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Le galline di Aniello, ovvero le debolezze della memoria

Riusciremo presto a muoverci nei nostri ambienti con ridotto timore. Ma in quanto tempo dimenticheremo tutto tramite un meccanismo di rimozione collettiva?

Di Fiore Bello

Pubblicato il 09 Dic. 2020

E’ probabile che, come le galline di mio padre, riusciremo presto a muoverci nei nostri ambienti con un ridotto timore e con maggiore desiderio esplorativo. Ma quanto tempo ci metteremo a dimenticare tutto? In quanto tempo metteremo in atto un meccanismo di rimozione collettiva?

 

Questo articolo è stato scritto alla fine del lockdown dovuto al Covid-19 e pubblicato nel libro Bello F., Caroppo E. (a cura di), Ci salveremo insieme. Alpes, Roma 2020.

Dinanzi a te c’era un baratro. Così largo, così fondo, così vuoto che il solo percepirlo ti dava la nausea, la voglia di vomitare. E questo baratro era lo spazio, lo spazio aperto. […] Chiudesti gli occhi per non accecare, allungasti le braccia per non cadere. E subito il pensiero della tua cella ti afferrò insieme a una nostalgia irresistibile, un desiderio irrefrenabile di tornarci, rifugiarti nel suo buio, nel suo ventre angusto e sicuro. La mia cella, ridatemi la mia cella. […] Però a poco a poco, mentre la nausea cresceva, e l’incertezza, e la paura, mentre tutto si allargava e ruotava e si rovesciava per farti ripetere la-mia-cella-ridatemi-la-mia-cella, ritrovasti te stesso.
(Oriana Fallaci – Un Uomo).

Esattamente dopo 69 interminabili giorni di confinamento (lockdown) siamo stati autorizzati a muoverci senza autocertificazione nelle nostre città e nel territorio della regione di appartenenza. Domenica 17 maggio mi sono recato a Piazza Navona dove immaginavo di trovare una moltitudine di romani, ma non è stato così: il sole riscaldava pochi passanti e ciclisti e il clima non mi è sembrato affatto di gioia. Mentre vagliavo l’impressione che quasi tutti fossimo un po’ dimessi, rallentati e guardinghi, nella mia mente è riaffiorato un lontanissimo ricordo familiare. Anni fa, mio padre acquistò ad un prezzo simbolico venti galline da un’azienda che le allevava per la produzione delle uova a uso commerciale e le vendeva quando non erano più produttive. Mio padre era contento, nonostante l’aspetto delle galline non fosse molto incoraggiante: spennate, ferite sulla pelle, con la cresta piccola, rosa e floscia e oltretutto silenziose. Le portò a casa dove le attendeva un ricovero al riparo dalle intemperie, mangiatoie stracolme di granturco, abbeveratoi e un ampio spazio aperto dove razzolare. Le galline rimasero raggruppate, silenti, senza muoversi e senza alimentarsi e quando uno di noi si avvicinava, non emettevano alcun suono, si accovacciavano restando a lungo immobili. Feci notare tutto ciò a mio padre, affermando che forse non aveva fatto un buon affare. Lui mi rispose in modo serafico: ‘lasciale stare, hanno paura della libertà, forse una o due moriranno, ma il resto si abituerà e in pochi giorni le vedrai rinascere’. Aveva ragione lui. Dopo una decina di giorni le galline sembravano rinate e razzolavano curiose e felici nel nostro giardino!

Il timore di uscire di casa che molti di noi stanno sperimentando in questi giorni, caratterizzato da ansia, paura di allontanarsi e di riprendere i ritmi quotidiani dopo un lungo isolamento, è stato denominato ‘sindrome della capanna’ e potrebbe interessare un elevato numero di persone per le quali la casa è diventata un vero e proprio rifugio sicuro e protettivo, mentre l’esterno viene vissuto come minaccioso. D’altro canto pero, ‘Gli esseri umani sono animali sociali, non sono fatti per stare soli e l’isolamento solitario, percepito come una punizione, può avere ripercussioni dannose che vanno dal panico alla paranoia‘ (Loganathan et al., 2020).

E’ probabile che, come le galline di mio padre, riusciremo presto a muoverci nei nostri ambienti con un ridotto timore e con maggiore desiderio esplorativo, ma il punto che vorrei approfondire in questo articolo non è questo. Mi chiedo, invece, quanto tempo ci metteremo a dimenticare tutto, in quanto tempo metteremo in atto un meccanismo di rimozione collettiva, così come accadde con un’altra tremenda epidemia più di un secolo fa: l’influenza spagnola che, nel giro di pochi mesi e, a ridosso della fine della prima guerra mondiale, mieté milioni di vittime in ogni parte del mondo. In realtà, nonostante sentiamo continuamente dire, da Foscolo in poi, che è importante rispettare il culto della memoria, esiste una quantità infinita di eventi, storie e catastrofi rimosse e cancellate nella storia dell’umanità.

La memoria è la modalità che ci permette di conservare la conoscenza all’interno del nostro cervello. L’apprendimento è invece ciò che ci permette di accrescere conoscenza. Per questo siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo. Siamo ciò che ricordiamo, ma anche ciò che non sappiamo di ricordare. Dentro l’uomo ci sono molte cose che l’uomo non riesce a vedere. (Kandel, 2016).

Da un punto di vista prettamente neurofisiologico, sappiamo che la memoria viene codificata nel nostro cervello dal sistema limbico, alcune circonvoluzioni cerebrali della parte mediale di entrambi i lobi temporali. Tutte le componenti del sistema limbico regolano i comportamenti relativi ai bisogni primari per la sopravvivenza dell’individuo e della specie: il mangiare, il bere, il procurarsi cibo e le relazioni sessuali, nonché le interpretazioni dei segnali provenienti dagli altri e dall’ambiente. Ad una specifica struttura, l’ippocampo, è conferito un compito duplice: ‘⦋…⦌ trasformare la memoria a breve termine in memoria permanente e tenere le fila dei nostri ricordi‘. ⦋…⦌ Per conservare i ricordi nella mente in maniera efficace sembra necessario modellarli e rimodellarli in continuazione, a intervalli regolari, anche perché di ricordi se ne accumulano sempre di nuovi e occorre spostare i vecchi per lasciare il posto ai nuovi, cercando di non perderne tanti e di mantenere i più significativi’ (Maira, pp. 150-153). Edelman (1991), biologo statunitense e premio Nobel per la medicina nel 1972, ha dimostrato con le sue ricerche che la memoria non è un magazzino, non funziona come un archivio dal quale vengono ripescati all’occorrenza i ricordi codificati, bensì si configura come un processo dinamico in cui il ricordo viene ogni volta ricostruito in maniera attiva diventando quello che lui chiama il ‘presente ricordato’. Quindi, la memoria è labile e l’essere umano ‘dimentica’ alcuni eventi personali e collettivi affinché sia possibile un adattamento veloce all’ambiente, senza dover attendere il processo evoluzionistico (Dunbar et al., 2012). Quando però il cervello invecchia, si ammala o viene interessato da una lesione, le funzioni della memoria subiscono un’alterazione che comporta anche una ristrutturazione della coscienza. Sacks (1999) racconta in modo magistrale che cosa può succedere in tali condizioni. Scatcher (2001) individua sette debolezze ‘funzionali’ o ‘peccati’ della memoria:

  • Labilità (svanisce con il tempo);
  • Distrazione (dimenticarsi di fare qualcosa; l’attenzione sfugge);
  • Blocco temporaneo (dell’accesso al ricordo);
  • Errata attribuzione (false memorie);
  • Suggestionabilità;
  • Distorsione (per false credenze);
  • Persistenza (di memorie non volute);

Le memorie, nel cervello, vengono immagazzinate attraverso un complesso sistema di modificazione dell’attività e della morfologia delle sinapsi neuronali. A livello neurofisiologico, si opera una distinzione tra un processo di memorizzazione o di consolidamento e una successiva fase di riconsolidamento: entrambi questi processi insistono sugli stessi circuiti neuronali. Nella fase del consolidamento, le sinapsi devono modificarsi per immagazzinare nuovi ricordi, che, in quella di riconsolidamento (Nader & Hardt, 2009), si rendono nuovamente modificabili allo scopo di mantenere vivo il ricordo, risultando, quindi, anche più esposte a variazioni del ricordo stesso. Purtroppo, questa è anche la fase in cui la memoria è più vulnerabile: mentre viene ‘ricordato il ricordo’, eventi interni ed esterni all’individuo possono modificarlo dando vita al fenomeno del falso ricordo che ‘[…] è un’esperienza mentale erroneamente considerata come una rappresentazione veritiera di un evento appartenente al proprio passato personale.’ […] I falsi ricordi scaturiscono dagli stessi processi dei ricordi veri’ (Johnson, 2001, pag. 5254). In altre parole, i falsi ricordi sono eventi ricordati diversamente da come si sono verificati o, addirittura, si può trattare di esperienze che non si sono mai verificate; risultano essere assolutamente convincenti e indistinguibili rispetto ai ricordi reali.

Il fenomeno dei falsi ricordi è molto comune e ci sono alcuni fattori che possono aumentarne la frequenza, come, ad esempio, il forte interesse verso un particolare argomento (O’Connell & Greene, 2016). Alcune esperienze traumatiche, inoltre, sono, almeno in parte, sottoposte a un processo di rielaborazione spontanea da parte della persona, attraverso l’uso dell’immaginazione e del raffronto con le risorse mnemoniche della persona stessa. E’ noto che le emozioni giochino un ruolo fondamentale nei processi della memoria, soprattutto quelle negative prodotte da un certo evento. Interessanti sono le ipotesi proposte da Porter (2007), il quale sostiene che le emozioni negative facilitino la memoria in generale, ma, allo stesso tempo, la rendano più fragile e soggetta a distorsioni. Le informazioni negative saranno quindi ben ricordate, ma facilmente influenzabili. Ciò è probabilmente dovuto al ruolo che gli eventi emotivi hanno dal punto di vista evoluzionistico: ricordare un evento negativo o ‘pericoloso’ è più funzionale alla sopravvivenza rispetto al ricordare un evento emotivamente neutro. La prospettiva evoluzionistica spiega anche il motivo della maggior suscettibilità dei falsi ricordi: proprio per il loro carattere adattivo, infatti, gli eventi a valenza emotiva negativa vengono integrati maggiormente con una maggior quantità di informazioni provenienti da varie fonti (ritenute affidabili), al fine di prevenire ulteriori pericoli.

Questo in estrema sintesi è il funzionamento della memoria individuale, ma che cos’è e come funziona la memoria collettiva? Tale concetto è stato introdotto nelle scienze sociali da Maurice Halbwachs (2001). L’autore fa riferimento a una costruzione dei ricordi di tipo collettivo e sovraindividuale, attraverso la quale la rappresentazione del passato viene condivisa dai membri di un gruppo e trasmessa alle generazioni successive. Secondo Halbwachs, il passato non si conserva, ma si ricostruisce, per cui la memoria collettiva sarebbe essenzialmente una ricostruzione (parziale e selettiva) in funzione del presente e avrebbe il compito, insieme alle storie che la compongono, di dare continuità all’identità del gruppo sociale e ai valori e credenze che fondano una comunità. Il pensiero di Halbwachs può essere sintetizzato in tre punti generali: ‘[…] 1) la memoria individuale è sempre anche memoria collettiva […]; 2) la memoria (individuale e collettiva) rappresenta la continuità del passato nel presente solo a condizione di sottoporre le immagini del passato ad un’opera costante di selezione, sintesi e ricostruzione che muove dagli interessi del presente; 3) la memoria è un fattore dell’identità – tanto a livello individuale che collettivo – ma ne è anche l’espressione: l’identità presente, in altre parole, si esprime in determinate interpretazioni del passato, ad essa tendenzialmente congruenti, da cui ritrae forza’ (Jedlowski, 2002, pag. 52).

Quindi, le dimensioni – individuale e collettiva – del ricordo s’influenzano reciprocamente poiché i valori e le credenze della collettività e dei gruppi a cui apparteniamo condizionano l’interpretazione che forniamo agli eventi e alla nostra stessa identità. Data l’interazione tra le nostre esperienze e quelle altrui, attraverso uno scambio dialogico costante e sottinteso, che non prevede sempre una volontà esplicita e cosciente, possiamo affermare che la memoria individuale dipenda da quella collettiva. In conclusione, la memoria (individuale e collettiva) assume sempre una connotazione dialogica come ricostruzione interpretativa di avvenimenti relazionali, tra l’individuo e i gruppi di appartenenza o tra il gruppo sociale nel suo insieme e gli altri gruppi con cui si interfaccia (Leo, 2010). Qualsiasi ‘⦋…⦌ gruppo seleziona e riorganizza incessantemente le immagini del passato, in relazione agli interessi e ai progetti che predominano nel presente. Nelle società moderne, dotate di particolare complessità, tali processi di selezione e riorganizzazione determinano ricorrenti conflitti e compromessi tra le esigenze contrastanti dei diversi gruppi che le compongono. E’ possibile distinguere di conseguenza la memoria collettiva dei singoli gruppi dalla memoria sociale, da intendersi come l’intersezione o il prodotto delle dinamiche reciproche delle diverse memorie collettive presenti in una società, o come l’insieme delle tracce del passato virtualmente disponibili (Namer, 1987)’ (Auguglia et al., 2014, pag. 184).

Il tema della memoria collettiva obbliga quindi a ‘⦋…⦌ misurarsi anche con il problema dell’uso che un certo gruppo, detentore di un potere economico, può fare di quella memoria‘ (Leo, 2010, pag. 21).

Oltre all’incessante produzione quotidiana di informazioni su eventi passati e presenti da parte dei mass-media, anche i politici spesso interpretano i dati di realtà per raggiungere scopi di parte, come, ad esempio, è accaduto durante le manifestazioni politiche di piazza in molte città italiane il 2 giugno. In quella di Roma, mentre le alte cariche dello Stato facevano visita all’altare della patria nell’esercizio e nel rispetto della memoria storica del Paese e delle regole di comportamento imposte dal Covid-19, si è visto ‘Un assembramento che viola ogni regola di sicurezza. Che abbatte qualsiasi soglia di rischio. Che gioca d’azzardo con la sorte. Distanze azzerate. Alla fine, sono in migliaia’ (Lopapa, 2 giugno 2020). Nel pomeriggio della stessa giornata, a piazza del Popolo, alcune centinaia di persone si riuniscono senza alcun rispetto del distanziamento fisico, poche indossano le mascherine, inneggiando alla libertà e attaccando duramente il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio in pieno stile complottista e negazionista.

Per alcune delle tragedie che hanno sconvolto l’umanità, ad esempio quella della Shoah, nonostante migliaia di testimonianze dirette e riprese dal vivo, alcuni (purtroppo ci sono di mezzo perfino dei sedicenti storici!) hanno perfino sviluppato un vero e proprio negazionismo. Con questo temine ‘[…] viene indicata una corrente antistorica e antiscientifica del revisionismo la quale, attraverso l’uso spregiudicato e ideologizzato di uno scetticismo storiografico portato all’estremo, non si limita a reinterpretare determinati fenomeni della storia contemporanea ma, specialmente con riferimento ad alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo (per es., l’istituzione dei campi di sterminio nella Germania nazista), si spinge fino a negarne l’esistenza‘ (Treccani). Nell’ordinamento giuridico dell’antica Roma esisteva la damnatio memoriae, espressione che faceva riferimento ad una pena severa che aveva lo scopo di cancellare tutti i riferimenti (scritti, iscrizioni, ritratti, statue) di coloro che venivano considerati ostili a Roma e al Senato, diventati tali in quanto traditori o comunque dopo essere finiti in disgrazia dopo la perdita del loro potere politico.

Nella Bibbia è contenuta un’autentica normatività della memoria che rende la cultura ebraica una vera e propria cultura del ricordo molto più di quella cristiana. Per il popolo ebraico, osserva Yerushalmi (2011), la memoria storica è una mizvà, un vero e proprio dovere religioso, perché la storia non nasce dall’agire umano, ma dalla dialettica uomo/Dio. Per questo motivo, ‘Se Erodoto è stato il padre della storia, i primi a dare un significato alla storia sono stati gli stessi ebrei‘ (Yerushalmi, ibidem, pag. 42). E per questo stesso motivo il senso della storia può essere considerato una scoperta tutta ebraica. Eppure la memoria ebraica è fortemente selettiva: un paradosso? Forse, ma è un paradosso più apparente che sostanziale: ciò che deve essere ricordato è il rapporto tra Dio e l’uomo. Per il resto, vale bene ciò che Nietzsche (2020) definiva ‘la potenza dell’oblio’, la stessa che l’uomo invidia al gregge che pascola indisturbato, che ‘non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani’, godendo di ciò che fa perché ‘poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato’. E per l’uomo, così tronfio ‘della sua umanità di fronte all’animale’, è estremamente doloroso e frustrante constatare tanta innocente felicità, perché in fondo ‘questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente’, dal momento che sa bene ‘di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato. Allora l’uomo dice: ‘Mi ricordo’ e invidia l’animale che dimentica immediatamente e che vede davvero ogni attimo morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, estinguersi per sempre’ (Nietzsche, ibidem).

La memoria è un remoto quando
(quando ti conobbi, quando te ne andasti)
o imperfetto (quando eravamo piccoli,
quando eri con me). Nel desiderio siamo ancora più quando (quando tornerai,
quando sarà il momento, quando arriverà),
siamo subordinati e senza protezione…
Soltanto quando dormo il quando s’addormenta.

Così il poeta spagnolo Juan Vicente Piqueras (2003).

Eppure questo ‘quando’ è un’ossessione che inchioda al ‘sentire in modo storico’ anche i nostri attimi interiori. Sarà forse per la difficoltà di misurare il tempo in maniera oggettiva (‘Né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro’, scriveva S. Agostino, in Le Confessioni, L. XI); sarà perché il tempo più vero, più nostro, è quello che ci appare nella sua dimensione interiore, come ‘distensione dell’anima’. Sarà per il nostro persistente bisogno di sottrarre le cose all’oblio, ‘serbandole nella memoria, ricordandole e riconoscendole come parte della propria storia’, che la memoria diventa ‘il presente del passato’ (S. Agostino, ibidem).

O forse, come sosteneva Plotino, perché la memoria è l’orizzonte tra il tempo della storia e il tempo dell’eternità, che custodisce nell’anima (Plotino, Enneade IV, 6). D’altronde, non era stato forse Platone il primo ad affermare che ‘conoscere è ricordare’? (Platone, Menone).

Eppure questo tempo interiore, tempo che ‘è come un gomitolo di filo o una valanga, che continuamente mutano e crescono su se medesimi’ (Bergson, 2012) non sembra imprimersi indelebilmente nel nostro vissuto interiore: ‘La memoria non è la facoltà di classificar ricordi in un cassetto o di scriverli su di un registro.’ Non c’è registro, non c’è cassetto, nella nostra memoria, è piuttosto il passato che ‘si conserva da se stesso, automaticamente. Esso ci segue, tutt’intero, in ogni momento: ciò che abbiamo sentito, pensato, voluto sin dalla prima infanzia è là, chino sul presente che esso sta per assorbire in sé, incalzante alla porta della coscienza, che vorrebbe lasciarlo fuori’ (Bergson, 1959, pag. 59). Già, proprio così: la coscienza vorrebbe lasciarlo fuori: ‘La funzione del meccanismo cerebrale è appunto quella di ricacciare la massima parte del passato nell’incosciente per introdurre nella coscienza solo ciò che può illuminare la situazione attuale, agevolare l’azione che si prepara, compiere un lavoro utile. Talvolta qualche ricordo non necessario riesce a passar di contrabbando per la porta socchiusa; e questi messaggeri dell’inconscio ci avvertono del carico che trasciniamo dietro a noi senza averne consapevolezza’ (Bergson, 1959). Ma di questo carico dobbiamo essere intelligenti e sagaci magazzinieri e saper scegliere soltanto ciò che può aiutarci a disegnare un futuro migliore.

‘Ciò che è non storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà’: il ‘non storico’ è quell’oblio ‘dal quale la vita può generarsi per sparire di nuovo con la distruzione di quell’atmosfera’; la conoscenza storica è ‘la forza di usare il passato per la vita e di trasformare la storia passata in storia presente’, perché solo in tal modo ‘l’uomo diventa uomo’. Per la vita di ogni essere occorrono ‘non soltanto luce, ma anche oscurità’, non soltanto ricordo, ma anche oblio (Nietzsche, ibidem).

Oblio e memoria servono affinché possiamo riuscire a costruirci un’identità collettiva: “La memoria collettiva è come una locomotiva, che ha bisogno di essere alimentata continuamente, con il carbone, delle forme ufficiali di ricordare. […] Si può dire che l’oblio sia una sottoalimentazione della memoria ufficiale o una perdita di alimentazione. […] Noi non possiamo ricordare tutto e non possiamo dimenticare tutto. L’identità collettiva di un popolo si forma anche attraverso il dimenticare’ (Bodei, 1998).

La memoria è un campo di battaglia, anche se non viene scritta sempre e soltanto dai vincitori e per questo è sempre divisa, oltre che ‘condivisa’; ma è anche ‘un’eredità contesa’, soggetta a continue, ossessive reinterpretazioni. ‘Probabilmente è necessario, ogni tanto, che ci sia una tregua della memoria, nel senso che c’è anche un accanimento della memoria, un accanimento identitario. Cioè il tipo di memoria che probabilmente è più auspicabile è quello di una memoria ospitale, capace di ascoltare le ragioni degli altri’ (Bodei, ibidem). La memoria, osserva Bodei, è ‘un palinsesto – sapete, quella pergamena che, siccome costava troppo, veniva raschiata e ci si trovava scritto più volte con diversi testi’ (Bodei, ibidem).

Forse questa volta il nostro palinsesto non è più scritto in un tempo verticale – dal passato al presente – ma in un tempo orizzontale, con una pergamena fornita dalla pandemia, sulla quale ognuno di noi ha segnato la sua storia ed alla quale ha affidato la sua personale memoria. Non possiamo che augurarci che questo nostro collettivo palinsesto sia capace di disegnare, una volta per tutte, una ‘memoria ospitale’. E che, come le galline di Aniello, dopo un periodo di fisiologico riadattamento, ci si possa reincontrare in un ‘giardino’ rinnovato.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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