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La gravidanza nelle pazienti psichiatriche

Non è chiaro se la gravidanza sia un pericolo per le pazienti psichiatriche ma è necessario individuare strategie affinché la vivano in sicurezza

Di Francesca Falco

Pubblicato il 23 Ott. 2020

Data la difficoltà degli studi nello stabilire se la gravidanza possa o meno giovare alle donne che hanno sofferto o soffrono di disturbi psichici, le attuali linee guida propendono per una programmazione ad hoc della gestazione. 

Francesca Falco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

L’inizio della gestazione si caratterizza, oltre che per un importante cambiamento nello stile di vita e nella forma del corpo, per un enorme cambiamento dell’assetto ormonale, il quale influisce sull’umore della donna, che gradualmente dovrà imparare a gestire la nuova produzione di ormoni. Se per una donna che non ha mai avuto esordi psicopatologici questo rappresenta un momento di difficoltà, che richiede pazienza e utilizzo di risorse per adattarsi ai molteplici cambiamenti della gestazione, per le donne che hanno avuto precedenti difficoltà psichiatriche, questo può rappresentare un’enorme sfida. Questi cambiamenti, infatti, da una parte possono causare una parziale o totale inefficacia della terapia farmacologica, che va rivista e modificata, dall’altra possono incidere sull’umore e sul comportamento della gestante, causando a volte notevoli difficoltà.

Gli studi sulla gravidanza attualmente non hanno ancora permesso di comprendere se questa fase della vita possa rappresentare un fattore protettivo verso esordi o recidive psicopatologici, o se, al contrario, possa rappresentare un fattore di rischio: mentre alcuni riportano un’attenuazione delle difficoltà legate a precedenti psicopatologie, altri evidenziano la loro esacerbazione, nuovi esordi o recidive di precedenti disturbi. L’azione protettiva o esacerbante della gravidanza sembra essere legata ad una molteplicità di elementi: storia di vita, tratti di personalità, status sociale ed economico, numero di gravidanze precedenti, possono intervenire nella prognosi psichica della gestante, sia in termini positivi, sia negativi.

Data la difficoltà degli studi in tal proposito nello stabilire se la gravidanza possa o meno giovare alle donne che hanno sofferto o soffrono di disturbi psichici, le attuali linee guida propendono per una programmazione ad hoc della gestazione. Tale spazio di manovra presenta una serie di vantaggi importanti nella tutela della salute fisica e psicologica di mamma e bambino: in accordo con il clinico, infatti, le pazienti possono rimodulare in anticipo la terapia farmacologica o sospenderla, se il quadro clinico della paziente lo permette, in favore della sola psicoterapia, riducendo il più possibile gli effetti dannosi che gli psicofarmaci potrebbero avere sul feto, senza incidere negativamente sull’equilibrio psichico della gestante (Cartabellotta et al., 2015).

Non è ancora chiaro quindi se la gravidanza sia effettivamente un pericolo per le donne che hanno precedentemente sofferto di disturbi psichiatrici o se, al contrario, sia un fattore protettivo, ma si è reso necessario individuare le strategie necessarie a permettere loro di vivere la maternità e, prima di essa, la gravidanza, con il maggior grado di sicurezza possibile, al fine di garantire loro il diritto alla maternità, senza rischiare che sia il bambino a pagarne il prezzo.

Effetti della gestazione sulla paziente psichiatrica: rischi peri- e post-natali

Come indicato dalle linee guida, essere affette da psicopatologia implica che la gravidanza debba essere attentamente programmata per ridurre al minimo il rischio di recidiva, peggioramento sintomatologico o, in caso di terapia farmacologica, effetti dannosi su feto e madre.

Ma cosa accade ad una gestante che, prima della gravidanza, aveva disturbi psichici?

I principali disturbi psichici analizzati dalla letteratura nel periodo gravidico sono i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore, il disturbo bipolare, i disturbi alimentari e la schizofrenia.

I disturbi d’ansia sono i più diffusi tra le gestanti, ma anche i meno individuati dai clinici: spesso è difficile diagnosticare un peggioramento della sintomatologia o un nuovo esordio in gravidanza, poiché la tendenza dei clinici che circondano la gestante è quella di attribuire la preoccupazione ad una normale condizione di cambiamento della donna. La fisiologica preoccupazione, però, è ben distante dalla preoccupazione patologica, che invece può essere fonte di forte stress per la donna in attesa. Prendendo in analisi il Disturbo di Panico, molti studi sembrano dimostrare che la gestazione abbia effetti molto diversi a seconda di come si presentava la sintomatologia prima della gravidanza: secondo Cohen e colleghi (1996) i sintomi tendono a migliorare quando la precedente sintomatologia era lieve, mentre tendono a peggiorare se prima della gravidanza la donna presentava sintomi più severi. Questo aspetto potrebbe essere influenzato anche dalla produzione ormonale tipica della gravidanza che, con l’aumento di estradiolo e progesterone, produce un effetto ansiolitico; tali livelli ormonali subiscono un crollo circa 4 o 5 giorni dopo il parto, aumentando la possibilità di un peggioramento repentino nel post partum (Cohen et al., 1994; Klein et al., 1994; Reddy et al., 2005). Come per il Disturbo di Panico, anche per il Disturbo d’Ansia Generalizzato, la produzione di estradiolo e progesterone sembra proteggere le donne da una possibile esacerbazione della sintomatologia, sebbene possano persistere pensieri di tipo ansioso, con la sola eccezione di sintomi come ipoventilazione e tachicardia, che possono peggiorare in gravidanza, soprattutto in risposta ai cambiamenti corporei (Cowley, 1989). Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, invece, sembra essere messo a dura prova dalla gestazione: secondo Neziroglu e colleghi, la sintomatologia sicuramente peggiora, andando a interferire, in base al tipo di comportamento messo in atto in risposta all’ossessione, con il decorso della gravidanza (Neziroglu et al., 1992).

Anche per i disturbi dell’umore, il corretto inquadramento diagnostico è più complesso durante la gestazione: alcuni segni tipici della depressione, come astenia, cambiamenti di peso o difficoltà legate al ciclo del sonno, possono essere erroneamente confusi con segni tipici della gravidanza. In realtà, il tasso di depressione in gravidanza mostra una prevalenza del 7% al primo trimestre, 12,8% al secondo e 12% al terzo (Bennet et al., 2004); tra i fattori di rischio, uno dei più importanti consiste proprio nell’avere una precedente storia di episodi depressivi e/o di depressione post natale (Ryan, Milis, Misri, 2005). Un aspetto interessante riguarda il fatto che la depressione prenatale e quella postnatale sembrano mostrare configurazioni tipiche, che permettono di porre l’accento su differenti aspetti sintomatologici in base alla fase in cui si trova la donna: Kammerer e colleghi (2006) hanno individuato sintomi tipici della depressione melanconica nel periodo della gravidanza, con insonnia, iporessia e scarsa reattività del tono dell’umore, associata ad aumento dei livelli di cortisolo, mentre la depressione postnatale sembra più simile alla depressione atipica, con ipersonnia, labilità emotiva e iperfagia, associata ad una riduzione dei livelli di cortisolo (Kammerer, Taylor, Glover, 2006).

Episodi depressivi, inoltre, sembrano manifestarsi durante la gravidanza similmente a quanto avviene normalmente (APA, 2013), con la peculiarità di riportare contenuti ed eventuali deliri alla dimensione materna, al futuro accudimento del bambino, all’insicurezza circa il diventare madre (Giardinelli et al., 2008). Da non sottovalutare, inoltre, il rischio che caratterizza le gestanti che hanno scelto di interrompere il trattamento farmacologico per programmare il concepimento: secondo uno studio di Cohen e collaboratori (Cohen et al., 2006), infatti, nel 68% dei casi, queste donne vanno incontro a ricadute durante la gravidanza, soprattutto nel primo trimestre.

Per quanto riguarda il disturbo bipolare, la letteratura sembra avere pareri contrastanti circa il suo miglioramento o, al contrario, peggioramento, durante la gestazione (Freeman, Gelenberg, 2005). Ciò che invece appare evidente è la necessità di non interrompere la terapia autonomamente: secondo lo studio di Viguera e colleghi (Viguera et al., 2007), le donne che sospendono bruscamente la terapia a base di stabilizzatori dell’umore, presentano il doppio delle possibilità di ricadute rispetto alle donne che proseguono la terapia. D’altro canto, considerando le possibili interferenze sullo sviluppo del feto, l’ideale sarebbe poter optare per una sospensione graduale della terapia nel primo trimestre di gravidanza, soluzione adottabile per quelle donne che hanno avuto lunghi periodi di remissione della sintomatologia prima del concepimento.

Nelle donne affette da schizofrenia, spesso la gravidanza non è programmata, ma è piuttosto frutto di comportamenti sregolati, basse condizioni socioeconomiche, tendenza all’impulsività o promiscuità. In queste donne, il rischio maggiore è imputabile all’imprevedibilità dell’impatto che la gestazione può avere sulle loro condizioni psichiche (Howard, 2005): comportamenti disregolati, abuso di alcol e fumo, carenza di cure prenatali, scarsità di igiene personale sono solo alcune delle manifestazioni che potrebbero emergere durante la gestazione. Il periodo puerperale, inoltre, rappresenta un ulteriore momento delicato, che può vedere l’esacerbarsi dei deliri e dei comportamenti disorganizzati (Chandra et al., 2006). Tuttavia, la letteratura evidenzia come la maternità possa provocare un miglioramento sulla salute psichica della donna, che vede modificare il proprio status all’interno della famiglia, ridurre lo stigma sociale e generalmente ottenere un allargamento della propria rete di supporto, aspetti che migliorano lo stato della paziente (Craig & Abel, 2001). Tutto questo impone un’attenzione particolare verso le donne schizofreniche, sia nel periodo prenatale, sia in quello puerperale, con interventi diretti e specifici che tutelino la salute di madre e figlio.

In donne con storia di disturbi alimentari, la gravidanza rappresenta un momento di notevole difficoltà, in cui ci si confronta con quegli aspetti che hanno rappresentato il nucleo di un periodo difficile: l’aumento di peso, il cambiamento della forma del proprio corpo, il nuovo ruolo sociale e il cambiamento della relazione con le proprie figure genitoriali. Tutto questo può riaccendere il disturbo, portando a nuove condotte restrittive e di eliminazione (Mitchell, Bulik, 2006) che possono provocare l’aborto, o determinare basso peso alla nascita, prematurità e necessità di ricorrere al parto cesareo (Crow et al., 2004). Un’attenzione particolare è necessaria nelle donne che hanno ottenuto un miglioramento o una remissione della sintomatologia nel periodo gestazionale: per queste donne, il periodo del puerperio, potrebbe rappresentare un momento di recidiva importante, per la fretta di recuperare il corpo e il peso desiderati (Lacey, Smith, 1987).

La gravidanza rappresenta di per sé un importante fattore di stress, che come tale può rappresentare un importante fattore eziologico nello sviluppo di disturbi psichici in donne che presentano aspetti di vulnerabilità. L’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), tipicamente iperattivata in condizioni di stress, può avere importanti effetti sullo sviluppo del feto e può indurre un parto prematuro (Glover, O’Connor, 2002; Kurki et al., 2000); condizioni di depressione o ansia, tipicamente le più frequentemente riscontrate durante la gestazione, possono attivare l’asse HPA, producendo le conseguenze tipiche dello stress prolungato (Brockington, Macdonald, Wainscott, 2006).

Da non sottovalutare è anche il concetto di Attaccamento Prenatale (APN), che si riferisce allo sviluppo di un legame basato sul concetto di accudimento della madre verso il bambino che nascerà: questo aspetto, che costituisce una primordiale forma di relazione tra madre e bambino, è considerata prognostica del rapporto che i due avranno dopo il parto. Oltre a costituire un importante indicatore per lo sviluppo della relazione nel post partum, fornisce anche indicazioni circa la capacità di prendersi cura del bambino e la sua sensibilità nell’interazione (Della Vedova, 2005). L’APN sembra evolversi e crescere con l’aumentare dell’età gestazionale: potendo vedere il proprio bambino crescere attraverso le ecografie prenatali e potendolo man mano sentire sempre più presente nel proprio ventre, le future mamme sembrano investire sempre di più emotivamente nel bambino (Barone, 2014; Della Vedova, 2008). Recenti studi hanno indagato la possibilità che tale costrutto possa essere influenzato da aspetti più prettamente clinici, come ansia o depressione. In particolare, si è visto che, mentre i sintomi depressivi possono interferire con l’intensità dell’APN (Barone, 2014), l’ansia, soprattutto in casi di sintomatologia severa, può determinare una tendenza alla distrazione della madre rispetto ai bisogni del proprio bambino (Hopkins, 2018). Un aspetto importante dell’Attaccamento Prenatale è la possibilità di utilizzarlo, tra gli altri, come parametro per individuare precocemente quelle situazioni in cui si ha un maggiore rischio di stress genitoriale (Mazzeschi, 2015) o di sviluppo di depressione post partum (Alhusen, 2013), potendo così intervenire precocemente sulla madre e sulla coppia.

È importante inoltre ricordare che il periodo della gestazione di per sé è caratterizzato da una serie di indicazioni cliniche che scandiscono il periodo della gestazione in maniera continua e regolare: vitamine, integratori, visite di monitoraggio, screening prenatali e analisi di vario tipo, diventano una routine nella donna in attesa. Questo aspetto, che di per sé può rappresentare un elemento di stress, potrebbe diventare ancora più gravoso in quelle donne che devono sottoporsi a psicoterapia o che, continuando ad assumere psicofarmaci, devono essere monitorate costantemente. Tutto questo potrebbe, oltre che causare stress, influire sulla compliance terapeutica, portando la donna a saltare le sedute o a dimenticare o rifiutare il farmaco. Una buona psicoeducazione e un costante supporto psicologico sono fondamentali nel monitorare la salute della donna e mantenere un buon grado di compliance nelle terapie.

Possibili conseguenze della terapia farmacologica

Non sempre è possibile, per la donna che pianifica una gravidanza, abbandonare del tutto la terapia farmacologica: come tutelare allo stesso tempo la salute psichica della paziente e quella del nascituro? Dato che la maggior parte degli psicofarmaci ha la capacità di interferire, anche gravemente, sullo sviluppo del feto, la terapia farmacologica dev’essere attentamente rimodulata. La scelta del clinico, quindi, potrà procedere su due strade: modificare il farmaco o modificare il dosaggio.

L’elemento fondamentale da tenere in considerazione è da una parte la salute psichica della donna, dall’altra la tossicità del farmaco per il feto: il cambiamento o la sospensione della terapia, infatti, devono tener conto sia delle conseguenze dirette sulla salute di madre e bambino, sia sulle conseguenze che potrebbe comportare un peggioramento della sintomatologia materna in termini di comportamento. Se il farmaco ha la capacità di attraversare la placenta e influire sullo sviluppo del feto, è importante considerare quanto può incidere sul benessere del piccolo e, in quest’ottica, è importante tenere conto dell’età gestazionale, che fornisce indicazioni circa lo stadio di sviluppo del piccolo e, di conseguenza, le possibili implicazioni dell’assunzione di un determinato farmaco durante quel periodo della gravidanza.

In considerazione di questi elementi, gli studi dimostrano che tra gli antidepressivi, psicofarmaci notevolmente diffusi, possono avere effetti importanti sul feto: secondo una recente review (Goracci et al., 2015), gli antidepressivi possono avere effetti teratogeni e impattare negativamente sulla crescita del feto, provocando nel 30% dei casi una sindrome astinenziale nel neonato, caratterizzata da pianto frequente, tremori, difficoltà nel ciclo del sonno, ipertonicità o mioclono, tachipnea, disturbi gastrointestinali; questa sintomatologia tende a risolversi autonomamente nel 70% dei casi in circa 3-5 giorni dalla nascita (Levinson-Castiel et al., 2006; Ferreira et al., 2007). L’effetto negativo degli antidepressivi sul feto è imputabile alla capacità del farmaco di attraversare la placenta, arrivando ad essere presente nel sangue del piccolo: la concentrazione del farmaco nel sangue fetale sembra essere proporzionale a quella della madre, ad eccezione di alcune molecole. Dato l’aumentato rischio di ricadute depressive per le donne che sospendono improvvisamente la terapia farmacologica, prossimo al 70%, con conseguente scarsa adesione ai controlli di routine e alterazione dello stile di vita (Bellantuono et al., 2006), risulta fondamentale utilizzare questi dati per modificare il trattamento in favore, laddove possibile, di una molecola meno dannosa per il feto. Secondo la review citata, gli antidepressivi con maggiori effetti dannosi sembrano essere i SSRI (Goracci et al., 2015).

Le benzodizepine, comunemente associate all’uso ansiolitico, sono tra i farmaci più sconsigliati durante la gestazione: la psicoterapia si è dimostrata parimenti efficace, al punto da poterne sostituire gli effetti, soprattutto in considerazione della probabilità di provocare parto prematuro, basso peso alla nascita e difficoltà respiratorie (Yonkers, Gilstad-Hayden, Forray, Lipkind, 2017).

Per gli antipsicotici gli effetti avversi sullo sviluppo del feto sono molteplici e differenziati a seconda della molecola: tutti i farmaci appartenenti a questa categoria attraversano la barriera placentare, andando a determinare una concentrazione del farmaco nel sangue fetale. Si è visto che tutti i farmaci antipsicotici possono avere effetti teratogenici nel primo trimestre e che i neurolettici possono avere effetti dannosi sul feto anche nel secondo e terzo trimestre (Grover, Avasthi, Sharma, 2006): data la mole di dati a disposizione, nel caso in cui si ritenga necessario mantenere la terapia farmacologica, la preferenza è quella dei neurolettici tipici, che a dosaggi minimi sembrano essere quelli con il minor rischio di danni sullo sviluppo del feto (Yaeger, Smith, Altshuler, 2006).

In considerazione di tutti questi elementi, appare evidente la difficoltà del clinico nella scelta del trattamento terapeutico in un momento tanto delicato, soprattutto se la gravidanza non è stata attentamente pianificata, preparando la paziente in anticipo al periodo della gestazione e ad un eventuale cambiamento della terapia.

In quest’ottica, fondamentale è la presenza della psicoterapia, che permette sia di monitorare la donna, per scongiurare eventuali ricadute, contenendo il cambiamento e lavorando sull’accettazione dei cambiamenti in corso, sia di intervenire come sostituto o coadiuvante del farmaco, riducendo il rischio che si manifesti nuovamente il disturbo o che intervenga un nuovo episodio psichiatrico. Altro aspetto fondamentale della psicoterapia è l’intervento sulla coppia, che permette di lavorare sia in termini di preparazione alla genitorialità, sia in termini di ‘lavoro di squadra’ nel supporto alla futura madre, andando a ridurre il rischio di compromissione della compliance e, di conseguenza, di ricaduta psichiatrica.

Conclusioni

Tenendo conto dei dati che la letteratura nazionale e internazionale ha fornito, sono state messe a punto delle specifiche linee guida per l’intervento con le donne affette da psicopatologia durante la gestazione, utili per guidare la pratica clinica dei professionisti sanitari che intervengono nella cura delle donne con patologie psichiatriche nel periodo della gestazione (NICE, 2014). Le linee guida insistono su pianificazione, modificazione della terapia farmacologica con, dove possibile, abbandono del farmaco in favore della psicoterapia, screening psicologico periodico e supporto psicologico costante durante e dopo la gravidanza.

Proprio il supporto psicologico sembra essere lo strumento di elezione per la prevenzione di ricadute e di nuove psicopatologie nella gravidanza e nel puerperio e rappresenta l’unica possibilità di intervento tempestivo in caso di manifestazione di sintomi ‘sentinella’.

Il supporto, che consiste nel creare un momento di riflessione e di dialogo per mamme e papà, rappresenta anche un momento di costante psicoeducazione e di costruzione dello spazio affettivo per il bambino. Attraverso questi interventi, si aumenta nei futuri genitori la conoscenza di quanto avverrà, preparandoli ad affrontare il cambiamento, ma allo stesso tempo si permetto loro di creare gradualmente un bagaglio di capacità genitoriali che rendono maggiore la percezione di autoefficacia. Un ulteriore aspetto del supporto consiste nel riconoscimento e validazione delle emozioni che caratterizzano questo periodo, dando spazio sia a quelle positive, sia a quelle negative, e lavorando allo sviluppo delle abilità necessarie ad affrontare la nuova sfida della genitorialità. Da non sottovalutare, inoltre, la capacità di individuare, durante il supporto, situazioni a rischio, permettendo quindi l’inserimento dell’intervento terapeuti, laddove risulti necessario.

Altro importante strumento nella prevenzione e nell’intervento tempestivo, è il supporto nel puerperio: spesso concepito come prosecuzione del supporto gestazionale, sempre più spesso tale servizio accompagna le neomamme anche nel primo periodo di vita del bambino. Si tratta sia di un valido aiuto nell’esprimere ed elaborare il proprio vissuto di madre, condividendo dubbi, paure e difficoltà del nuovo ruolo di genitore, sia di un momento di monitoraggio, che consente, ancora una volta, di individuare eventuali segnali allarmanti e di intervenire su di essi prima che vadano a costituire un disturbo vero e proprio.

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