loro consumatore ideale: una garantista coi sensi di colpa! Il parco tenuto bene e il paesaggio carino non sono per gli ospiti, sono per i parenti… persone come noi che non vogliono ammettere cosa succede qui!
W: Perchè cosa succede qui?
J: Qui si viene a morire, Wendy! Dentro quel delizioso edificio, in questo istante, è peggio di un castello degli orrori […]
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