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L’utilizzo della Stimolazione Magnetica Transcranica ripetitiva (rTMS) nel trattamento delle tossicodipendenze

L’utilizzo della rTMS per trattare la tossicodipendenza prevede un protocollo clinico specifico basato su meccanismi di adattamento e neuroplasticità

Di Miriam Curti

Pubblicato il 30 Ott. 2020

Il fenomeno delle tossicodipendenze è sempe più diffuso e comporta grandi costi economici e sociali. Negli ultimi anni si è cercato di sviluppare trattamenti sempre più efficaci tra cui la Stimolazione Magnetica Transcranica Ripetitiva (rTMS), già conosciuta per il trattamento di altri disturbi.

Miriam Curti – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Come riporta la Relazione Annuale al Parlamento sul Fenomeno delle Tossicodipendenze in Italia 2019 (dati 2018), l’utilizzo di droghe nella nostra nazione miete quasi una vittima al giorno: 334 nel 2018, ben 38 in più dell’anno precedente. Da un punto di vista economico, la cura e il trattamento delle tossicodipendenze è quantificabile in poco meno di 2 miliardi di euro, non tenendo conto di tutti quei trattamenti che vengono effettuati per le patologie conseguenti e correlate all’utilizzo e abuso di sostanze stupefacenti (Dipartimento Politiche Antidroga, 2019).

In questo articolo, verranno presi in analisi gli effetti legati all’utilizzo della cocaina. Essa, infatti, rientra tra le sostanze che più comportano un impatto negativo sulle funzioni cognitive e che, dopo la cannabis, rappresenta la sostanza maggiormente consumata dai poliutilizzatori e tra le più pericolose da un punto di vista sociale.

L’uso di droga interferisce con il modo in cui i neuroni inviano, ricevono e processano i segnali tramite i neurotrasmettitori. Alcuni tipi di droga, come ad esempio anfetamina e cocaina, possono portare i neuroni a rilasciare una quantità abnorme di neurotrasmettitori naturali oppure impedirne il normale riutilizzo da parte del cervello. Questo meccanismo porta, dunque, a una amplificazione o interruzione della normale comunicazione tra i neuroni.

L’abuso di droghe va ad alterare importanti aree cerebrali che sono necessarie alle funzioni vitali andando, poi, a innescare l’utilizzo compulsivo di tali sostanze e portando a una vera e propria forma di dipendenza.

Le aree cerebrali in cui, tramite studi neuroimaging, è stato possibile evidenziare un’alterazione funzionale, conseguente all’utilizzo di droghe, sono molteplici. Tra queste:

  • i gangli della base: implicati nella motivazione, rappresentano un’area chiave di ciò che viene comunemente definito “sistema ricompensa”. In seguito all’abuso di sostanze, è possibile osservare una iperattivazione di questo circuito che produce euforia. Tuttavia, in seguito a esposizioni ripetute, il circuito arriva ad adattarsi alla presenza della droga e ciò ne riduce la sua sensibilità. Questo meccanismo impedisce all’individuo di sperimentare sensazioni piacevoli che non siano connesse all’utilizzo della sostanza.
  • l’amigdala: che gioca un ruolo cruciale nello sperimentare ansia, irritabilità e disagio nella fase di astinenza. Lo sperimentare queste sensazioni, quindi, motiva la persona a ricercare nuovamente la sostanza al fine di ottenere una qualche forma di sollievo temporaneo.
  • la corteccia prefrontale: implicata in numerosi processi cognitivi superiori, quali, problem solving, decision-making e controllo degli impulsi. L’utilizzo di cocaina porta a una riduzione delle capacità mentali innescando ciò che dalle neuroscienze viene definito un vero e proprio brain disease. Diversi studi sugli umani suggeriscono che i deficit in tale area cerebrale potrebbero essere cruciali nell’innescare l’utilizzo compulsivo delle droghe.

Alla luce di quanto detto, sia in merito ai danni cerebrali innescati dall’abuso delle sostanze, sia alla casistica sempre più in aumento, è comprensibile l’enorme sforzo fatto nel corso degli anni per rintracciare il trattamento efficace volto al contrasto della tossicodipendenza.

Nel corso degli anni, infatti, sono stati presi in considerazione principalmente tre approcci per intervenire sul disturbo:

  1. Farmacologia: con l’intento principale di produrre una buona gestione del craving, aiutando i pazienti a tollerare e gestire la fase di astinenza e contrastando quanto più possibile eventuali ricadute.
  2. Psicoterapia: Nel trattamento della dipendenza da cocaina vi sono prove di efficacia per numerosi tipi d’ intervento psicoterapico, dalla terapia cognitivo-comportamentale, a quella psicodinamica, fino ad arrivare alle terapie di gruppo (Raggi, 2016)
  3. Sistemi di rieducazione.

Purtroppo, nel trattamento delle tossicodipendenze, per quanto ognuno di questi interventi abbia portato alla luce prove di efficacia, bisogna sempre tener conto dell’alto livello di attrattività che la cocaina ha sugli individui e che spesso porta a ricadute anche in seguito ai trattamenti sopra citati.

La scoperta di un nuovo trattamento, “il fascio di luce che sconfiggerà le tossicodipendenze”

Arriviamo all’anno 2013, anno in cui il Dottor Antonello Bonci insieme al suo staff conduce un esperimento sui ratti dipendenti da cocaina. Alla base di tale studio vi è l’Optogenetica, ossia un tipo di trattamento in cui vengono combinate tecniche ottiche e genetiche per poter tracciare circuiti neurali nel cervello. Nell’esperimento, venivano immesse nel cervello dei ratti delle cellule particolarmente sensibili alla luce (le canaldropsine) che, in un secondo momento venivano attivate tramite l’utilizzo di uno stimolo luminoso. Attraverso questa tecnica si scoprì che, nei ratti con dipendenza da cocaina, la porzione della corteccia pre-limbica presentava una ridotta eccitabilità e che la stimolazione in vivo (mediante optogenetica) di tale area produceva una maggiore attività di tale area, traducendosi in una riduzione dei comportamenti compulsivi di ricerca della droga.

Si trattava di un esperimento del tutto innovativo che apriva le porte a nuove linee di trattamento della tossicodipendenza. A partire da tale studio, infatti, si accese l’interesse verso questa nuova metodica per comprendere come tali risultati potessero essere replicati anche sull’uomo.

In Italia, il Dottor Luigi Gallimberti (Medico specializzato in Psichiatria e Tossicologia) fu tra i primi a portare avanti degli studi sull’uomo per comprendere come poter ottenere i medesimi risultati che i colleghi avevano osservato sugli animali.

Ci si affidò all’utilizzo della rTMS (Stimolazione Magnetica Transcranica Ripetitiva), già conosciuta per il trattamento di altri disturbi, tra cui la depressione. Si tratta di una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica, a corrente indotta, del cervello e del sistema nervoso in generale. Essa consente di studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all’interno del cervello, provocando una micro lesione transitoria che inibisce il funzionamento dell’area oggetto d’indagine (Fiore, 2017).

Questa tecnica di stimolazione cerebrale consente di eccitare o inibire porzioni focalizzate della corteccia cerebrale attraverso la creazione di un campo magnetico. Nell’area interessata dall’arrivo del campo magnetico i neuroni vengono, quindi, attivati in un modo artificiale dalla corrente elettrica generata dal campo (Immagine 1). La TMS provoca un’interferenza temporanea e locale con l’attività cerebrale normale e, quindi, con i processi di elaborazione che sono svolti dall’area cerebrale interessata dalla stimolazione. Mediante l’utilizzo di una bobina sarebbe possibile, dunque, andare a modificare il funzionamento neurale implicato nel desiderio della sostanza e nei comportamenti di ricerca compulsiva della sostanza stessa. Un punto a favore di tale metodica è la sua non invasività e la sua capacità di modificare l’attività elettrica cerebrale in maniera del tutto indolore.

Immagine 1 – Il funzionamento della TMS

Il protocollo clinico e le prove di efficacia

L’utilizzo della rTMS come trattamento per la tossicodipendenza prevede un protocollo clinico specifico in cui un set di impulsi ripetuti viene applicato con lo scopo di alterare l’eccitabilità delle zone stimolate e delle aree del cervello anatomicamente e funzionalmente connesse. I meccanismi alla base degli effetti elicitati dall’utilizzo della TMS sono quelli di adattamento e di neuroplasticità.

Per quanto riguarda le prove di efficacia, già dal primo studio pilota i risultati ottenuti hanno fatto ben sperare sull’applicabilità e la significatività del trattamento. Nel 2015. Infatti, il Dottor Galimberti in collaborazione con il Dottor Bonci e tutto il loro staff hanno condotto uno studio per verificare se la stimolazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) potesse impedire (o quantomeno, contenere) l’uso di cocaina nell’uomo.

Nella prima fase dello studio, durata circa 29 giorni, 32 pazienti dipendenti da cocaina sono stati assegnati in maniera casuale al gruppo sperimentale (sessioni di 12 minuti di rTMS) sulla DLPFC sinistra o al gruppo di controllo (in cui non vi era utilizo di rTMS, bensì di farmaci). A questa fase è seguito poi un follow-up di 63 giorni (Fase 2), durante il quale tutti i partecipanti sono stati sottoposti al trattamento rTMS.

I risultati hanno mostrato un numero significativamente più alto di test antidroga delle urine negativi alla cocaina nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo (p = 0,004). Inoltre, anche il desiderio di cocaina era significativamente inferiore nel gruppo rTMS rispetto ai controlli (p = 0,038). I pazienti che hanno completato la fase 1 nel gruppo di controllo e che, successivamente hanno ricevuto un trattamento rTMS durante la fase 2,  hanno mostrato un miglioramento significativo con esiti favorevoli che sono comparabili a quelli del gruppo rTMS. Inoltre, non sono stati riscontrati eventi avversi significativi conseguenti all’utilizzo della TMS.

La scelta della DLPFC come area da stimolare risiede nel fatto che, come detto anche precedentemente, essa sembra essere il sito principale di dei processi decisionali, controllo cognitivo delle emozioni e comportamenti associati al rischio. Tramite studi di neuroimaging è stata dimostrata un’alterazione delle funzioni della DLPFC nei soggetti con diagnosi conclamata di tossicodipendenza. Dunque, andando a potenziare la sua attività elettrica, si dovrebbe riuscire anche a ristabilire il funzionamento del “sistema di ricompensa” e il rilascio di dopamina (meccanismi compromessi nei soggetti che abusano di sostanze). Da qui, si comprende bene l’utilizzo della TMS come volta al raggiungimento di diversi obiettivi:

  • il potenziamento dei meccanismi di autocontrollo e inibizione dell’impulsività;
  • l’inibizione dell’attività dei sistemi cerebrali che mediano il desiderio della sostanza;
  • il ripristino dei normali livelli di funzionamento del sistema della ricompensa e della dopamina.

Proprio in merito all’ultimo punto, in alcuni studi è stata utilizzata, congiuntamente alla rTMS, la tomografia ad emissione di Positroni (PET) che permette di quantificare il rilascio di dopamina. Ciò che è emerso dai risultati ottenuti è che il trattamento di Stimolazione promuove il rilascio di dopamina nel nucleo caudato. Infatti, nei soggetti dipendenti, la bassa produzione di dopamina in questa area cerebrale sembra essere la principale causa di anedonia (scarsa capacità di provare piacere). Inoltre, la modulazione della neurotrasmissione della dopamina nella corteccia cingolata anteriore e orbitofrontale permette di rafforzare la capacità di inibizione del desiderio e, di conseguenza, la presenza di comportamenti compulsivi di ricerca.

Alla luce di tali risultati, sembrerebbe logico ipotizzare un’efficacia totale ed indiscussa di tale trattamento e, probabilmente, proprio per tale ragione questi esperimenti hanno catturato l’attenzione di diverse testate giornalistiche che hanno parlato di tali scoperte in termini “sensazionali”.

Tuttavia, adottando un vero atteggiamento scientifico, sarebbe corretto adottare un’ottica critica. I risultati ottenuti sicuramente fanno ben sperare, ma con un’attenta ricerca è possibile osservare il basso numero di studi clinici condotti sull’utilizzo della TMS nelle tossicodipendenze. Inoltre, benchè gli studi condotti abbiano previsto una randomizzazione del campione nell’assegnazione al gruppo sperimentale o di controllo, è necessario tenere sempre in considerazione l’effetto dell’aspettativa dei soggetti. In questo caso parliamo di persone che, manifestando forti problemi comportamentali con importanti conseguenze sull’aspetto sociale, si sottopongono volontariamente al trattamento e che, proprio per questo, potrebbero avere forti aspettative in merito alla buona riuscita del trattamento stesso. Ricordiamo, infatti, che in questo caso il gruppo di controllo viene comunque sottoposto ad una sessione di rTMS, seppur senza il rilascio vero e proprio di elettricità. A tal proposito, infatti, come era facilmente intuibile, alcuni studi clinici hanno messo in luce come il trattamento con rTMS possa risultare efficace anche quando somministrato come placebo.

In altri studi ancora, invece, è stato mostrato come una parte del campione non fosse riuscita ad ottenere risultati a lungo termine con l’utilizzo esclusivo della stimolazione, bensì è risultato necessario integrare a tale metodica un percorso di psicoterapia e sistemi di rieducazione.

Nonostante ciò, in Italia, ad oggi sono presenti diversi centri privati che accolgono ogni giorno numerosi pazienti tossicodipendenti e li seguono in tutto il loro percorso di cura e riabilitazione.

In generale, le neuroscienze in questo campo avrebbero bisogno di prove di efficacia ancor più forti e numerose. Dunque, parlando di tossicodipendenza è fondamentale far riferimento all’aspetto biologico, ma non dimentichiamo mai che l’uomo non è solo ciò.

Ed ecco perché, l’utilizzo della metodica rTMS, per quanto possa rappresentare un trattamento efficace e funzionale, esso non può essere preso in considerazione senza una presa in carico del paziente “in toto” attraverso percorsi psicoterapici che tengano conto dei bisogni, delle aspettative e della storia di vita di ciascun individuo.

 


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