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Promuovere l’esplorazione nel trattamento delle disfunzioni sessuali: episodi narrativi, homework e relazione terapeutica

Promuovere la conoscenza di sé in rapporto al piacere e stati mentali legati alla sessualità sono elementi chiave nel trattamento delle disfunzioni sessuali

Di Omar Bellanova

Pubblicato il 09 Dic. 2020

Aggiornato il 20 Apr. 2022 14:47

Nel trattamento delle disfunzioni sessuali è opportuno affidarsi a un modello terapeutico che sia in grado di estrarre informazioni rilevanti dagli episodi critici dove si sono creati gli schemi interpersonali maladattivi che guidano le esperienze nel presente (Dimaggio et al. 2013; 2019).

 

Acquisire una capacità. Imparare a fare qualcosa e affinarsi in un processo sempre più complesso. Prendere un’azione, divenirne interpreti e farla nostra. Interiorizzarla in un repertorio di procedure ed esperienze unico e personale che ci definisce. Da dove ha inizio tutto questo?

Sicuramente dal compiere delle prove. Averne esperienza. Comprendere passo dopo passo come la nostra persona è in grado di muoversi e percepirsi all’interno di quella data esperienza. È necessario imparare a riconoscere in modo chiaro cosa nel nostro mondo interiore si attiva e vive mentre sviluppiamo una procedura. Entrare in contatto con tutto quello che quell’esperienza elicita in noi, emozioni, pensieri, sensazioni corporee, desideri, ricordi.

Più ne prendiamo confidenza, più quell’esperienza inizia ad appartenerci divenendo nostra, familiare. Proviamo a spiegarlo con un esempio. Immaginiamo di essere di fronte un canestro, dobbiamo eseguire un tiro libero. Un cerchio con la rete fissato a un pannello a 5 metri è il nostro obiettivo. La palla nelle nostre mani è l’oggetto che dobbiamo imparare a governare per arrivare a segno. Semplice. Apparentemente semplice. Primo tentativo: tabellone mancato! Ci domandiamo cosa abbiamo sbagliato. Rivisitiamo nella mente il tentativo appena effettuato. Ascoltiamo minuziosamente ogni sensazione che siamo in grado di rievocare nella memoria, dalla forza percepita nel muscolo del braccio, alla tensione delle gambe, da come abbiamo respirato a cosa visualizzavamo nella nostra mente prima del tiro. Proviamo a fare degli aggiustamenti. Mettiamo i piedi alla larghezza delle spalle, li puntiamo in avanti facendo attenzione nel posizionarli perpendicolari al canestro, riproviamo. Questa volta la palla è nella direzione giusta ma va ben oltre il tabellone. C’è ancora qualcosa che possiamo fare per migliorare la situazione? Proviamo ancora. Ritorniamo nella nostra mente. Poi pieghiamo le ginocchia, stiamo più attenti alla posizione del braccio, sguardo sul canestro, la parte posteriore dietro la retina per essere precisi. Visualizziamo l’azione e proviamo a non trattenere il fiato. Tiriamo. Meglio!

Ad ogni errore comprendiamo qualcosa in più. Un insieme complesso di conoscenze che dobbiamo trovare il modo di assorbire, trattenere e ricordare. Non parliamo necessariamente di una memoria consapevole, ma di qualcosa che interiorizziamo e si automatizza divenendo parte di un complesso sistema di funzionamento. Si chiama conoscenza procedurale o know-how (Ryle, 1949).

Prendiamo per buono che questo processo, dopo ore, giorni e mesi di tentativi, errori e correzioni, abbia portato i suoi frutti e ci abbia fatto acquisire una buona padronanza dei movimenti, buone capacità e consapevolezza corporee. Il più delle volte la palla trapassa la rete o tende ad andarci abbastanza vicino tanto da non minare la nostra autostima.

Bene! Adesso facciamolo in partita, magari allo scadere del tempo con un punto di svantaggio sugli avversari. Più difficile vero? Forse allora è meglio non pensare che la partita in questione è una finale di campionato. Difficile vero? Allora eviterò di dire che tra gli spalti in incognito c’è un talent scout che deciderà del vostro futuro da atleta professionista.

Abbiamo introdotto una variabile fondamentale. Quel movimento fatto centinaia di volte, per qualche motivo, adesso è più difficile. In che modo cambia il nostro mondo interiore in quel momento? Ciò che subentra è l’attivazione di una struttura di conoscenza che chiamiamo ‘Schema Interpersonale‘. Esso ci dice cosa è importante per noi e ci fa prevedere gli esiti delle nostre azioni in contesti interpersonali. Ad esempio, ci fa sentire con maggiore o minore intensità il peso delle aspettative degli altri; oppure ci fa prevedere che falliremo o che potremo farcela. Con il nostro schema interpersonale attivo, vivremo in maniera più o meno schiacciante il momento critico e decisivo del tiro a canestro. Ma cosa accade quando questo schema non ha una procedura implicita tanto efficace quanto quella motoria?

La mente, nel ripetersi dell’esperienza, avrà registrato ogni azione e sensazione cenestesica selezionando e trattenendo quelle più adatte allo scopo; ora, deve comprendere come integrare tutto questo anche con gli aspetti emotivi. Scopriamo quindi che anche un’apparente azione semplice come quella di lanciare una palla, non è mai solo questo. Centrare un preciso punto gestendo forza, coordinazione e sensazioni emotive è un obiettivo che si raggiunge con la pratica e la conoscenza di sé stessi in un’integrazione continua di mente e corpo. Le variabili coinvolte in questo processo di apprendimento sono molte: abbiamo lo storico dei nostri allenamenti (storia individuale); la nostra conformazione corporea, il nostro stato emotivo e la nostra competenza su di esso (fattori individuali); infine c’è tutto il contesto sociale, squadra, compagni, allenatore ecc. (aspetti relazionali). Quando qualcosa in queste dimensioni va storto, il processo di apprendimento o il recupero del piccolo tesoretto di conoscenze interiorizzate, può essere sofferente o compromesso nella sua funzionalità.

Quando un giovane uomo, durante lo sviluppo della sua sessualità, si approccia verso la conoscenza del proprio corpo e del proprio piacere, vive un processo di sviluppo che non si discosta poi così tanto dalla dinamica sopra descritta. Proviamo a spiegare meglio questo concetto prendendo in analisi un disturbo dell’orgasmo: l’eiaculazione precoce.

Facciamo prima qualche premessa per avere un quadro più chiaro del campo di gioco e delle regole coinvolte.

L’attivazione del sistema sessuale nel mondo animale si differenzia da quello umano per una caratteristica fondamentale. In natura ci sono condizioni che rendono evolutivamente vantaggioso che il tempo da dedicare all’accoppiamento sia il più breve possibile poiché, durante l’atto sessuale, l’animale è esposto e vulnerabile. Questo meccanismo è stato ampiamente ricompensato nel processo di selezione evolutiva.

Nell’uomo la sessualità, invece, acquista una valenza più complessa rispetto al semplice atto di accoppiamento, includendo un fattore determinante: la ricerca e la gestione del piacere. Questa dimensione a sua volta è intrisa di funzioni sociali e interpersonali molto complesse. La qualità della relazione e l’immagine di sé vengono inevitabilmente influenzate da come sviluppiamo questa nostra capacità. Come se tutto ciò non bastasse stiamo parlando di parti del nostro corpo e aspetti della nostra mente che non vengono propriamente curate tanto quanto le altre – proviamo ad immaginare il divario scolastico tra educazione fisica ed educazione sessuale. Imparare a conoscere e gestire il piacere è il nostro tiro al canestro ma senza un coaching esplicito sull’argomento.

Di base, l’orgasmo è una contrazione muscolare che si innesca di riflesso per attivazione del Sistema Nervoso Autonomo (SNA) Ortosimpatico e in parte minore del Sistema Nervoso Volontario. Le aree celebrali che possono esercitare un’influenza su questo meccanismo automatico sono quella corticale (sede del pensiero e del ragionamento) e quella limbica (sede delle emozioni). Come se non bastasse, queste due aree non hanno sempre un facile rapporto tra di loro. Quindi la funzione di controllo volontario del piacere è inevitabilmente investita di un ruolo superiore che percorre una direzione opposta a quella, istintiva, per cui il nostro organismo è stato in origine progettato; gli apparati che devono comunicare per gestirla sono complessi, risentono di tutta la nostra esperienza di vita e spesso possono avere visioni differenti delle cose, sulle quali non sempre sono abituati a confrontarsi.

Insomma, non basta lanciare la palla. È necessario imparare a padroneggiare una serie di parametri per acquisire padronanza del proprio corpo e delle proprie emozioni in un gioco complicato in cui il campo è diviso su più livelli. Inoltre, la partita si gioca rigorosamente nel presente ma è costantemente influenzata dal passato e anche da previsioni circa il futuro.

Quindi la natura ci ha dotati della capacità di provare piacere, ma la nostra specie, nel corso della sua evoluzione, ha arricchito questo aspetto attribuendogli un ruolo centrale nelle relazioni interpersonali e in altre dimensioni importanti della nostra esistenza. Saper gestire il piacere quindi è diventato qualcosa di più che arricchire una nostra personale dimensione edonistica; è qualcosa che ci definisce nella percezione di noi stessi e nella relazione con gli altri.

Come ogni esperienza, occorre concedersi della pratica, del tempo, per imparare a riconoscere e distinguere le sensazioni legate al piacere, individuare gli strumenti che abbiamo a disposizione per riuscire a modulare intensità e durata di questa esperienza e contemporaneamente gestire emotivamente tutti gli aspetti relazionali collegati.

Il processo di maturazione della capacità di gestire il piacere è soggetto a molte interferenze, da parte del contesto educativo, sociale e culturale. Il rischio è che l’esperienza del piacere venga condizionata, generando aspettative negative sulle esperienze successive. Insomma riconoscere e imparare a gestire il piacere, avere padronanza delle funzioni mentali che ci permettono di farlo, non è così scontato. I vissuti precedenti, le emozioni provate, ogni componente storica del processo di apprendimento di queste capacità interferiscono costantemente su ogni esperienza successiva. I vissuti emotivi conservano la memoria storica dei tiri sbagliati, ci avvisano dei tiri che per noi sono molto importanti, provano a proteggerci dalla sofferenza di sbagliare e hanno inevitabilmente un potere determinante su ogni operazione di autoregolazione che proveremo a mettere in atto, impadronendosi senza pietà alcuna della nostra capacità di attenzione.

Va inoltre detto che tutti i nostri vissuti interpersonali, anche non direttamente collegati a un’esperienza specificatamente di tipo sessuale, possono contribuire in modo positivo o negativo alla nostra identità sessuale. Tutto questo, in modo diretto o indiretto, fa parte del processo di esplorazione e conoscenza della nostra sessualità, del piacere e della capacità di vivere e appagare le necessità personali.

Proviamo semplicemente ad immaginare ora quanti aspetti della storia di vita possono interferire con tutto questo. Fattori culturali, educativi, religiosi, fisici e temperamentali sono solo alcuni di essi. Pertanto è fondamentale prendere sempre in considerazione la storia personale di un paziente quando in terapia si affronta un problema di tipo sessuale.

La competenza nel gestire il proprio piacere può evolvere se il soggetto è in grado di avere consapevolezza delle proprie sensazioni e impara a regolarle in contesti mutevoli. Mano a mano che le circostanze divengono sempre più familiari e consuete la padronanza potrà divenire una costante. Quando qualcosa non funziona come dovrebbe, può avvenire che il paziente cerchi soluzioni ‘fai da te’, utilizzi un repertorio di nozioni naïve e stratagemmi che spesso finiscono con l’ostacolare anziché facilitare l’espressione della propria sessualità. Allora è necessario mettere in atto un intervento in grado di ripercorrere a ritroso il processo di crescita, cercando di comprendere dove è avvenuto l’intoppo che ha pregiudicato la traiettoria di sviluppo, cosa è stato trascurato o frainteso. E ancora comprendere se ci siano state eventuali esperienze negative che abbiano generato informazioni e conoscenze disfunzionali. Infine considerare i tentativi di soluzioni errate divenute abitudini o peggio ancora credenze errate che di conseguenza possono aver attivato circoli viziosi con la tendenza ad automantenersi.

Per fare questo è opportuno affidarsi a un modello terapeutico che, partendo dal problema presente e attraverso la ricostruzione storica dell’esperienza sessuale e relazionale del soggetto, sia in grado di estrarre informazioni rilevanti dagli episodi critici dove si sono creati gli schemi interpersonali maladattivi che guidano le esperienze nel presente (Dimaggio et al. 2013; 2019). È fondamentale pertanto comprendere i vari aspetti del funzionamento interpersonale di una persona. In primo luogo gli schemi interpersonali, cioè le strutture che forniscono il significato delle esperienze relazionali; poi, le strategie di coping, cioè i modi in cui la persona fronteggia le difficoltà emotive collegate all’espressione della sessualità; infine, il funzionamento metacognitivo, cioè la capacità di comprendere – e riflettere su – gli stati mentali propri e altrui coinvolti nell’interazione sessuale.

Proviamo a spiegarlo con un esempio clinico.

Alessandro è un giovane di 27 anni. Lavora da qualche anno come tecnico specializzato in una ditta dove è riuscito a ottenere riconoscimenti e responsabilità sempre maggiori. Fin da subito, in terapia, appare brillante e spigliato. Consapevole delle sue doti estetiche (è di aspetto sicuramente gradevole) e piuttosto a suo agio con esse, ha una buona capacità relazionale che lo porta ad approcciarsi in modo chiaro e diretto già dai primi scambi. Arriva in terapia preoccupato per degli episodi di disfunzione erettile secondaria.

Alessandro è solito trovare autonomamente delle soluzioni ai propri problemi e lo fa anche con una notevole intelligenza e capacità di problem solving. Tuttavia non riesce a venire a capo di cosa non gli permetta, da un po’ di tempo, di mantenere delle erezioni soddisfacenti nei rapporti sessuali e manifesta un circolo ansioso piuttosto pronunciato riguardo al problema. Il paziente non ha attualmente una partner fissa, anzi pare abbastanza allergico alle relazioni stabili, ma riesce con estrema facilità a trovare partner con cui provare a vivere la propria sessualità. Appare fortemente motivato a mettersi in discussione, e in prima seduta si trova in seria difficoltà di fronte alla più semplice delle domande: ‘cosa ti piace di più della tua vita sessuale?’ Dopo una lunga riflessione, la risposta più descrittiva del suo piacere sarà sintetizzata da ‘lasciare un buon ricordo di me all’altra persona’.

Nella Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) si tenta di individuare tutti gli elementi psicologici presenti in un episodio significativo legato al disagio vissuto; si parte elicitando una narrazione biografica ben situata nel tempo e nello spazio, per giungere all’individuazione dello Schema Interpersonale Maladattivo (SIM). La TMI è un modello psicoterapeutico sviluppatosi per il trattamento dei Disturbi di Personalità e, in genere, dei casi complessi in cui tratti abnormi di personalità coesistono con sintomi e sindromi di vario genere. La TMI pone tra i suoi obiettivi quello di aiutare i pazienti a comprendere il nesso tra la propria sofferenza e alcuni SIM appresi nel corso della vita. Tali schemi restano incarnati nella mente e nel corpo, influenzando in modo determinante la visione di sé stessi e la previsione circa la soddisfazione da parte degli altri di propri desideri. Spesso le persone, sotto l’influenza di un SIM, restano vincolate ad un’immagine negativa di Sé, rischiano di perdere il contatto con ‘la parte sana’ della propria personalità, quella che è in grado di prendersi cura del proprio piacere. Aiutare un individuo ad abitare la sua parte più funzionale gli permette di entrare in contatto con una rappresentazione di sé più positiva, scoprire di avere desideri, maggiori capacità riflessive, fiducia personale e un maggiore capacità di agire in conformità coi propri desideri.

Nel caso di Alessandro è subito evidente una questione: come aiutarlo a vivere la parte sana della propria sessualità, il proprio piacere, se non ne possiede una definizione? Bisogna partire dalle fondamenta, aiutarlo a migliorare il monitoraggio metacognitivo. Il monitoraggio è quella funzione che ci permette di identificare i nostri pensieri e stati emotivi attivi in una data esperienza. Averne consapevolezza ci permette di stabilire delle connessioni tra ciò che accade nella nostra mente e ciò che viene generato come risposta corporea. Quando questa funzione non è ben sviluppata il paziente non riesce ad esprimere con chiarezza e ricchezza di particolari ciò che sta vivendo. Questo è ciò che accade ad Alessandro.

Il terapeuta si fa raccontare in dettaglio un episodio relativo ad un approccio sessuale e vi individua due fasi fondamentali, nettamente distinte. La prima è legata ad un reale vissuto di eccitazione: Alessandro è davvero coinvolto dalla bellezza e seduttività della partner del momento. Prova desiderio ed eccitazione, il sistema motivazionale sessuale è pienamente attivo e le emozioni sono congrue. Ma ad un certo momento avviene qualcosa. C’è uno shift in cui lo stato emotivo cambia. Alessandro inizia a vivere un disagio proprio nella fase iniziale della risposta sessuale (Masters & Johnson, 1964): quella dell’eccitazione. La sensazione di piacere si trasforma in altro, percepisce una sottile esposizione ad un rischio: si affaccia la preoccupazione che non sarà in grado di gestire il proprio piacere e che i tempi di ‘performance’ saranno tanto brevi da non essere sufficienti a lasciare all’altra persona un buon ricordo della sua prestazione sessuale.

È possibile individuare gli elementi tipici di un SIM: l’immagine di Sé inadeguato, la previsione che l’Altra sarà delusa e critica (ad es. andrà a parlare male dell’esperienza sessuale con lui); l’emozione nucleare di vergogna e l’ansia anticipatoria; infine, la risposta di coping: allontanarsi totalmente con il pensiero dall’esperienza vissuta, concentrarsi esclusivamente sulla partner allo scopo di darle il massimo del piacere, dimostrando così il suo valore di amante. In questo modo Alessandro si sposta dal sistema motivazionale congruo – quello sessuale – a quello di rango (essere apprezzato per le proprie performances sessuali). E l’attivazione ipertrofica di tale sistema gli impedisce di sintonizzarsi sul proprio piacere e sugli stati del corpo.

La conseguenza è che Alessandro perde totalmente contatto con ogni aspetto legato all’eccitazione, mentre lo stato di ansia resta attivo nutrendosi di ogni segnale contrario: una smorfia, uno sguardo altrove, l’assenza di un gemito, qualunque cosa alimenta il pensiero ‘ecco sto sbagliando qualcosa’. A livello fisiologico, la conseguenza più ovvia è che lo stato di eccitazione fisiologico di Alessandro subisce un calo drastico e rapido e che tale reazione va ad alimentare lo stato ansioso già attivo.

Ricapitolando, Alessandro non ha mai sviluppato una consapevolezza piena del proprio piacere e quindi di come gestirlo per prolungarlo. Ma ancor più il paziente non è consapevole di come il suo stato mentale, in quei momenti, tenda a mutare. Le risposte di coping disfunzionali hanno percorso principalmente due vie. La prima è stata quella di sviluppare abilità per offrire piacere alla partner con lo scopo di offrire un’immagine positiva e apprezzabile di Sé. La seconda è stata quella di utilizzare espedienti esterni per raggiungere l’obiettivo: preservativi con anestetico, uso di alcol, cannabinoidi, viagra, distrazione del pensiero. Tutti questi tentativi non hanno fatto altro che aumentare l’incompetenza sulle proprie sensazioni fisiche e sugli stati mentali collegati al piacere naturale, contribuendo ad alimentare sempre più un’immagine negativa di Sé.

Come spesso avviene in simili situazioni, il modo di vivere la sessualità diventa un copione strutturato attorno a delle credenze disfunzionali rigide e difficili da mettere in discussione, che non lasciano spazio alla sperimentazione e alla curiosità, invece fondamentali.

L’approccio terapeutico mira a permettere al paziente di sviluppare un percorso di conoscenza di Sé in rapporto al proprio piacere e degli stati mentali legati alla sessualità. Il fine è favorire a) una migliore padronanza degli stati corporei legati al piacere, b) la permanenza nello stato edonico legato al sistema motivazionale sessuale senza farsi coinvolgere dalle potenti e intrusive dinamiche di rango, c) l’accesso alle parti sane e ad una self-image più benevola e capace.

Il repertorio di esercizi mansionali (Masters & Johnson 1966; Kaplan, 1976; Dèttore, 2004; Fenelli & Lorenzini, 2012) si presta benissimo all’avvio di questo percorso e può essere messo in campo fin dalla prima seduta. Lo scopo della loro assegnazione nelle primissime fasi della terapia, in un’ottica TMI, non è quello di produrre un risultato o un cambiamento immediato, anche se talvolta questo può verificarsi. La loro utilità consiste piuttosto nel poter raccogliere informazioni precise e definite per una formulazione del caso condivisa con il paziente. Infatti, l’homework svolto a casa viene indagato nello stesso modo in cui nella Terapia Metacognitiva Interpersonale si esplora l’episodio narrativo autobiografico (Dimaggio et al., 2019): si cercano i contenuti psicologici (‘cosa pensava durante…?’, ‘quale desiderio era attivo mentre…?’), si mettono in relazione desideri, immagini di sé e dell’altro, emozioni e comportamenti, fino a ipotizzare la struttura dello Schema Interpersonale Maladattivo e a condividerla. Se la condivisione è piena, si passa alla fase di ‘promozione del cambiamento’ (Dimaggio et al., 2013).

Nel caso di Alessandro c’è una sovrapposizione di problemi, ma è possibile inquadrare l’eiaculazione precoce come il disturbo primario e la disfunzione erettile come secondario. Nella terapia, è stato importante guidarlo a distinguere le due cose e a focalizzarsi sul problema principale, da inserire nel contratto terapeutico.

Nelle prime fasi di una terapia per un disturbo sessuale, è utile prescrivere un esercizio libero da qualsiasi impegno relazionale, per a) valutare e al tempo stesso allenare la capacità del paziente di individuare gli elementi nucleari fisici e psicologici della sessualità (variazioni edoniche nel corpo, emozioni, pensieri, giudizi, ecc.), e b) aiutarlo a comprendere la relazione interna tra questi elementi.

In quest’ottica, ad Alessandro è stato prescritto un esercizio mansionale: masturbarsi fino a procurarsi un’erezione e poi, una volta giunto ad un punto in cui questa sia valutata come più che sufficiente per effettuare una penetrazione, cercare di arrestarsi e farla scomparire in modo attivo. Viene chiesto di ripetere questa operazione per tre/quattro volte. Lo scopo è quello di favorire una consapevolezza corporea durante il processo di eccitazione e perdita di erezione. In aggiunta viene richiesto al paziente di monitorare tutti gli stati mentali attivi in tutte le fasi dell’esercizio, in quanto saranno poi argomento di discussione nella seduta successiva.

L’esercizio ha prodotto un incremento notevole nella consapevolezza degli stati psico-corporei legati all’attivazione sessuale fornendo inoltre importanti spunti per definire in modo dettagliato il lavoro terapeutico. Alessandro ha realizzato di non avere alcun problema a mantenere l’eccitazione, anzi addirittura fatica a far scomparire attivamente l’erezione. Inoltre, esplorando le strategie mentali utilizzate per produrre lo stato di eccitazione, Alessandro è giunto ad una consapevolezza diretta ed esplicita di cosa sia per lui piacevole ed eccitante, cosa renda interessante e piacevole la sua attività sessuale.

Oltre alla specificità della mansione prescritta, ha giocato un’importanza fondamentale la relazione terapeutica. Impostata su collaborazione, esplorazione e sicurezza interpersonale, ha aiutato Alessandro a focalizzarsi e a riflettere su aspetti della sessualità che, in altre condizioni relazionali, non sarebbe stato in grado neppure di cogliere, in quanto attivato da specifici SIM. Ad esempio quando il terapeuta ha ascoltato il racconto del compito svolto da Alessandro, egli ha riferito di aver utilizzato materiale pornografico reperito on line. La premessa è che non era stata specificata alcuna modalità con cui il paziente avrebbe potuto aiutarsi, lasciando che questa scelta potesse emergere da aspetti personali e del tutto spontanei.

Nella seduta il terapeuta ha colto, attraverso il non verbale, una difficoltà del paziente a soffermarsi su alcuni dettagli (chiedo sempre di essere il più specifico possibile al paziente). Dopo avergli domandato se parlare di certi particolari gli potesse creare qualche disagio, Alessandro ha ammesso di provare vergogna nel manifestare la propria attrazione verso un certo tipo di pornografia. Questo ha aperto la possibilità di indagare un SIM attivo nel qui e ora in seduta: era entrata in scena una rappresentazione di Sé come indegno e disgustoso, in relazione al quale si aspettava una risposta dell’altro critica e svalutante. Da qui scaturiva il sentimento schema-correlato di vergogna. Il coping che metteva in atto era una modalità di mascheramento e negazione dei propri desideri, ritenuti sconvenienti e inaccettabili, nella speranza di sentirsi accettato dall’altro. Le memorie episodiche collegate a questo schema hanno permesso di risalire a uno stile genitoriale molto critico e svalutante. In particolare Alessandro rievoca un episodio in cui viene sorpreso dalla madre a masturbarsi; il genitore, fissandolo con un’espressione di assoluto disgusto sul volto, lo aveva aspramente criticato e messo in punizione.

Il paziente ha potuto comprendere facilmente quanto questo schema di vergogna si attivasse in relazione alla sua eccitazione, tanto da impedirgli di esplorare e familiarizzare con tutte le sensazioni fisiche ad essa connesse. Avere consapevolezza che il SIM innescatosi in seduta era il medesimo che si manifesta durante i rapporti sessuali con le partner, è stato fondamentale per il lavoro terapeutico.

Un atteggiamento validante e curioso del terapeuta ha permesso al paziente di valutare modalità differenti con cui potersi rapportare a simili situazioni (Bader, 2018). Il modo di affrontare l’argomento in modo diretto e normalizzante offriva un aspetto relazionale del tutto diverso all’immagine dell’altro incorporata nel suo SIM, più favorevole a un aspetto esplorativo.

Si tratta di ciò che nella Control Mastery Theory (CMT; Weiss, 1993; Gazzillo, 2016) viene definita esperienza emotiva correttiva, in cui il terapeuta con il suo atteggiamento, riesce a far vivere al paziente un’esperienza diversa da quella traumatica vissuta con le figure genitoriali, superando al contempo il test relazionale a cui il paziente, inconsapevolmente, lo stava sottoponendo. Si prenda questo esempio.

Alessandro: ‘Sa dottore, ultimamente devo essere peggiorato, mi sono accorto che mi piace e trovo eccitante pensare a delle situazioni forse troppo estreme, forse anche disgustose, faccio fatica a raccontarle e credo che ci sia qualcosa in me che non va…

Terapeuta: ‘Guardi trovo molto interessante il fatto che la sua curiosità ed attenzione si stiano spingendo in direzioni che prima non c’erano. Sono piacevolmente incuriosito da questo. Le va di parlarmene meglio?‘.

Seguendo la CMT possiamo leggere questa interazione alla luce del concetto di test relazionale: il paziente portava in seduta un test di transfert per compiacenza (Gazzillo, 2018). La credenza patogena che il paziente spera di disconfermare è quella che l’altro possa essere infastidito o critico nei confronti delle sue fantasie sessuali. La risposta del terapeuta è stata quella di non comunicare alcun segno di fastidio o turbamento, ma bensì di curiosità leggera e scevra da pregiudizi. Questo ha permesso di disconfermare la credenza patogena che impediva al paziente di pensare alla propria fantasia ed eccitazione senza immaginare che l’altro ne sarebbe stato infastidito e l’avrebbe criticato. In termini TMI, il superamento del test ha contribuito ad allentare la rappresentazione rigida dell’altro come critico sul piano morale e ha posto le basi per la differenziazione. Superare i test relazionali è stato determinate per lavorare in modo più produttivo sull’assegnazione degli homework, i quali venivano svolti in modo sempre più puntuale e con un accesso sempre più chiaro ai contenuti emotivi.

In un’altra seduta successiva, è stato concordato un homework noto con il nome di ‘stop/start’ (Semans, 1956). L’esercizio consiste nel chiedere al paziente di masturbarsi fino al raggiungimento della soglia della ‘inevitabilità orgasmica’. Lo scopo è sia quello di rendere il paziente consapevole del proprio punto di inevitabilità orgasmica, sia di permettergli di individuare sensazioni e stati mentali di attivazione emotiva che provengono dalla storia di vita del paziente e che possono aver interferito con una sana esplorazione.

Nel caso di Alessandro, durante l’esecuzione dello stop/start, mentre si concentrava sull’ascolto del proprio corpo e delle sensazioni, si è verificata un’interferenza: una sensazione di forte ansia, tale da cooptare tutta l’attenzione. In seduta ci si focalizza su questa sensazione facendo ricorso all’esplorazione degli episodi narrativi (Dimaggio et al., 2013, 2019). Emergono ricordi collegati ai primi vissuti di masturbazione in pubertà: la madre di Alessandro, ferrea cattolica, con pensieri molto rigidi e controllanti, dal fare austero e facile alla punizione corporale, aveva un atteggiamento di sorveglianza sui possibili momenti di masturbazione del figlio, il quale pur non rinunciando a tale pratica, si trovava a viverla in fugaci episodi consumati nell’ansia e nella fretta. Il risultato è che Alessandro ha sviluppato una conoscenza incompleta del proprio piacere e dell’orgasmo, associando ad esso uno stato di allarme, e non è mai giunto a normalizzare la pratica masturbatoria, l’orgasmo e il piacere sessuale. Una nota interessante è che il paziente, una volta realizzato tutto questo, è riuscito a cogliere il collegamento che univa le difficoltà sessuali a comportamenti problematici che sperimentava in contesti differenti da quello sessuale: ‘mi sono accorto che faccio la stessa cosa quando ho occasione di mangiare qualcosa di particolarmente goloso!’.

Il lavoro terapeutico a quel punto è delineato. Nella formulazione del caso viene inserito tra gli obiettivi terapeutici il riuscire a entrare in contatto con il proprio piacere regolando l’attivazione di quell’allarme relazionale di fondo. Allarme che Alessandro attribuiva impropriamente alle aspettative implicite dei vari partner e che gestiva cercando di compiacere e appagare l’altra persona. Questo stato di ansia di fondo è stato affrontato in terapia con un ampio ventaglio di tecniche: immaginazione guidata con rescripting, grounding, mindfulness, esercizi di esposizione guidata ecc. Alessandro ha potuto sperimentare un decremento delle emozioni negative. Inoltre, ha potuto attribuire correttamente l’ansia che sperimentava nelle situazioni sessuali a rappresentazioni schema-correlate piuttosto che a dati di realtà (le eccessive aspettative della partner). La possibilità di rompere tali schemi apre al paziente la possibilità di vivere la sessualità come una dimensione dell’esperienza dove è possibile approcciarsi con curiosità, compiere errori e accumulare esperienze.

Il protocollo della Terapia Mansionale, validato da diversi studi come intervento efficace (Masters & Johnson 1966; Kaplan, 1976; Dèttore, 2004; Fenelli & Lorenzini, 2012), può incontrare a volte degli aspetti relazionali che vengono letti come resistenze al trattamento. Come è possibile osservare in questo caso, se il lavoro in terapia fosse stato incentrato esclusivamente sul trattamento del sintomo specifico, senza tener conto delle dinamiche evolutive della vita del paziente, dove si sono creati e sviluppati gli schemi interpersonali maladattivi, e soprattutto cosa li ha mantenuti e alimentati nel tempo, con molta probabilità il trattamento avrebbe subito degli intoppi: il paziente non avrebbe esplorato in maniera completa e risolutiva il mondo di rappresentazioni ed emozioni che gravita intorno alla sessualità. Allo stesso modo, trascurare i processi relazionali probabilmente non avrebbe reso l’intervento terapeutico altrettanto efficace e avrebbe messo a serio rischio il buon esito della terapia.

Conoscere i contenuti (schemi interpersonali maladattivi) e i processi psicologici (attenzione focalizzata, strategie disfunzionali di coping) sottostanti alle difficoltà sessuali, comprendere quanto queste siano radicate negli aspetti profondi della persona e avere dei modelli terapeutici di riferimento per lavorare su di essi, è quanto mai necessario per garantire un vero ed efficace trattamento integrato ai pazienti con disturbi del comportamento sessuale.

 

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Omar Bellanova
Omar Bellanova

Psicologo Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bader, M. (2018) Eccitazione. La logica segreta delle fantasie sessuali. Milano: Raffaello Cortina Editore
  • Dèttore, D. (2001). Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale. Milano: McGraw-Hill.
  • Dimaggio, G., & Lysaker, P. H. (2010). Metacognizione e psicopatologia. Valutazione e trattamento. Milano: Raffaello Cortina.
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., & Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Milano: Raffaello Cortina.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Raffaello Cortina Editore.
  • Fenelli A. e Lorenzini R. (2012). Clinica delle disfunzioni sessuali. Carocci Editore.
  • Gazzillo, F. (2016). Fidarsi dei pazienti. Introduzione alla Control Mastery Theory. Raffaello Cortina Editore.
  • Kaplan,  H.S.  (1974). The New Sex Therapy. Brunner/Mazel, New York.
  • Masters, W.H. & Johnson, V.E. (1970). Human Sexual Inadequacy. Toronto; New York: Bantam Books.
  • Ryle G. (1949). The Concept of Mind. Trad. it. Il concetto di mente, Editori Laterza, Bari, 2007,
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