Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC), con una prevalenza lifetime nella popolazione di circa il 2%, rappresenta una patologia psichiatrica debilitante e cronica (Kessler et al., 2005), tanto da essere classificato come uno dei 10 disturbi più debilitanti del mondo (World Health Organization, 1999).
Sia che si tratti della sua forma individuale che di gruppo, la terapia per il trattamento del DOC attualmente raccomandata e più validata dai dati empirici (es. Olatunji et al., 2013) è la Cognitivo-Comportamentale (CBT), in particolare la tecnica di esposizione e prevenzione della risposta (ERP; Heyman, Mataix-Cols & Fineberg, 2006). Nonostante l’efficacia della CBT per il DOC sia stata validata attraverso numerosi trial randomizzati, la generalizzabilità di questi studi è limitata a causa della rigida metodologia utilizzata, che nella maggior parte dei casi non prevede l’applicazione della tecnica in contesti clinici e ospedalieri “naturali”. L’assistenza sanitaria necessita ancora di valutazioni obiettive sull’efficacia delle terapie per il DOC nella pratica clinica (Sackett et al., 1996).
Il primo obiettivo dello studio preso in esame (Papageorgiou et al., 2018), coerentemente con quanto riportato qui sopra, era quello di analizzare sistematicamente gli esiti della CBT di gruppo per adulti che avevano seguito una terapia a livello ambulatoriale per trattare il DOC, per un periodo di 5 anni. In seguito, una volta ottenuti i primi risultati dell’analisi, il secondo obiettivo era quello di valutare l’efficacia di un approccio alternativo alla CBT per il trattamento del DOC, ovvero la Terapia Metacognitiva di gruppo (MCT; Wells, 2009). La scelta di introdurre la MCT era dovuta ai notevoli risultati riportati in letteratura dalla terapia per pazienti con DOC (Fisher & Wells, 2005).
Secondo il modello teorizzato da Wells (1997), gli individui affetti da DOC esperiscono pensieri intrusivi che sono direttamente collegati con le metacredenze sottostanti. Sono queste credenze a guidare i processi disadattivi del pensiero chiamato cognitive attentional syndrome (CAS). Vi sono due tipologie principali di metacredenze, ovvero le credenze sulla pericolosità del pensiero e le credenze sulla inevitabile necessità di mettere in atto le compulsioni.
La prima tipologia di metacredenze (definita anche “fusion belief”), riguarda la cosiddetta fusione pensiero-azione, ovvero la convinzione che il solo pensare a qualcosa faccia sì che questo accada nella realtà (es. ho pensato che potrei investire qualcuno con la macchina, quindi sicuramente ciò avverrà) o che un evento è già accaduto (es. tornando a casa ho sicuramente investito qualcuno con la macchina, perché adesso questo timore mi attanaglia); la seconda tipologia di metacredenze riguarda le convinzioni sulle compulsioni, ovvero sui rituali che guidano le risposte alla preoccupazione causata dalle ossessioni (es. devo fare il giro del quartiere ripercorrendo i miei passi fino a quando smetto di pensare di aver investito qualcuno).
Nel modello di Wells (1997), il CAS riguarda la ruminazione, il monitoraggio delle minacce e i comportamenti disadattivi che rappresentano il mezzo utilizzato dal paziente DOC per combattere l’ansia procurata dalle ossessioni.
Nel presente studio (Papageorgiou et al., 2018), per raggiungere i due obiettivi di ricerca menzionati poco fa, gli autori hanno potuto seguire 95 pazienti per 5 anni, che hanno acconsentito a sottoporsi al trattamento MCT di gruppo, e 125 al trattamento CBT.
I risultati hanno mostrato che, coerentemente con le informazioni presenti in letteratura che riguardano l’efficacia della CBT per il trattamento del DOC, il 28% dei pazienti che ha ricevuto il trattamento non ha riportato miglioramenti statisticamente significativi. I pazienti trattati con MCT hanno riportato miglioramenti significativi rispetto al gruppo CBT: l’86,3% dei pazienti nella ha risposto positivamente al trattamento rispetto al 64% nella CBT.
In conclusione, nonostante alcune differenze significative, sia la CBT che la MCT di gruppo sono da considerarsi interventi efficaci quando erogati in un contesto clinico per un lungo periodo di tempo (Papageorgiou et al., 2018).