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Aspetti psicologici e esperienze di cura nella maternità omogenitoriale delle donne lesbiche con l’utilizzo delle nuove tecnologie riproduttive

Un'analisi del vissuto psicologico delle donne nei casi di omogenitorialità in cui la coppia sceglie la fecondazione assistita e l’inseminazione artificiale

Di Jessica Anselmi

Pubblicato il 27 Mar. 2020

Aggiornato il 30 Giu. 2022 17:47

Gli studi condotti sulla omogenitorialità si sono focalizzati principalmente sulle abilità genitoriali e il benessere psicologico dei bambini (APA, 2005; Short et al., 2007). Ciò su cui invece si è poco discusso, sebbene ci sia stato un aumento degli studi che si concentrano sulla popolazione LGBTQ, è la comunità lesbica, che rimane abbastanza invisibile nella ricerca, soprattutto rispetto alla popolazione maschile gay (Marques et al., 2015) e del processo per diventare madri per le donne omosessuali (Chapman et al., 2012).

Jessica Anselmi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi,San Benedetto del Tronto

 

Per quanto riguarda le donne lesbiche e i loro partner, il processo per diventare ‘madri’ è un viaggio complesso che evidenzia anche idee che sarebbero da mettere in pratica per effettuare delle modifiche al sistema sanitario, necessarie per sostenere e curare al meglio le donne lesbiche mentre pianificano la maternità, sperimentano la gravidanza e diventano genitori (Gregg, 2018).

La messa al mondo di un figlio è sempre stata considerata l’esito di un rapporto sessuale, considerato unica condizione necessaria per la procreazione e le categorie di omosessualità e di famiglia sono sempre state considerate come incompatibili fra loro. Fino a poco tempo fa le persone omosessuali che volevano diventare genitori si sposavano, ma attraverso un matrimonio eterosessuale, in quanto era l’unica strada possibile. Il progresso scientifico, ma anche politico e sociale, ha aperto nuove strade, alle persone lesbiche e gay per diventare genitori. Vi sono però alcuni fattori che possono influire sulle decisioni delle minoranze, sul se e come diventare genitori; ma ci sono anche alcune caratteristiche e difficoltà associate alle principali vie da seguire per diventare genitori come la fecondazione alternativa e l’inseminazione artificiale, l’adozione e la maternità surrogata (Goldberg, 2015). In questo articolo ci occuperemo principalmente delle prime alternative sopra citate.

Uno degli ostacoli più importanti che devono affrontare le persone omosessuali quando considerano di diventare genitori è l’omofobia interiorizzata (Gianino, 2008).

Vivendo e crescendo in una società eterosessista, le minoranze sessuali spesso interiorizzano una serie di idee, quali ad esempio l’idea che l’omosessualità sia contro natura o che lesbiche e gay non siano adatti a fare i genitori, differentemente dalle persone eterosessuali, o ancora che ogni bambino necessiti di una madre e di un padre (idee disconfermate da diversi studi e ricerche).

Un altro ostacolo è sicuramente la collocazione geografica e la mancanza di risorse: coloro i quali hanno residenza in zone rurali, distanti dalle grandi aeree metropolitane, o particolarmente conservatrici, non godono di un rapido accesso a una comunità gay visibile e affermata (Osward e Culton, 2003) e possono incontrare difficoltà a trovare risorse rivolte in modo specifico ai genitori omosessuali. Inoltre, la posizione geografica in cui vivono può essere un ostacolo alla genitorialità condivisa, a cause delle leggi sulle adozioni.

Bisogna anche ricordare che sono persone che lottano spesso con la mancanza di supporto dalle loro famiglie e che vengono maggiormente riconosciute dai propri familiari se la scelta di diventare genitore avviene attraverso la fecondazione assistita piuttosto che attraverso l’adozione, in quanto viene riconosciuto un legame biogenetico.

Le persone omosessuali hanno per fortuna la possibilità di incontrare quelli che Goldberg (2010) definisce punti di svolta, ovvero persone omosessuali che hanno sperimentato la genitorialità, entrare in contatto con i figli di altre persone, un aumento di consapevolezza del desiderio di diventare genitori, e l’incontro con il partner giusto.

Una volta deciso che il viaggio verso la genitorialità può essere intrapreso e la scelta si orienta verso la fecondazione assistita e l’inseminazione artificiale, gli aspetti da considerare sono diversi. Innanzitutto nella coppia inizia il negoziato su chi avrà il ruolo di genitore biologico, quindi chi verrà fecondato. Questa decisione di solito è influenzata dall’età, dal desiderio di provare la gravidanza, dalla posizione e sicurezza lavorativa e dalla salute riproduttiva (Bos et al., 2003, 2004; Renaud, 2007). Molte donne esprimono il desiderio di un legame genetico con i loro figli ed è questa la ragione principale che le porta a perseguire la maternità biologica invece di considerare l’adozione (Goldberg & Scheib, 2015). Quando entrambe le donne della coppia sono le giuste candidate per la fecondazione, il processo decisionale risulta più difficile e le coppie tendono a discutere e a negoziare più a lungo sulla scelta. Da uno studio su 95 coppie lesbiche belghe che si erano rivolte ai servizi, nel 14% dei casi quest’ultime volevano restare incinta entrambe mentre nel 86% soltanto una (Baetens, Camus e Devroey, 2002). Nei casi in cui entrambe le partner della coppia vogliano provare la maternità, di solito si decide che la prima a provare sia la più anziana.

La coppia è anche implicata nel processo di scelta dello sperma del donatore. La decisione innanzitutto è legata alla questione del donatore: se debba essere conosciuto o sconosciuto. Goldberg (2006) ha condotto uno studio su un gruppo di donne lesbiche incinte, riscontrando che nel 59% dei casi la loro scelta era ricaduta su un donatore sconosciuto, per il 31% su un donatore conosciuto e per il restante 10% su un donatore detto ‘ID realease o yes’, ovvero una persona che poteva essere contattata al raggiungimento dei 18 anni da parte del bambino. Emerge come di solito la scelta di un donatore sconosciuto veniva fatta per evitare problemi legali, per far sì che il donatore non esercitasse il suo diritto alla paternità. Questa scelta è spesso voluta dalle madri non biologiche per evitare di sentire minacciato il proprio ruolo di cogenitore mentre altre volte avviene perché non si hanno amici o confidenti che possano rivestire il ruolo di donatore. La scelta invece ricade su un donatore conosciuto quando si vuole che il figlio sappia chi è il padre biologico e possa anche avere contatti con lui; altre volte per avere maggiore controllo sul processo di fecondazione o per evitare di interagire con istituzioni eterosessite; altre per ragioni di salute, qualora ne avessero bisogno, soprattutto nei casi di fattori di rischio genetico. Altre volte la scelta ricade su un donatore conosciuto ma gay perché si pensa che possa essere un modello maschile migliore di uno eterosessuale, per una funzione di ‘liberazione dai ruoli’, altre perché si pensa che altrimenti i propri amici gay non avrebbero la possibilità di sperimentarsi come genitori (Goldberg, 2015).

Le coppie lesbiche devono anche decidere quali devono essere le caratteristiche del donatore, così come avviene per le coppie eterosessuali. La scelta in questo caso ricade su una somiglianza fisica tra il donatore e la madre non biologica, per facilitare la riproduzione ‘della loro immagine’. Si cercano donatori con il colore dei capelli e degli occhi simili alla madre non biologica, ma anche per etnia e talvolta per orientamento religioso; vengono considerate anche la storia clinica, l’istruzione, l’intelligenza, il talento e gli interessi del donatore (Goldberg, 2015). Inoltre, la maggior parte delle coppie lesbiche, come si accennava sopra, sperimenta oneri finanziari associati al processo di inseminazione e alcune, anche se meno negli ultimi tempi, difficoltà nell’accesso ai servizi di inseminazione (McManus et al., 2005; Renaud, 2007).

I costi della fecondazione assistita sono notevoli e possono variare da centinaia a molte migliaia di dollari o euro e dipende dagli interventi necessari affinché la gravidanza si verifichi. La copertura assicurativa per i trattamenti di fertilità varia ampiamente, anche per le coppie eterosessuali. Quindi, per affrontare questa scelta, le madri devono essere economicamente stabili (anche prospere) in modo da finanziare il costoso processo per mettere al mondo una nuova vita e costruire una famiglia (Goldberg e Scheib, 2015, p. 726).

Un altro punto da affrontare sono sicuramente gli stigmi all’interno del sistema sanitario. In tutti gli studi esaminati, i ricercatori hanno riferito che le donne lesbiche in cerca di assistenza per la fecondazione assistita hanno sperimentato una certa dose di eteronormatività o omofobia durante gli incontri con il personale sanitario. Hayman et al. (2013) hanno riconosciuto quattro tipi di omofobia overt e covert sperimentati dai loro partecipanti, tra cui esclusione, assunzione eterosessista, domande inappropriate e rifiuto da parte dei servizi. Una forma di esclusione viene vista nell’incidenza di esclusione eteronormativa, in cui vengono escluse le madri non biologiche dalle cure a causa del loro genere (Malmquist & Nelson, 2014). Esempi di ciò sono dati dal fatto che il personale sanitario spesso chiede informazioni sul padre e nel mentre si riferisce alla partner della madre biologica come a sua sorella o un’amica e viene vietato alla madre non biologica l’accesso alla stanza di ricovero (nonostante ai partner maschi sia permesso in quanto visti come persone di sostegno per le neo mamme). Queste situazioni hanno portato a sentimenti di delegittimazione come genitore per le madri non biologiche (Chapman et al., 2012; Hayman et al., 2013). Le partecipanti agli studi hanno riferito che questa mancanza di competenza culturale e sociale da parte del professionista le faceva sentire imbarazzate o ‘scomode’; ciò provocava un particolare vissuto emotivo per le madri non biologiche, che spesso si sentivano come se dovessero combattere per essere viste come i reali genitori (Wojnar e Katzenmeyer, 2014). Tuttavia, in molti casi, le persone che hanno prestato assistenza sono state rispettose e comprensive, nonostante i sistemi eteronormativi (Malmquist e Nelson, 2014). Diversi studi fanno riferimento a come il personale sanitario faccia delle domande che vengono percepite come eccessivamente inquisitrici sull’orientamento sessuale e non collegate alla cura. Sebbene queste domande siano giudicate come non intenzionalmente dannose e dettate dalla sincera curiosità piuttosto che dalla malizia, le partecipanti hanno riferito di sentirsi a disagio a causa delle stesse. Röndahl et al. (2009) affermano che il personale sanitario che aveva prestato assistenza alla maternità delle madri lesbiche e che era stato ben informato sui problemi LGBTQ, trattava tali madri in modo più neutrale e forniva un senso di sicurezza alle stesse. Tuttavia, gli autori affermano che anche quando le partecipanti hanno esperienze positive delle cure, loro credono che ci sia lo stesso un ‘eccesso di attenzione al loro orientamento sessuale’ (Röndahl et al., 2009).

Infine, alcune donne hanno sperimentato l’omofobia venendo rifiutate dai servizi. Una coppia ha denunciato il rifiuto da parte di due ospedali che avevano affermato che per loro ‘non era etico assistere una donna single in quanto le coppie dello stesso sesso non vengono riconosciute come una coppia’ (Hayman et al., 2013). Un’altra partecipante ha riferito che le sue ostetriche non erano d’aiuto nell’educazione all’allattamento al seno o all’assistenza postpartum (ad esempio nella pulizia del perineo), perché le ostetriche erano ‘riluttanti a impegnarsi in aree intime del corpo [della partecipante] a causa del suo orientamento sessuale’ (Lee, Taylor, & Raitt, 2011). Più autori hanno notato la necessità di migliorare l’assistenza sanitaria affinché sia più competente, sensibile e priva di discriminazioni. Lee et al. (2011) hanno riconosciuto che la gravidanza è un periodo in cui si ricerca fiducia nella relazione con il personale sanitario in quanto fondamentale. Molte partecipanti hanno espresso il desiderio che la maternità sia vissuta in egual maniera alle coppie eterosessuali, ma anche su misura per le loro esigenze specifiche (Malmquist & Nelson, 2014). In definitiva, la cura fornita deve essere centrata sulla donna, indipendentemente dalla donna coinvolta (Lee et al., 2011)

In Italia la situazione è ben diversa: possono fare ricorso alle tecniche di fecondazione assistita solo persone coniugate o coppie di fatto (quindi esclusivamente eterosessuali) e possono adottare solo persone coniugate (quindi eterosessuali, nonostante esistano le unioni civili). A differenza di ciò che accade in altre parti del mondo, le coppie omosessuali in Italia non sono riconosciute come famiglia e non sono legittimate ad avere figli, anche se oltre il 49% vorrebbe poter adottare un bambino.

Le ricerche condotte sull’esperienza delle donne lesbiche che diventano madri, sono state effettuate solo in alcuni paesi selezionati (tra cui Norvegia, Svezia, Regno Unito, Australia, Portogallo e Stati Uniti). I risultati potrebbero quindi non essere generalizzabili ad altre aree del mondo, come in altri paesi che sono simili in termini di politiche liberali, giustizia sociale e status di sviluppo economico. Inoltre, a causa della natura invisibile della popolazione, i campioni di studio utilizzati sono stati trovati principalmente utilizzando metodi a palla di neve o passaparola. Di conseguenza, i campioni non sono casuali e non sono generalizzabili.

A causa dei limiti e delle difficoltà sopra descritte, le ricerche che hanno esaminato la transizione all’esperienza della genitorialità nelle coppie di lesbiche e gay sono pochissime e quelle che vi sono risentono di molti limiti. Ad esempio non vi sono ricerche sulla transizione alla genitorialità nelle persone bisessuali o transgender e le ricerche si sono focalizzate in gran parte sulle esperienze di coppie bianche lesbiche, relativamente benestanti, che hanno fatto ricorso all’inseminazione. Quindi non vi sono dati esaustivi sul vissuto psicologico nel passaggio alla genitorialità per le coppie lesbiche.

Gartrell e colleghi (1996) sono fra i pochi ad aver condotto uno studio longitudinale sulla transizione alla genitorialità nelle coppie lesbiche. Le madri, prevalentemente donne bianche e di ceto medio, sono state dapprima intervistate nella fase dell’inseminazione o della gravidanza (per la maggior parte era la prima gravidanza) e in questa fase circa il 78% delle donne si aspettava che almeno alcuni parenti avrebbero accettato il bambino. Questo dato è stato confermato dopo la nascita dei figli, in quanto la maggior parte delle stesse si sentiva sostenuta e anzi la nascita del figlio aveva anche portato ad una maggiore vicinanza familiare, dato quest’ultimo riscontrato soprattutto dalle madri biologiche, rispetto alle madri non biologiche.

È stato notato anche come la transizione alla genitorialità mettesse in moto dei cambiamenti anche nella struttura amicale. Sempre Gartrell e colleghi (1996), intervistando le stesse madri, affermarono che il 38% delle stesse considerava i propri amici come una famiglia allargata, ma il 25% riteneva invece di aver perso alcuni amici intimi, soprattutto donne senza figli. È pur vero che tendenzialmente sono gli stessi genitori omosessuali a dichiarare di avere più affinità con gli altri genitori eterosessuali che non con molti dei loro amici gay senza figli. Un altro aspetto che può mutare con la transizione alla genitorialità è la suddivisione del lavoro. Nelle coppie eterosessuali ciò viene tendenzialmente determinato dal genere e quindi dalla classica suddivisione dei ruoli, nelle coppie di donne lesbiche può avvenire la stessa cosa, non sulla base del genere, ma sulla base di chi porta avanti la gravidanza: quest’ultima si dedica al lavoro non retribuito in famiglia, mentre la seconda al lavoro retribuito. Questa differenziazione può però essere vissuta difficilmente da quelle coppie che danno molta importanza all’uguaglianza e alla parità di potere nelle loro relazioni. In generale, le madri non biologiche cercano di dedicare lo stesso buona parte del loro tempo alla cura del figlio (riservandosi il momento della nutrizione e del bagnetto), anche per rimediare alla differenza biologica e alla mancanza di quel legame che si viene ad instaurare durante l’allattamento al seno, proprio perché alcune di loro riferiscono di provare sentimenti di gelosia e di esclusione (Gartrell et al.,1999).

Goldberg e Sayer (2006), nel loro studio sulla transizione alla genitorialità nel quale veniva esaminata la relazione delle coppie lesbiche ricorse all’inseminazione, hanno scoperto che, un po’ come avviene per le coppie eterosessuali, emergono difficoltà e aumenta la frequenza dei conflitti (Goldberg, 2015). In particolare le donne che avevano una personalità nevrotica, tendevano ad avere un peggioramento, deteriorando la qualità della relazione. Le madri non biologiche, invece, sentivano di avere poco sostegno da parte della famiglia della partner, quindi della madre biologica, e a volte anche una certa invadenza, quasi come a volerle escludere dal ruolo genitoriale.

In un altro studio (Goldberg e Smith, 2008), avvenuto in tre rilevazioni temporali (nell’ultimo trimestre della gravidanza, tre mesi dopo la nascita del bambino e tre anni dopo), gli autori hanno cercato di stabilire se il temperamento del bambino, la qualità della relazione, la suddivisione del lavoro e il sostegno extra-familiare fossero correlati all’andamento dell’ansia sia nelle madri biologiche che in quelle non biologiche. Ciò che si è scoperto è che mediamente l’ansia tendeva ad aumentare in tutte le madri, ma specialmente in quelle biologiche, durante il periodo di transizione, e si avvicinava al livello clinico ai tre anni dalla nascita. Questo dato non era però associabile a nessuno dei fattori presi in considerazione. Invece, per quanto riguarda le madri non biologiche, quelle che sperimentavano un maggior incremento di ansia erano coloro che, prima della nascita, percepivano livelli elevati di supporto sociale esterno di tipo strumentale (persone che potevano accudire il bambino) e quelle che, dopo la nascita del bambino, giudicavano difficile il temperamento dello stesso. Probabilmente questo è dovuto al fatto che sono coloro che passano più tempo fuori casa per lavoro e quindi percepiscono più forte il bisogno di persone che possano aiutarle o che possano avere un’influenza in un loro minore coinvolgimento nella cura dei figli. Inoltre, partecipando meno alla cura dei figli, è possibile che siano più sensibili ai loro comportamenti negativi e ne risentano maggiormente.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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