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L’intolleranza del dubbio nel disturbo ossessivo compulsivo secondo il modello psicoanalitico

Se il pensiero paralizza l’azione, il DOC finisce per divenire vittima inesorabile di quello stesso dubbio che cerca di evitare.

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 23 Feb. 2021

Aggiornato il 26 Feb. 2021 13:08

Uno degli aspetti che caratterizza il disturbo ossessivo compulsivo è l’assoluta non tolleranza del dubbio, inteso come incertezza dell’azione e del pensiero. Il soggetto affetto da questo disturbo percepisce la soverchiante e pervasiva necessità di avere tutto sotto controllo, di dover dominare ogni aspetto della propria dimensione esistenziale, eludendo insicurezze di qualsiasi genere.

 

Il paradosso è che raggiungere questo scopo dà vita ad un’attività cognitiva eccessivamente analitica, e per questo capace di paralizzare l’agito e di rendere più complicato il processo decisionale. Dunque, se il pensiero paralizza l’azione, il DOC finisce per divenire vittima inesorabile di quello stesso dubbio che cerca di evitare.

L’origine della paura del dubbio

La diffidenza con cui il soggetto ossessivo si approccia all’incertezza può essere spiegato attraverso l’identificazione di quest’ultima con il più complesso concetto di ambivalenza, un senso di ambiguità tra pulsioni contrapposte – sperimentato nella fase anale- dal quale si è originato un paralizzante vissuto di non azione di cui il conflitto nevrotico ha rappresentato la soluzione disfunzionale.

È nella fase anale che per la prima volta il bambino prova l’entusiasmo di prendere iniziative autonome- a livello della propria attività sfinterica- che vorrebbe esercitare in assoluta libertà. Se non fosse che proprio in questa fase le sue pulsioni autonomistiche vengono frustrate dai primi ammonimenti genitoriali – specie materni – volti a reprimere, o meglio a disciplinare in una modalità adattiva, una pulsionalità completamente esente da regole. Il bambino vorrebbe regolare da solo la propria attività escretiva, ma non può farlo a causa dell’impedimento materno. E quello che all’apparenza appare un conflitto pulsionale senza conseguenze, per un bambino di diciotto mesi assume caratteristiche esistenziali, andando a sovrapporsi al più soverchiante dilemma tra autonomia e obbedienza, tra dipendenza e iniziativa, tra azione e passività (Freud, 1905; 1913).

È proprio nell’iniziativa che viene vissuto il maggior disagio, perché in essa si identifica un senso di colpa che lo allontanerà dal genitore. Il bambino vorrebbe sporcare l’ambiente per lasciare una traccia di Sé e per ricevere conferme della propria esistenza- ma sente che l’attuazione di questa pulsione lo porterebbe nella direzione opposta a quella voluta dalla madre, e dunque alla perdita del suo affetto (Freud, 1908). Se ne origina un conflitto di più ampia portata in cui l’amore verso il Sé comporta l’allontanamento dell’oggetto materno, e l’obbedienza ai rigidi dettami di quest’ultimo si tramuta in una mortificazione del Sé, e dunque in una ferita narcisistica (McWilliams, 1994).

La paura di sbagliare e la difesa dalle emozioni

Il rigoroso genitore presente nell’eziopatogenesi del DOC è destinato a tramutarsi in un Super-Io rigido e ipercritico pronto a sabotare l’azione con il dubbio, ad imporre elevati standard di prestazione, a creare obblighi e doveri improcrastinabili che fanno dell’ossessivo un soggetto dotato di un rigido senso del dovere e di una morale inflessibile. Ferenczi parla di moralità sfinterica (1925) proprio in riferimento al fenomeno psichico – tipico della fase anale- in cui il rispetto delle regole escretive viene percepito dal bambino come una norma morale. Questa perfezione “moralizzante” può essere raggiunta, nel DOC, solo attraverso un’analisi cognitiva oltremodo dettagliata, che sia in grado di scongiurare ogni possibile errore. In realtà, al termine di ogni lunga e sofferta decisione, il soggetto inizierà a divenire preda di costanti ruminazioni post decisionali che lo spingono a reputare giusta proprio la direzione che non ha preso. Per questo ha paura di decidere da solo, e spesso si affida all’aiuto altrui per dissipare le tormentose incertezze (Shapiro, 1965).

Da un punto di vista clinico può sovvenire l’analoga difficoltà decisionale tipica del disturbo dipendente, dalla quale quella del DOC si differenzia tuttavia per essere ispirata non dalla volontà di mantenere un legame affettivo necessario alla sopravvivenza, quanto dal bisogno di evitare ogni possibile errore, che lo costringerebbe a subire la pressione soverchiante di un super-Io persecutorio e delle sue colpevolizzanti recriminazioni.

La difesa dall’errore e dal dubbio, nel DOC, non rappresenta dunque che il tentativo di proteggersi da un Super-Io dominante che andrà adeguatamente depotenziato nel setting terapeutico, non solo al fine di concedere maggiore spazio operativo all’Io, e dunque una più corretta impostazione delle relazioni oggettuali e dell’esame della realtà, ma anche per diminuire l’utilizzo di quei meccanismi di difesa che, nel disturbo DOC, sono manifestamente legati alla necessità di non accedere ad un universo emotivo visto come terribilmente “minaccioso”: ad esempio l’isolamento affettivo, che rende accessibile alla coscienza il solo aspetto cognitivo di un evento escludendo quello emotivo, e l’intellettualizzazione, mediante la quale anche aspetti di natura affettiva vengono posti sotto una luce difensivamente razionale, in un implicito tentativo di liquidazione dell’angoscia (Freud, 1965).

Ma quella del DOC non è assenza di emozioni, quanto il timore di affidarsi a vissuti affettivi che potrebbero comportare la regressione ad una fase in cui le esperienze affettive si sono mostrate fonte di conflitto, disagio e ambivalenza (McWilliams, 1994). Proprio al fine di evitare questa regressione e il vissuto conflittuale che ne deriverebbe, il DOC ha estremo bisogno di certezza: da qui l’utilizzo di una attività cognitiva esasperata e per questo circolare e chiusa al mutamento.

Ogni cambiamento è percepito come un pericolo, e l’ossessivo vi reagisce con riluttanza, spesso arrivando a negarne l’esistenza. Una serie di esperimenti scientifici ha dimostrato la ritrosia con la quale soggetti psicastenici, ossessivi o affetti da patologie di matrice ansiosa accettino il cambiamento anche da un punto di vista percettivo. Sottoposti alla proiezione di uno stimolo visivo in un setting sperimentale, essi non riuscivano a riconoscere come quel medesimo stimolo –nello specifico un coniglio- stesse assumendo gradatamente le sembianze di un’oca (Canestrari, 1958). Risultato in linea con quello degli studi in laboratorio già compiuti da Martin (1954), il quale dimostrò come soggetti psicastenici non riconoscessero l’inclinazione di un tavolo proiettato in uno schermo, continuando a considerarlo immobile.

La diffidenza con la quale l’ossessivo giudica l’ambivalenza è dovuta al contenuto indeterminato, e dunque non controllabile, della stessa. Accettare un mutamento significa abdicare a certezze rassicuranti in favore di un incerto che, in quanto non conosciuto, può rivelarsi potenzialmente insidioso e non dominabile. Inoltre al concetto di cambiamento si correla immancabilmente anche quello di indecisione, di dubbio e di potenziale “sbaglio”: tutte componenti che l’ossessivo tende a rifuggire, in ottemperanza ai bisogni di certezza costruiti sulla base di una personalità anancastica il cui fine primario è proprio quello di evitare il crollo previsionale. L’imprevisto. Quel cambiamento nel quale riconosce una sinistra perdita di controllo, la stessa incertezza che nella fase anale lo ha costretto alla creazione del conflitto nevrotico (McDougall, 1989).

Allo stesso modo l’annullamento della componente emotiva costituisce per l’ossessivo il solo strumento in grado di preservarlo dalla natura imprevedibile e incontrollabile delle emozioni, nella quale egli non riesce a vedere un potenziale creativo ma soltanto una minaccia ad una razionalità che assume per lui un valore di controllo difensivo.

Ma è una strategia solo in apparenza efficace. L’inflessibilità patologica del soggetto ossessivo lo spinge in realtà verso gli stessi eventi psichici dai quali cerca salvezza: da una parte la volontà di conoscere ogni dettaglio della realtà gli comporta una chiusura totale verso la conoscenza e il mutamento- lo abbiamo visto nell’ansia percettiva; dall’altra, cercando di sfuggire un’ambivalenza percepita come annichilente, egli non fa che reiterare quel rimuginio che lo condanna inevitabilmente al dubbio.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Canestrari, L. (1958) Sindromi psichiatriche e rigidità percettiva, in “Rivista sperimentale di Freniatria”, 82, 1-7;
  • Ferenczi, S. (1925) Psicoanalisi delle abitudini sessuali ( e contributi alla tecnica terapeutica), in Opere, vol. 3, Raffaello Cortina, Milano, 1992;
  • Freud, S. (1913) La disposizione alla nevrosi ossessiva, OSF, Vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino 1975, pp. 235-248;
  • Freud, S. (1908), Carattere ed erotismo anale, OSF, Vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino, 1970 pp. 401-410;
  • Freud, S. (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale, OSF, Vol. 4, Bollati Boringhieri, Torino, 1972, pp. 447-550;
  • Freud, A. (1965) L’Io e i meccanismi di difesa, Giunti Firenze 2012;
  • Lingiardi, V. McWilliams, N. (2012) PDM, Psychoanalytic Diagnostic Manual, tr. It. Raffaello Cortina, Milano;
  • Martin, B. (1954) Intolerance of ambiguity in interpersonal and principal behaviour, in Journal of personalità, 22, pp. 494-503;
  • McDougall, J. (1989) Teatri del corpo, un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici, Raffello Cortina, Milano;
  • McWilliams. , N. (1994) La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma, 2012;
  • Shapiro, D. (1965), Stili nevrotici, Astrolabio, Roma, 1969.
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