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Stigma e malattia mentale: medici e psicologi ne sono immuni?

Diversi studi si sono focalizzati sulla presenza di stigma verso la malattia mentale tra i professionisti della salute, in particolare medici e psicologi

Di Giustina Schioppa, Miriam Petrillo, Regina Costanzo

Pubblicato il 30 Set. 2020

Una prospettiva biogenetica come spiegazione del disturbo mentale aumenterebbe la distanza sociale percepita e i livelli di stigma anche nei professionisti.

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono circa 450 milioni le persone nel mondo a soffrire di disturbi mentali o del comportamento. Il più rappresentativo dei disturbi psichiatrici è la schizofrenia: nel mondo 24 milioni di persone soffrono di questo disturbo, 245.000 dei quali in Italia. Lo stigma riferito alla malattia mentale esiste in tutto il mondo ed è stato documentato da numerose ricerche (Link & Phelan, 2011; Corrigan, 2005) che hanno mostrato come tra la popolazione generale esistano convinzioni stereotipate riguardo la pericolosità (Crisp, Gerder, Rix Meltzer & Rowland, 2000), l’imprevedibilità, l’incompetenza e la responsabilità (Link, Phelan, Bresnhan, Stueve & Pescosolido, 1999). Infatti, le persone affette da schizofrenia sono spesso descritte come imprevedibili, incompetenti e pericolose, oltre che responsabili del proprio disturbo e con una scarsa possibilità di prognosi positiva (Angermeyer & Matschinger, 2004).

Tuttavia, atteggiamenti di questo tipo non sono stati riscontrati solo nella popolazione generale, ma sono presenti anche tra i professionisti della salute. I medici, ad esempio, non sono immuni allo stigma nei confronti delle persone con schizofrenia (Ay, Save & Fidanoglu, 2006; Economou et al., 2012; Feldmann, 2005; Filipcic et al., 2003; Garyfallos et al., 1998; Javed et al., 2006) e ciò è stato portato alla luce da una notevole quantità di studi effettuati in quest’ultimo ventennio che hanno evidenziato l’esistenza di forti pregiudizi con conseguenti atteggiamenti negativi dei medici nei confronti dei pazienti con disturbi psichiatrici.

Studi di questo tipo sono stati effettuati anche sugli studenti di medicina; i risultati di alcune tra queste ricerche (Magliano et al., 2012; Ay, 2006) mostrano come il percorso di studi tenda ad enfatizzare la percezione di pericolosità ed inguaribilità dalla schizofrenia con conseguente rafforzamento di atteggiamenti discriminatori anche da parte dei ‘medici di domani’. Inoltre è stato riportato che l’utilizzo di una prospettiva biogenetica come spiegazione del disturbo mentale aumenterebbe sia la distanza sociale percepita che i livelli di stigma (Dietrich et al., 2004, Read et al., 2006, Walker & Read, 2002, Read & Harrè, 2001). Diversi studi hanno evidenziato che attribuire le cause della schizofrenia a fattori genetici è associato ad una visione pessimistica circa le possibilità di guarigione (Rusch, 2011); al contrario, quando viene data una rilevanza maggiore a fattori causali di tipo psicosociale si tende ad essere più ottimisti sull’esito di questa patologia e, inoltre, le persone con schizofrenia vengono meno considerate come pericolose ed imprevedibili, riducendo in tal modo la distanza sociale nei loro confronti.

Nonostante gli psicologi abbiano un importante ruolo nella cura e nel sostegno professionale verso i pazienti psichiatrici, troppe poche ricerche esistono in letteratura che indagano la percezione di questa categoria di professionisti verso la malattia mentale. L’atteggiamento degli psicologi o degli studenti di psicologia non è stato adeguatamente valutato nella stessa misura in cui invece ci si è concentrati sugli atteggiamenti dei medici o di altri operatori sociali e sanitari.

Alcuni studi suggeriscono che gli psicologi clinici reggono meglio il confronto con gli altri professionisti della salute; essi tendono, infatti, ad avere atteggiamenti più positivi nei confronti di persone con disturbi psichiatrici (Roskin, Carsen, Rabiner, & Marell, 1988) e ad essere più ottimisti riguardo gli esiti del trattamento (Jorm et al., 1999).

I risultati di uno studio di Magliano e colleghi (2016) condotto su 566 studenti di psicologia risultano coerenti con il corpo di ricerche che documentano come l’assunzione di una prospettiva biomedica dei disturbi mentali possa avere effetti negativi sugli atteggiamenti ad essi associati (Angermeyer et al., 2011; Deacon, 2013; Pescosolido et al., 2010; Speerforck et al., 2014). Gli studenti di psicologia coinvolti in questo studio che riportano l’ereditarietà tra le cause del disturbo mentale risultano più pessimisti riguardo alle possibilità di guarigione e sono più scettici riguardo l’utilità dei trattamenti psicosociali nella schizofrenia.

Questi risultati supportano gli studi precedenti che indicano come l’adozione di un modello biogenetico della schizofrenia possa aumentare i pregiudizi sull’incurabilità di tale disturbo (Angermeyer et al., 2011; Read et al., 2013; Kvaale et al., 2013) e possa portare alla gestione clinica di questo disturbo solo attraverso l’utilizzo di trattamenti farmacologici a lungo termine (Hutton et al., 2013).

Tali studi aprono riflessioni sulla necessità di interrogarsi su quanto il percorso accademico sia in grado di plasmare gli atteggiamenti dei professionisti sanitari che offrono servizi di cura, spesso sulla base di soli inquadramenti teorici e decontestualizzati, figli di una vecchia psichiatria pre-Basaglia, e sul bisogno di rendere i percorsi professionalizzanti meno teorici e più pratici, con l’opportunità di interfacciarsi e di calarsi nella pratica clinica già durante gli anni di formazione, auspicando incontri e dialogo con le persone che soffrono di disturbi mentali, favorendo in tal modo l’abbattimento del muro dei pregiudizi che ruotano intorno alla malattia mentale.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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