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Contagi biologici e contagi psicologici

L'umanità si confronta con una malattia contagiosa con significativa morbilità e mortalità come il coronavirus accompagnata da elevata paura del contagio

Di Paolo Azzone

Pubblicato il 21 Mag. 2020

Senza dubbio il coronavirus ha determinato una trasformazione culturale senza precedenti. La misure di contenimento dell’epidemia per ridurre il contagio impongono una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia.

 

Qui chi non terrorizza
Si ammala di terrore …

(Fabrizio de André, Il Bombarolo)

 

La pratica clinica della psichiatria territoriale mi ha spesso portato a contatto con pazienti molto preoccupati per le malattie contagiose. In questi casi il lavaggio delle mani diventa un rituale defatigante, le disinfezioni di luoghi od ambienti occupano via via gran parte della giornata, ma la serenità non ritorna, la sicurezza sfugge, le energie profuse si esauriscono senza offrire alcun conforto. Il partner, i familiari, spesso anche il paziente stesso, avvertono le pratiche di purificazione come ridondanti ed assurde e chiedono aiuto. La società ed il sistema sanitario offrono risorse professionali. Una costellazione emotiva (contagio/infezione/purificazione) viene configurandosi su un piano culturale e scientifico come un comportamento irragionevole, manifestazione di una implicita follia. Le diagnosi formulate dai clinici includono senza dubbio quelle di fobia e di ipocondria.

In questo senso le società occidentali moderne si differenziano dalle civiltà primitive o semplicemente arcaiche dove il contatto con determinate oggetti, situazioni o membri della società (il tabù degli antropologi, cfr. Douglas 1966) comportava un pericolo strettamente rituale. Ad esempio nella cultura indiana il contagio rituale è incardinato alla gerarchie delle caste. Qualsiasi contatto con le caste inferiori produce una inevitabile e pericolosa impurità.

Nel corso della storia europea la rappresentazione culturale dell’impurità si è modificata profondamente. Il cristianesimo medioevale la ha riformulata prevalentemente nei termini di contatto sessuale impuro. L’acqua delle antiche purificazioni è stata sostituita dai riti della penitenza, non raramente caratterizzati da altrettanto evidenti componenti magiche e da un carattere di coattività.

Le malattie epidemiche hanno inevitabilmente attivato periodici processi di regressione. La paura del contagio promosso da ipotetici untori si è periodicamente sostituita alla interazione sessuale come paradigma della minaccia.

Oggi, appunto, l’umanità si confronta di nuovo, dopo vari decenni, con una malattia contagiosa gravata da significativa morbilità e mortalità, soprattutto nei soggetti anziani. E la paura cresce senza sosta. Epidemiologi, opinione pubblica, media e governo e si rincorrono chiedendo provvedimenti sempre più restrittivi della libertà personale. Cresce l’ostilità tra i cittadini. Anziane pensionate non mancano di apostrofare i rari passanti, agguerrite commesse dettano precise disposizioni igieniche a consumatori attoniti, cittadini zelanti denunciano alle forze dell’ordine ogni ipotetica violazione delle prescrizioni governative, mentre i giovani più dotati di competenze informatiche non esitano ad esporre alla gogna mediatica innocenti runner o bambini indisciplinati.

Senza dubbio l’agente della SARS covid-19 ha determinato una trasformazione culturale senza precedenti. La misure di contenimento dell’epidemia impongono una rarefazione delle relazioni umane che non ha precedenti nella nostra storia. I problemi sociali ed economici che attanagliano il nostro paese sono pressoché scomparsi dal dibattito politico, mentre la ricchezza pubblica è stata profusa senza risparmio nel tentativo, peraltro non riuscito, di arrestare il progredire della pandemia. Come ha osservato il noto filosofo della politica Giorgio Agamben (2018), l’epidemia da coronavirus ha rapidamente configurato uno stato di eccezione di fronte al quale le stesse garanzie costituzionali sono apparse come assolutamente irrilevanti, preoccupazioni superflue per giuristi perditempo.

Libertà, giustizia sociale, esperienza religiosa – i principi guida attorno a cui si è organizzata la nostra costituzione e per i quali sono stati versati fiumi di sangue  – hanno perso improvvisamente qualsiasi importanza. La paura ha assunto una centralità assoluta nell’immaginario collettivo della società contemporanea. Si è rapidamente affermata l’idea che tutta la struttura sociale e l’organizzazione economica debbano essere riorganizzate esclusivamente in funzione del controllo del contagio.

Come nelle società primitive, contatto, contagio e terrore sono ritornati al centro dell’immaginario collettivo. Le angosce ipocondriache sono traboccate dal recesso in cui il pensiero moderno le aveva relegate. Le parti fobiche e ipocondriache della personalità hanno preso il controllo della cultura contemporanea. Così, nelle società avanzate del XXI secolo la follia diviene pensiero ufficiale, anzi pensiero unico, e inquietanti guardiani della rivoluzione esigono dagli organi della pubblica sicurezza scrupolosi interventi censori su ogni forma di dissenso.

Cosa è successo all’uomo contemporaneo? Come può un’intera società ammalarsi di paura? Gli studi e le esperienze di Wilfred Bion (1961) durante la Seconda Guerra Mondiale hanno illuminato in modo straordinariamente originale i comportamenti regressivi nei gruppi. Quando un gruppo attraversa un momento di difficoltà ed impotenza regredisce a modalità di funzionamento primitive in cui lo scambio emotivo e la ricerca della verità sono sostituti da pregiudizi e imperativi categorici. Sotto questo punto di vista l’invasione dello spazio sociale da parte di un irresistibile sentimento di paura può essere associato nella terminologia di Bion all’assunto di base di attacco e fuga, in cui le fantasie inconsce condivise nel gruppo sono annichilite da un generale sentimento di minaccia.

Nelle viscere della società contemporanea si cela dunque un pericolo enigmatico ed inquietante. Cosa terrorizza l’uomo moderno? Perché minacce socialmente altrettanto o forse ancor più gravi, come il terrorismo, l’inquinamento atmosferico od il cancro non hanno un impatto sulla vita emotiva delle collettività minimamente paragonabile con quella di una malattia infettiva? Quale oscura risonanza può evocare un virus respiratorio nell’immaginario occidentale?

Per rispondere a queste domande occorre anzitutto ricordare che il moderno si è costituito attorno ad una ben precisa opzione epistemologica. L’adozione ormai plebiscitaria di un materialismo estremo ha comportato una evidente sottovalutazione delle esperienze emotive e del loro ruolo nelle società umane e nella vita degli individui. In particolare il dolore connesso con le esperienze di separazione è stato ed è oggetto di una negazione particolarmente accanita.

Ora, il ciclo della vita comporta un inevitabile carico di dolore emotivo. La crescita implica più o meno traumatiche separazioni. L’invecchiamento compromettere i ruoli familiari e sociali degli adulti. Anche nella società iper medicalizzata degli antibiotici, dei vaccini e dei trapianti, la malattia e la morte restano implicite nella condizione umana, lasciano una inevitabile scia di sofferenza nella famiglia e nella comunità.

Proprio attorno a queste esperienze di lutto e separazione la cultura contemporanea ha tentato di costruire un muro impenetrabile, ricorrendo a massicci meccanismi di negazione. Ha isolato e sterilizzato la morte dentro contenitori ospedalieri. Ha nascosto i cadaveri in remoti forni crematori. Quanto queste strutture culturali abbiano avuto un notevole impatto sulle misure di contenimento del coronavirus è attualmente sotto gli occhi tutti. Del resto il distanziamento tra le generazioni, ma anche all’interno della coppia, che caratterizza in modo così evidente la società contemporanea, è iniziato molto prima che i virologi evocassero lo spettro del contagio intrafamiliare.

La progressiva e ormai definitiva affermazione della famiglia nucleare e il diffondersi del modello celibatario permanente riflettono la paura e il disagio nei confronti delle relazioni interpersonali intense e rappresentano una risposta estrema ai conflitti interpersonali e coniugali.

Eppure non è possibile alcuna interazione umana senza un significativo scambio di emozioni: gioie ma soprattutto dolori. I contatti che avvengono nella coppia e nella famiglia, non trasmettono solo virus, ma anche un inevitabile carico di ansia, dolore, tensioni, conflitti e  paure. Ecco il contagio che atterrisce veramente l’uomo contemporaneo: le emozioni che si generano nell’interazione interpersonale.

Ma da questo contagio non può difenderci nessuna, per quanto accurata, misura di sicurezza, nessuna mascherina chirurgica o con valvola. Dalla fatica delle relazioni interpersonali può liberarci definitivamente solo la solitudine. O la morte.

 

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Paolo Azzone
Paolo Azzone

Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicoanalista

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Agamben G. (2018) Homo sacer (1995-2015) Edizione integrale. Quodlibet, Macerata.
  • Bion W.R. (1961) Experiences in Groups and Other Papers. Tavistock, Londra. Tr. it. (1971) Esperienze nei gruppi. Armando, Roma.
  • Douglas M. (1966) Purity and Danger: An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo. Routledge and Keegan Paul, Abingdon-on-Thames. Tr. it. (1975) Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di contaminazione e tabù. Il Mulino, Bologna .
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