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Invidia e vergogna nella personalità narcisistica

Freud riteneva che la psicoanalisi non potesse essere usata con i narcisisti per la loro incapacità di costruire un transfert terapeutico. E' davvero così?

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 28 Lug. 2020

Per quanto possa apparire contraddittorio, il nucleo esistenziale più intimo del narcisismo è connotato da vissuti di invidia e vergogna. L’apparente ipervalutazione del Sé, propria di questi soggetti, è soltanto uno strumento compensativo con cui l’Io cerca di supplire l’autostima fragile e frammentata tipica di questa personalità.

 

Sarebbe, infatti, in ragione di un vissuto affettivo deprivante, sofferto a causa di un mancato riconoscimento empatico da parte del genitore, che il bambino, diventato in seguito adulto, ha appreso a svalutare i legami libidici con l’oggetto primario, conferendo al Sé quell’onnipotenza primaria che gli è stata negata in fase diadica. Khout (1971) imputa il narcisismo patologico ad un deficit, dunque a una mancanza affettiva che il bambino ha dovuto fronteggiare quando avrebbe dovuto ricevere una sicurezza responsiva in grado di nutrire in lui sentimenti di onnipotenza primaria, unita all’idealizzazione del genitore, anziché l’idealizzazione del Sé in via difensiva.

Il soggetto narcisista avverte un vuoto affettivo e relazionale derivante dalla rappresentazione frustrata di aspettative non raggiunte, o mai all’altezza degli standard prospettati. Questo lo porta a ricercare una millantata perfezione in ogni aspetto della vita, soprattutto quello estetico e professionale, ambiti nei quali cerca di eccellere non in una prospettiva di autocompiacimento sano e costruttivo, ma solo per contrastare il senso di inferiorità e inadeguatezza che lo perseguita dall’interno, creando insanabili vissuti di vergogna. La vergogna è un sentimento di riprovazione globale verso l’IO: si prova vergogna per essere o per non essere qualcosa. Al contrario nel senso di colpa, sentimento estraneo al narcisismo, si prova rimorso e senso di riparazione per un’azione commessa, dunque si prova vergogna per ciò che si è fatto.

L’altro indefettibile componente della personalità narcisista, ovvero l’invidia, genera una dimensione relazionale che vede l’altro come un mero oggetto da depredare di tutti gli aspetti buoni che possiede, e di cui il narcisista vuole impossessarsi a sua volta. Tale avidità maligna, tuttavia, non è ispirata da sentimenti velleitari verso gli oggetti: il narcisista non vorrebbe possedere ciò che invidia, vorrebbe piuttosto che fosse l’altro a non possederlo; e dunque anche il desiderio di possesso è giustificato da ragioni distruttive e predatorie. Il narcisista desidera distruggere più ancora che possedere.

Kernberg (1975) non imputa l’origine del narcisismo ad un deficit affettivo infantile, facendolo derivare piuttosto dalla natura costituzionale del soggetto, predisposta in via congenita alla sperimentazione di vissuti di invidia e aggressività verso l’oggetto primario, dal quale nega l’indipendenza e l’appoggio.

Melanie Klein (1957) aveva affermato, a sua volta, la radice biologica dell’invidia, identificabile in quegli atteggiamenti, tipici della fase schizoparanoide, volti a depredare il seno buono (ovvero la madre) di tutti gli oggetti che possiede, per possederli e distruggerli.

Secondo la prospettiva kleiniana l’invidia, l’avidità e le angosce persecutorie sono profondamente collegate tra loro, in un legame che al crescere delle une fa subentrare l’accrescimento delle altre. Questo circolo vizioso allontana il bambino dalla possibilità di superare in funzione adattiva la fase schizoparanoide e, dunque, di abbandonare i vissuti sadici e predatori verso il seno buono e la madre che in esso è identificata. Egli non avvertirà mai la necessità di proteggere l’oggetto materno dai propri impulsi, non riuscirà a provare senso di colpa per le sue velleità distruttrici, e non riuscirà ad accettare l’oggetto materno in una dimensione sincretica e ambivalente, in cui il buono può coesistere con il cattivo senza rischio di distruzione.

L’ambivalenza è quella dimensione che consente di accettare la natura positiva e negativa dell’oggetto materno, che se da una parte frustra e proibisce, dall’altra nutre e accudisce con finalità conservative. Questo mancato raggiungimento dell’ambivalenza, e dunque dell’accettazione della coesistenza degli opposti, spinge il narcisista all’idealizzazione irrealistica di un Sé privo di difetti, del quale nessuno si mostrerà mai all’altezza. Da qui gli standard di perfezionismo, di eccellenza, di devozione relazionale pretesi dal narcisista, che lo spingeranno ad enfatizzare in senso distruttivo ogni minima mancanza commessa da coloro con cui si relaziona, spingendolo alla costruzione di pattern relazionali fondati sulla pretesa, unidirezionali, fortemente utilitaristici, e comunque mai ispirati da velleità donative o di attaccamento.

L’incapacità del narcisista di attaccarsi a qualsiasi oggetto al di là di se stesso si traduce dunque nell’incapacità di costruire stili relazionali volti al riconoscimento dell’altro come oggetto autonomo, degno di esistenza e considerazione affettiva (McWilliams, 1994). L’altro è solo qualcuno da invidiare, in un attacco predatorio grazie al quale il soggetto crederà di confermare la propria percezione esistenziale e di sfuggire alle proprie angosce persecutorie, ma che in realtà servirà soltanto ad accrescere l’intensità delle stesse.

L’invidia impedisce, infine, anche la costruzione una piena gratificazione del Sé. Ed è per questo che, per quanti successi e affermazioni conseguirà, il narcisista non potrà mai sentirsi sicuro e soddisfatto, ma tenderà sempre alla ricerca di un nuovo confronto con soggetti da depredare per colmare il vuoto affettivo – esistenziale che lo devasta. L’invidia diventa così un elemento funzionale alla sopravvivenza del narcisista, il quale, in sua assenza, dubiterebbe dell’esistenza del suo stesso Sé.

L’invidia nel setting terapeutico

Uno degli esiti più negativi della formazione dell’invidia narcisistica è l’impedimento della costruzione della gratitudine, quella capacità che consente al soggetto di riconoscere nell’altro qualcuno da amare e da proteggere e dal quale lasciarsi curare, per riconoscere infine di aver bisogno di lui. Il narcisista al contrario non è capace di prendersi cura del soggetto, né di proteggerlo dai suoi attacchi. La sua valutazione esistenziale è rivolta ad una visione del Sé autoriferita, in cui l’altro non viene mai riconosciuto come un oggetto autonomo, bensì come un oggetto Sé, esistente soltanto nella misura in cui si mostra all’altezza delle idealizzazioni narcisistiche (Klein, 1957). E per quanto bene potrà ricevere da questo oggetto, il narcisista si premurerà di proiettare in lui la propria insoddisfazione esistenziale, facendolo sentire in costante difetto.

La malvagità egosintonica con cui attua questo comportamento è dettata dalla volontà di negare la dipendenza dall’oggetto materno invidiato, che non è mai stata rielaborata in funzione depressiva (Klein, 1957): quindi, anche ove riceverà un favore, il narcisista non potrà mostrarsi grato, o dimostrerebbe di aver avuto necessità dell’oggetto. Allo stesso modo, anche ove avrà bisogno della presenza dell’altro, non potrà mai palesarlo, o finirebbe con l’inficiare l’onnipotenza del Sé (McWilliams, 1994).

Questo aspetto di invidia e negazione di dipendenza dall’oggetto genera difficoltà relazionali in ambito sociale così come in quello terapeutico, nel quale la pulsione distruttiva del narcisista crea una funzione transferale ostativa ad un risultato evolutivo. Anche il terapeuta viene dunque identificato come una fonte da distruggere, più che come uno strumento di conoscenza e contenimento del Sé patologico. L’idea di dipendere da altri risulta intollerabile e l’idea di ammettere di aver ricevuto un beneficio terapeutico viene visto come un affronto al Sé, inammissibile quanto inaccettabile. Anzi, è probabile che il paziente indulga nel negare anche a se stesso, oltre che al terapeuta, ogni possibile miglioramento raggiunto grazie alla terapia, impegnandosi quindi non solo nell’ignorarlo, ma altresì nell’evitarne l’attuazione (McWilliams, 1994)

Ma possiamo dire, del narcisista, che la sua avidità serve solo ad impoverirlo, e dunque è proprio nella negazione della dipendenza che è possibile sperimentare la necessità latente della stessa. Per questo il terapeuta dovrà lavorare sulle resistenze all’attaccamento cercando di aggirarle cautamente, in prospettiva di dotare il paziente di un oggetto buono da interiorizzare e con cui placare le proprie angosce persecutorie (Gabbard, 2015).

Il terapeuta, specie nelle prime fasi della terapia, dovrà tollerare l’inevitabile invidia del paziente che potrà esprimersi attraverso confessioni larvate, fatte sul finire della seduta, quando ormai non possono più essere interpretate né rese oggetto di colloquio. Dovrà tollerare le sue disconferme, le squalifiche sul suo operato, più o meno esplicite, che rappresenteranno in realtà solo il suo timore dell’attaccamento relazionale; dovrà accettare di venir distrutto, annientato dal paziente, che in lui vede una potenziale minaccia alla propria onnipotenza (Horner, 1993).

Freud riteneva che la psicoanalisi non potesse essere attuata con i narcisisti, proprio per l’incapacità degli stessi di costruire un transfert terapeutico (1916). In realtà oggi si tende a credere che, con pazienti di questo tipo, l’apparente assenza di transfert sia essa stessa il transfert (Gabbard, 2015).

La spiegazione è ovvia, se pensiamo che il transfert consiste nella riproduzione terapeutica del rapporto affettivo con gli oggetti primari – dunque con i genitori – e che il disturbo narcisistico ha impedito proprio la costruzione di queste relazioni oggettuali validanti: in base a ciò il paziente non percepisce nel terapeuta la figura riattualizzata del padre o della madre, né la riproduzione del suo rapporto con loro, ma soltanto una mera estensione del Sé, sia quella ipervalutata e idealizzata, sia quella svalutata e oggetto di vergogna (McWilliams, 1994). Il terapeuta deve dunque lasciare che il paziente lo utilizzi come oggetto Sé utile al mantenimento del processo interno dell’autostima, evitando di sentirsi sminuito quando l’invidia narcisistica, per liquidare l’angoscia connessa alla vergogna e all’invidia, verrà diretta su di lui in un’alternanza idealizzata e svalutante: nella consapevolezza che si tratta di proiezioni riferite al Sé del paziente, del quale lui costituisce solo l’oggetto proiettivo (McWilliams, 1994).

Sarà questo il primo passo verso la costruzione di un’autostima autentica e non difensiva, dell’interiorizzazione trasmutante che è risultata deficitaria nell’infanzia (Khout, 1971), ma anche il passaggio indispensabile per svincolare il paziente dai legami libidici maligni e predatori che l’invidia ha generato, potenziato, mantenuto nel tempo.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, S. (1916) Introduzione alla psicoanalisi: Tutte le lezioni, Newton Compton, Milano;
  • Gabbard, G. O. (2015), Introduzione alla psicoterapia psicodinamica, tr. it Raffeallo Cortina , Milano;
  • Horner, A.J. (1993), Relazioni oggettuali: teoria e trattamento, tr.it. Raffaello Cortina , Milano;
  • Kernberg, (1975), Sindromi relazionali e narcisismo patologico, tr.it. Bollati Boringhieri, Torino;
  • Khout, (1971) Narcisismo e analisi del Sé, tr.it. Bollati Boringhieri, Torino;
  • Klein, M. (1928) Invidia e Gratitudine, Tr. it Giunti Editore, Firenze;
  • McWilliams, N. (1994) La diagnosi Psicoanalitica, tr.it. Astrolabio, Roma, 2012;
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