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Netnografia e data storytelling, alla ricerca delle nostre tracce digitali – Psicologia Digitale

Netnografia, una ‘forma di voyeurismo” molto utile per lo studio di fenomeni difficili da esaminare dal vivo come quelli caratterizzati da stigma sociale

Di Chiara Cilardo

Pubblicato il 07 Feb. 2020

Aggiornato il 11 Nov. 2020 14:22

I dati non sono niente se non li sai leggere e se non raccontano una storia. Le informazioni provenienti dal web, in particolare, hanno un grande potere persuasivo e vengono visti dai ricercatori come storie nuove e nuovi modi di coglierle. Un efficace metodo di ricerca qualitativo è la netnografia, flessibile a seconda delle esigenze e applicabile a molti campi.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 6) Netnografia e data storytelling, alla ricerca delle nostre tracce digitali

 

Nel 2011 Andrew Keen in un ormai storico intervento alla Next Conference a Berlino definì l’enorme mole di dati presenti online come “il nuovo petrolio”. L’imprenditore si riferiva ai dati personali di cui le grandi aziende tech come Google e Facebook fanno un uso a fini commerciali non sempre trasparente nei confronti degli utenti.

Nove anni dopo abbiamo nuove consapevolezze e soprattutto nuove normative (ePrivacy, GDPR), nel tentativo di tutelarci. Molto ci sarebbe da dire a riguardo, ma siamo sicuri che questa grande mole di dati abbia solo un impatto negativo?

La netnografia: cos’è

La netnografia è una metodologia di ricerca qualitativa che adatta le tecniche dell’etnografia agli ambienti virtuali come blog, videocast, podcast, social network (Kozinets, 2010; 2015). E’ un metodo flessibile poiché è combinabile con altre metodologie di ricerca, può focalizzarsi su ricerche brevi su una singola comunità online oppure durare anni e fare indagini su più comunità; inoltre si avvale di diversi strumenti come video, immagini, suoni, testi. Si basa su procedure e analisi specifiche applicabili ad un ampio spettro di contesti e di livelli di coinvolgimento dei ricercatori. Gli studi netnografici possono essere non partecipativi e sono detti passivi perché il ricercatore si limita all’osservazione, il lurking.

Un lurker è chi è presente in una comunità virtuale, come un forum o un social network, senza partecipare attivamente, né interagendo né pubblicando contenuti. A volte i lurker rimangono ‘dietro le quinte’, in altri casi dopo un periodo di ‘mutismo’ decidono di prendere parte attiva nella comunità o altre volte ancora manifestano la loro presenza con qualche messaggio/post, anche se di rado. Il termine comunque non ha una connotazione negativa e, anzi, in alcune community questo comportamento viene ritenuto adeguato e auspicabile perché indica che un nuovo utente si prende del tempo per ambientarsi e fare proprie le ‘regole’ del luogo, questo soprattutto in comunità ristrette come forum.

Nel caso in cui il ricercatore sia attivo lo studio viene detto partecipativo; in quest’ultimo caso gli accademici parlano di ‘netnographic slog’ (Wallace et al, 2018) ad indicare quanto sia impegnativo poi per il ricercatore convincere e incoraggiare la partecipazione degli utenti alla ricerca.

Netnografia: principali campi di applicazione

Questa metodologia viene utilizzata in diversi campi come marketing e consumer research, istruzione, scienze dell’informazione, psicologia, sociologia, antropologia. Kozinets, sociologo e marketer a cui si deve la prima definizione di netnografia, la definisce una ‘forma di voyeurismo” dato che è molto utile per lo studio di fenomeni difficili da esaminare dal vivo perché nascosti in quanto oggetto di stigma sociale, come nel caso di gruppi emarginati o a rischio.

Più che delimitarne l’uso a seconda del settore di applicazione, è lo scopo della ricerca a fare la differenza. In effetti, spesso netnografia, etnografia digitale e antropologia digitale vengono accomunati come fossero sinonimi. Ma mentre le ultime due trattano il mondo digitale solo come un luogo in cui estendere la raccolta di dati offline senza che mutino scopi e metodologie, la netnografia si occupa di comunicazione e interazioni online al fine di trovare la storia emotiva dietro un argomento. E per trovare la storia emotiva l’analisi dei big data viene spesso utilizzata come tecnica complementare, di solito nelle fasi iniziali della ricerca.

Data storytelling e data visualization: cosa sono e come utilizzarli

Con data storytelling si intende il ‘raccontare una storia attraverso i dati’; consiste nell’analizzare grandi moli di dati e identificare relazioni significative tra loro. Perciò, in un certo senso è come ‘far parlare i numeri’ come in una narrazione per guidare il nostro interlocutore a delle scelte basate sui dati, data driven appunto.

Perché un data storytelling sia efficace, così come qualsiasi narrazione, è necessario che racconti una storia. Il modo migliore, quello più chiaro, efficace ed immediato, è la data visualization, ovvero l’utilizzo di immagini per raccontare e rendere i dati più accessibili e comprensibili rappresentandoli con grafici e altri strumenti visivi. E’ un ottimo strumento per semplificare la trasmissione delle informazioni che si ritengono rilevanti: la percezione e l’elaborazione visive sono efficaci nel rilevare nell’immediato i cambiamenti e fare confronti tra quantità, dimensioni, forme e variazioni.

Ogni marketer lo sa: i dati non sono niente se non li sai leggere. E se non raccontano una storia. Quello che gli interessa è il loro potere di persuasione, raccontare per portare ad una azione; così i ricercatori vedono nei dati storie nuove e nuovi modi di coglierle.

 


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