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Il Covid-19 e il suo lutto

Come è avvenuta la morte, i rituali e le modalità della separazione sono fattori rilevanti per l'elaborazione del lutto, spesso assenti nei casi di Covid

Di Primo Gelati

Pubblicato il 22 Dic. 2020

Quello per le morti da Covid è un lutto un po’ diverso dagli altri lutti: è particolare, più complesso e intricato, più facilmente esposto a patologie.

 

Per capire meglio, vi racconto la storia di Micaela.

Micaela ha quasi 17 anni e ha finito la terza liceo, scientifico. Vuole fare l’astronoma: fin da piccola le piace osservare le stelle, una passione che non si è mai attenuata. Durante il primo lockdown ha fatto didattica a distanza, ne ha sofferto molto ma ce l’ha messa tutta, e alla fine dell’anno scolastico è piuttosto soddisfatta di se stessa. Visti gli ottimi risultati i suoi genitori hanno acconsentito a mandarla qualche giorno in vacanza con due amiche, Chiara e Francesca: è la prima volta che va senza i genitori. Naturalmente le fanno mille raccomandazioni: mascherina, igiene, etc., ma sono raccomandazioni quasi superflue, visto che Micaela è una ragazza giudiziosa e non ha mai fatto sciocchezze. Del resto la breve vacanza non è certo sulla riviera romagnola: è in un paesino di montagna, dove Chiara ha una casa.

Le tre amiche arrivano nel piccolo paese, accompagnate dal padre di Chiara, che apre loro la casa, si assicura che tutto sia a posto e se ne va. Micaela si è portata anche il telescopio che i nonni le hanno regalato a Natale: è sicura che senza l’inquinamento luminoso della pianura le stelle saranno spettacolari.

Il paese è davvero piccolo ma bellissimo, l’ultimo della valle. Intorno solo boschi, montagne e torrenti. Qualche decina di vecchi abitanti, tetti di ardesia, molte seconde case, un negozio di alimentari e un bar piuttosto grande, ritrovo dei locali e di quelli delle seconde case. Micaela nota subito che nessuno porta la mascherina: pensa che evidentemente lì il virus non è arrivato. Lei però la tiene e la toglie solo quando è in casa con le amiche, che conosce dalle scuole elementari. Chiara e Francesca vanno al bar per un paio d’ore tutte le sere, dopo aver cenato con quello che hanno preparato ridendo. Al bar hanno conosciuto due ragazzi simpatici, che sono appena tornati dalla Spagna. Micaela ci va un paio di volte, ma per lo più preferisce stare a casa, con il suo telescopio e tutte le luci spente. Lei e le stelle. È felice. Le loro giornate sono piene di lunghe passeggiate nei boschi. Qualche incontro fortuito sui sentieri rompe la fatica e offre la scusa per fermarsi a parlare.

È lunedì, e le brevi vacanze di Micaela e le sue amiche sono finite. A prenderle viene proprio il padre di Micaela, e in tre ore sono a casa. Micaela passa quasi tutti i pomeriggi a sistemare le osservazioni astronomiche che ha fatto in montagna. A mezzogiorno pranza sempre dai nonni, che abitano lì vicino e ai quali lei è molto affezionata. La sera a cena ascolta con i genitori le avventure di Alessandro, il fratello più grande, che per le vacanze è andato in barca a vela nel Mediterraneo.

E’ giovedì quando Micaela comincia ad avvertire qualche malessere: poco più di un prurito in gola, occhi arrossati e l’inizio di un raffreddore. Niente di preoccupante. Ma alla sera di giovedì viene la febbre al nonno e anche al papà. C’è anche la tosse. Si sente il medico di famiglia, il quale dice che non c’è tempo da perdere e bisogna fare il tampone. A tutta la famiglia. Dopo un giorno il responso: Micaela è positiva, così come i suoi genitori e il nonno, il quale dopo solo un giorno si aggrava e viene ricoverato d’urgenza. Già sofferente di cuore, morirà quattro giorni dopo. Micaela non lo ha più rivisto dal pranzo di giovedì; non lo ha salutato e non potrà partecipare al funerale, al quale peraltro non potrà andare nessuno dei familiari, tutti in quarantena. Anche il papà di Micaela viene ricoverato. Per fortuna dopo qualche settimana guarisce. Micaela sta fisicamente bene ma è psicologicamente distrutta ed è convinta di essere lei la causa di tutto: delle sue amiche anche Chiara è risultata positiva al virus, così come positivi sono risultati i due ragazzi conosciuti in montagna. A gettare ulteriore incertezza sulla catena del contagio, si è rivelato positivo anche un amico di suo padre, con il quale lui era uscito qualche sera prima per una partita a biliardo.

Mi sono un po’ dilungato nel racconto della storia di Micaela perché è una storia tutt’altro che rara ed è  paradigmatica di molte situazioni nelle quali si genera un lutto con una serie di caratteristiche che favoriranno la sua patologia.

Con la riapertura delle scuole, a settembre, queste situazioni si sono poi moltiplicate a dismisura: è vero che dentro le strutture scolastiche gli studenti sono stati efficacemente protetti dalla possibilità di contagiarsi, ma molto poco, o nulla, è stato fatto per approntare altrettanto efficaci garanzie fuori dalla scuola, a cominciare dai trasporti su mezzi sovraffollati, per finire agli assembramenti di adolescenti senza mascherine in attesa dell’inizio delle lezioni, per i quali nessuna efficace opera di sensibilizzazione è stata fatta.

Gli ingredienti che complicheranno il lutto di Micaela sono ora facili da individuare:

  • Il senso di colpa: anche se è sempre stata attenta, e indipendentemente da come siano andate veramente le cose, Micaela è convinta di essere colpevole e di aver portato il virus dentro la cerchia dei suoi cari, di aver quindi causato la morte del nonno e la malattia del padre. Il senso di colpa, che è una costante in qualsiasi lutto, in quello da Covid affonda i suoi dolorosi artigli nei dati di realtà: moltissimi contagi avvengono in famiglia, causati da uno dei membri che è portatore asintomatico e inconsapevole. Questa non-consapevolezza lo proteggerà però assai poco dalla convinzione di essere colpevole e sarà spesso necessario un lungo e doloroso lavoro terapeutico per riportare su un piano di realtà quello che è accaduto. Accanto al senso di colpa di chi ha veicolato il contagio, spesso vi è il rancore nei suoi confronti da parte degli altri familiari, rancore espresso più o meno duramente: ‘Ma dove sei andato…Cosa hai fatto…Sei stato disattento…Non hai messo la mascherina…E’ colpa tua… Etc.’, oppure inespresso ma comunque attivo dentro il tessuto relazionale. Questa variante del senso di colpa ed il più o meno muto rimprovero, sono due elementi caratteristici di questo lutto che non sono stati ancora adeguatamente esplorati.
  • Non vi è stata alcuna possibilità di salutare il nonno e nemmeno di abbracciarlo o fargli una carezza. Le fantasie di Micaela sulla solitudine del nonno e sulle modalità della sua morte sono strazianti. E così quelle di tutta la sua famiglia. Nessuno di loro ha potuto partecipare al funerale. Per loro nessun rito di commiato è stato possibile; le consuete ritualità connesse alla morte sono state completamente cancellate ed al loro posto sono rimaste solo incertezza e solitudine. Il campo sociale che usualmente si prende carico in modo simbolico del dolore individuale per stemperarlo in quello collettivo, non è più una realtà su cui contare: la collettività tende piuttosto a spingere il dolente ai margini della relazione, perché ne ha fisicamente paura.

Tre fattori sono particolarmente rilevanti per la successiva elaborazione del lutto:

  • La qualità del morire (cioè come è avvenuta la morte);
  • La qualità della presa in carico da parte del campo sociale e della collettività del dolore e della solitudine dei superstiti (i rituali);
  • La modalità della separazione finale da chi sta morendo.

Nei decessi da Covid 19 questi tre elementi hanno un indice drammaticamente negativo.

Chi muore si porta via una parte essenziale di noi: l’immagine, la rappresentazione, la narrazione che si è fatto di noi, e nella quale noi ci rispecchiamo e ci riconosciamo. E’ una narrazione unica, esclusiva e insostituibile, che è il risultato costruito in anni di relazione dialettica, di affetto, di amore (pur con le inevitabili ambivalenze). Quando muore uno dei partner, quella conversazione unica ed esclusiva si interrompe e non possiamo più rispecchiarci in essa: da qui la angosciante sensazione di perdita di significato che sperimentano quasi tutte le persone in lutto. La cosiddetta elaborazione del lutto consiste proprio nella necessità di completare quella narrazione dentro di sé, di modo che si possa chiudere un capitolo della storia, della vita. Chiudere non significa archiviare: per una buona elaborazione deve esserci la consapevolezza che quel capitolo, lungi dall’essere archiviato, è e resta indispensabile per il futuro svolgimento della narrazione.

Se la separazione è stata però repentina e traumatica, come quasi sempre nelle morti per Covid 19, se non è possibile nemmeno iniziare davvero il processo di elaborazione perché sono stati stravolti i rituali funebri (è infatti il rito che sancisce che il trapasso è avvenuto, è il rito che imprime la scansione temporale del lutto e ne ordina le fasi), allora il percorso di elaborazione risulta molto complicato. Sarà molto spesso necessario l’intervento del terapeuta, che dovrà quasi sempre coinvolgere il nucleo familiare.

In questo periodo emergenziale che è ormai diventato la nuova normalità, ci sorprendiamo spesso a scrutare con angoscia il nostro panorama affettivo e relazionale, come se stessimo guardando un campo di battaglia sul quale infuria ancora e ancora, più o meno virulento, il conflitto. Sì, facciamo ogni giorno la conta dei caduti, riconoscendo con orrore che la guerra, i cui rumori ci giungevano un tempo lontani, attutiti e quasi estranei, ora infuria tutta intorno a noi, e quelli che si ammalano, quelli che muoiono sono nostri familiari, amici, conoscenti, portati via in un baleno senza nemmeno il tempo di salutarli come si conviene. Stiamo chiusi in casa, solo rare e veloci uscite per l’indispensabile, combattuti tra il desiderio di telefonare agli amici e ai parenti e la paura di ricevere telefonate che ci annuncino la scomparsa di qualcuno. Ci domandiamo quale sia dentro di noi l’emozione dominante tra dolore, paura, senso di impotenza, rabbia.

Guardiamo che i nostri figli e i nostri nipoti, di solito esuberanti e pieni di iniziative, mentre rischiano di regredire in uno stato apatico, dominati dal senso di impotenza.

Ma la speranza prepotentemente richiede spazio, ed è assolutamente necessario concederglielo. Questa concessione non può essere passiva, dovrà essere invece attiva e promotrice di resilienza.

Ho scritto queste righe a metà novembre, nel pieno della cosiddetta seconda ondata. Sono certo che quando verranno pubblicate la situazione sarà in netto miglioramento, tanto da consentirci di guardare al futuro con realistico ottimismo.

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