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Fase 2 e fine del lockdown: considerazioni sugli aspetti psicologici

Quali ripercussioni avrà la fase 2 di gestione dell’epidemia sulla vita relazionale e psicologica? A cosa potremmo assistere con la fine del lockdown?

Di Andrea Cappabianca

Pubblicato il 05 Mag. 2020

Il presente contributo è stato scritto prima dell’inizio della fase 2 legata all’emergenza da Covid-19

L’attuale andamento dell’epidemia da Covid-19 porta i soggetti istituzionali e i cittadini ad interrogarsi su come gestire l’inizio della fase 2, previsto per la giornata del 4 maggio, e la tanto attesa fine del lockdown

 

Si sa ancora poco sulla ripresa e, per adesso, è possibile solo spingersi in previsioni più o meno realistiche, ma sembra chiaro che fino alla creazione di un vaccino o di una terapia efficace l’idea di prudenza sarà al centro delle nostre giornate. Viste le molte incertezze viene spontaneo domandarsi quali saranno, a livello psicologico, gli elementi caratterizzanti il graduale quanto atteso ritorno alla vita.

Se fino ad oggi abbiamo conosciuto le emozioni dell’isolamento, seppur intervallato da veloci uscite nel mondo esterno, a breve scopriremo cosa significa convivere con l’epidemia e, probabilmente, vedremo che il confine dentro/fuori segnato dalla porta di casa sarà sempre più sfumato. Durante il lockdown abbiamo vissuto da vicino il vuoto, la noia, abbiamo sperimentato una convivenza non intervallata da attività lavorative o extrafamiliari, in una situazione che ha fatto da cassa di risonanza a emozioni spiacevoli. Tutto sommato, però, abbiamo goduto di una certa sensazione di sicurezza. Con la Fase 2, invece, il vissuto emotivo dominante potrebbe essere diverso.

Partiamo dalla paura, l’emozione vissuta in relazione ad una minaccia all’incolumità, che stimola uno stato di attivazione psicologica e fisica funzionale alla risposta difensiva. Tale stato di attivazione è fondamentale, perché permette di mantenere un elevato livello di attenzione, una migliore prontezza dei muscoli, minore percezione del dolore e così via (D’urso e Trentin, 2007). Ma è uno stato di tensione abbastanza faticoso da mantenere per troppo tempo e per fortuna, passata la minaccia, scampato il pericolo, il corpo va incontro a un graduale rilassamento (Plutchick, 1994). E’ la sensazione di sollievo che, ad esempio, in questo periodo abbiamo provato al rientro a casa, posando finalmente lo scudo e liberandoci delle fastidiose mascherine.

Se la paura è vissuta in relazione a una minaccia, in questo momento storico quella principale è rappresentata dal nuovo coronavirus, che veste i panni dell’altro, indistintamente: il passante, il collega, il coniuge. E’ una minaccia difficile da confinare perché mancano i cosiddetti segnali di pericolo, quegli elementi che permettono al nostro cervello di capire quando prestare attenzione e quando, invece, rilassarsi, col rischio di vivere in un costante stato di tensione emotiva.

Nel prossimo futuro torneremo progressivamente a calcare le strade e, sebbene eviteremo assembramenti e strette di mano, saremo comunque immersi in un contesto sociale più partecipato, con città più frequentate in cui sarà inevitabile stabilire un maggior numero di contatti. Guadagneremo spazi di libertà a scapito della percezione di sicurezza. Il più frequente passaggio tra il fuori del mondo esterno e il dentro della nostra abitazione renderà più complicato delimitare il pericolo e la casa potrebbe perdere la sua importante funzione di “base sicura”. Se fino ad oggi hanno assunto un colore diverso i rapporti con il vicinato, possiamo aspettarci che accadrà qualcosa di simile anche nelle relazioni familiari. Cosa significherà sentirsi un potenziale veicolo di contagio per la propria famiglia? Cosa significherà tossire in stanza con i bambini? Lo sanno bene i lavoratori della sanità, che sono stati i primi a vivere da vicino una condizione difficilissima.

Come per l’isolamento, le emozioni possibili di questo nuovo modo di vivere nel mondo richiamano alla mente quelle caratteristiche di alcune psicopatologie. Pensiamo, ad esempio, ai disturbi da sintomi somatici, ai disturbi d’ansia, per arrivare alla dimensione del costante sospetto della personalità paranoide (DSM 5, 2013). Si tratta di condizioni cliniche, ma possiamo immaginare che il non sapere di essere sani o malati possa rendere ancor più sfumati anche i rassicuranti confini tra salute e patologia psichica, proprio a causa della maggiore esposizione ad angoscia e squilibri affettivi.

In questo difficile adattamento cui siamo tutti chiamati, basteranno il distanziamento sociale, le mascherine e il lavaggio delle mani, a tutelare spazi – intra ed extrapsichici – di sicurezza? Forse, ora più che mai, sarà fondamentale sforzarsi di mantenere una certa centratura, tenendo ben presente il limite oltre il quale la prudenza sconfina nel territorio dell’ansia, che può portare ad atteggiamenti davvero poco utili a proteggersi dall’infezione. Alcuni hanno utilizzato il termine resilienza, che dovrà sicuramente continuare ad essere sviluppata.

In conclusione, se fino ad ora abbiamo familiarizzato con i vissuti di un sicuro isolamento, a breve potremmo confrontarci con delle nuove forme di malessere a cui sarà necessario dare risposte adeguate. Tali questioni mettono ancora una volta al centro la necessità di prestare maggiore attenzione ai bisogni psicologici dei cittadini, abbandonando l’artificiosa distinzione tra salute del corpo e salute mentale.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-5). American Psychiatric Pub.
  • D'urso, V., & Trentin, R. (2007). Introduzione alla psicologia delle emozioni. Roma. Laterza.
  • Plutchik, R., (1994). Psicologia e psicobiologia delle emozioni. Torino. Bollati Boringhieri. 1995.
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