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La terapia con le fiabe

Le fiabe usate come strumenti simbolici, grazie ai quali è possibile elaborare contenuti inconsci senza ricorrere al meccanismo della rimozione.

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 03 Dic. 2019

Nel variegato panorama delle psicoterapie si sta facendo spazio, già da qualche anno, la pratica della fiaba terapia, ovvero la cura dei disagi psicologici attuata mediante la produzione, l’interpretazione, il racconto e la drammatizzazione di episodi attingenti al mondo fiabesco.

 

 La fiaba terapia è una modalità terapeutica che stimola direttamente l’attività fantasmatica del soggetto, tanto adulto quanto bambino, consentendo l’insorgenza di una fase regressiva che lo conduce indietro, ad un tempo passato, fino alla rievocazione di un conflitto traumatico precedentemente vissuto e non rielaborato. La funzione catartica della fiaba fa leva sui suoi connotati fortemente simbolici, grazie ai quali è possibile elaborare contenuti inconsci senza ricorrere al meccanismo della rimozione; rivivere situazioni negative, stemperate da un clima rassicurante e protettivo garantito dal lieto fine, una sorta di compensazione dall’impotenza infantile, grazie alla quale il soggetto può tornare a regolare i propri moti psichici, così come gli eventi della sua vita, munito di energia e determinazione in vista di finalità adattive.

Alla stregua del mito e della leggenda, la fiaba è caratterizzata dal contenuto simbolico: ed è proprio questa sua peculiarità intrinseca a renderla una terapia di elezione soprattutto con i bambini, nel cui universo psichico proprio il ricorso al simbolo garantisce un accesso privilegiato.

Nel paziente infantile l’inesplorabilità tipica del conflitto inconscio risulta infatti amplificata da contesti emotivi immaturi, deficit di verbalizzazione e differenziazione dalla realtà: si rivela pertanto indispensabile l’utilizzo di terapie che, pur conservando le caratteristiche proprie della psicoanalisi, siano in grado di superarne le limitazioni evidenziate.

In questo senso l’utilizzo della fantasia costituisce una valida modalità di accesso al contenuto inconscio del bambino. Nello specifico la trama fiabesca dipinge un mito che il bambino può esplorare in via del tutto immaginativa e questo gli consente di far riaffiorare il materiale inconscio non elaborato e di ottenere la visione integrata di un’esperienza frammentaria, non risolta e quindi patologica (Sordano, 2006). Inoltre l’immaginario costituisce un campo esplorativo illimitato delle possibili esperienze vitali, a mezzo del quale il bambino può sperimentare percorsi e adottare soluzioni senza le compromissioni irreversibili proprie dell’approccio realistico (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972; Valente, 1995).

L’elemento magico dello strumento fiabesco consente la rielaborazione della realtà traumatica e conflittuale tramite una serie di passaggi simbolici che costituiscono l’intreccio formale tipico della fiaba, ovvero la perdita di un membro della famiglia e l’allontanamento dell’eroe da casa (evento modificante), l’imposizione di un divieto all’eroe e una sua infrazione (trasgressione), la comparsa di un antagonista (aggressore) che ha il compito di ostacolare il recupero dell’equilibrio iniziale attraverso una serie di trappole e malefici, l’intervento di un personaggio magico grazie al quale l’eroe otterrà la sconfitta del malvagio e guadagnerà la salvezza (Propp, 1928).

Questo canovaccio si ripete nella fiaba come un filo conduttore immutabile grazie al quale la realtà psichica del bambino viene ridotta ad una serie di modelli operativi simbolici che le caratteristiche dei personaggi – più che altro simili ad archetipi- riescono a rispecchiare fedelmente: così l’eroe rappresenta il Sé inteso come totalità psicofisica del bambino, ma anche l’Io che riesce a mantenere un dialogo con i conflitti interni, l’antagonista incarna il nemico, il cattivo, l’ostacolo alla realizzazione del Sé, mentre l’alleato è l’amico che viene in soccorso dell’eroe e lo aiuta a sconfiggere il male.

Tale fissità di ruoli ricalca la stereotipia delle figure familiari e consente di rielaborare il rapporto conflittuale che il bambino ha con ognuna di esse. La strega rappresenta un femminile potenzialmente distruttivo nel cui ritratto è possibile intravedere le caratteristiche di una madre intrusiva che il bambino avverte come minacciosa carceriera del Sé. Ella tiene prigioniero l’eroe oppure avvelena la principessa costringendola ad un sonno eterno: dunque il pericolo non è tanto il divoramento o la distruzione quanto la condanna all’immobilizzazione e la liberazione dal sortilegio dell’eroe simboleggia in questo senso l’affrancamento del bambino dal corpo materno (Santagostino, 2006).

Il mostro può spesso rappresentare una figura genitoriale distruttiva e indistruttibile, capace di rigenerarsi e presentarsi sotto mille forme diverse, sfuggendo ad ogni possibile controllo. In questo senso il genitore appare come un caos indistinto in cui convivono bene e male, possibilità di salvezza e distruzione: una figura mostruosa tipica della fase uroborica in cui il bambino si sente prigioniero della madre e invischiato con lei in un tutto indifferenziato (Neumann, 1980).

Al contrario le fate costituiscono l’idealizzato positivo della madre: sono il seno buono, l’oggetto materno che protegge e difende dal pericolo. Il ruolo della fata è anche quello di conferire poteri attivi ai protagonisti restituendo libertà, forza e coraggio: ella concede senza chiedere nulla in cambio, rappresenta un femminile simbolico che non abbandona l’eroe nel momento del pericolo e lo aiuta senza legarlo a sé (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972).

La figura della vecchietta, la cui conformazione estetica potrebbe simboleggiare una bruttezza anche interiore, si pone in uno stadio intermedio tra l’archetipo della strega cattiva e la bontà della fata salvifica identificabile con l’archetipo della madre buona. Ella non offre all’eroe la liberazione, ma comparendo all’improvviso sul suo cammino lo aiuta a liberarsi dai malefici e a guadagnare la salvezza. Questo potrebbe rappresentare il senso metaforico di un passaggio tra la considerazione negativa e quella positiva della madre, una sorta di oggetto transizionale grazie al quale il bambino può sviluppare e reintroiettare una visione materna meno persecutoria (Santagostino, 2006; Von Franz, 1972).

 Storie presentate da bambini affetti da disturbi disorganizzati si concludono negativamente, lasciando intravedere la convinzione dell’impossibilità di salvezza in situazioni dolorose. Molto spesso si tratta di storie in cui l’aggressività verso il genitore viene simbolizzata nella presenza di figura nefaste che avranno la meglio sui buoni. Al contrario i bambini ansiosi tendono ad applicare all’eroe la medesima immobilità che caratterizza il loro contesto emotivo, perennemente alla ricerca di una salvezza concedibile solo da un’entità superiore che tuttavia non arriva o non arriva mai in tempo. Il bambino ansioso è passivo, insicuro, preoccupato, e si mostra diffidente anche verso la magia che nelle sue storie non assume un ruolo salvifico.

Anche nei bambini aggressivi sono i cattivi ad avere la meglio, ma se questo costituisce un epilogo funesto per i piccoli pazienti affetti da disturbi dell’umore, al contrario per questi altri si tratta di un lieto fine: è con gioia che bambini caratterizzati da personalità oppositive elaborano mentalmente la distruzione del buono appannaggio del malvagio, a testimonianza di un’aggressività endogena che nella fiaba si slatentizza in via simbolica (Sordano, 2006).

È a questo punto che giunge l’intervento terapeutico della fiabazione: il bambino, dopo aver inventato una storia e averla esposta al conduttore, sotto la guida di quest’ultimo sarà chiamato alla risoluzione della stessa; e non dovrà farlo avvalendosi dell’elemento magico in cui ogni cosa torna a posto per mano di una volontà inconoscibile e soprannaturale, ma dovrà trovare da solo soluzione nuove e creative in grado di liberare l’eroe (Propp, 1928).

Nella fiaba di Hansel e Gretel, ad esempio, la salvezza non proviene dall’intervento magico, ma dall’astuzia dei due fratelli che riescono a far finire nel pentolone la strega cattiva che voleva divorarli (White, 2015). Nella fiaba dei tre porcellini l’elemento salvifico viene individuato nel legame raggiunto dai tre fratellini che si alleano per far finire nella pentola di olio bollente il lupo cattivo: alleanza che simboleggia altresì la conclusione della rivalità fraterna per l’accesso alle risorse genitoriali, accompagnata dal naturale passaggio dall’infanzia all’adolescenza in cui gli investimenti affettivi trasmigrano da un legame esclusivamente verticale- bambino genitore- ad uno orizzontale- legame tra pari (Sordano, 2006).

Quando l’eroe riesce a raggiungere la salvezza grazie alle sue doti di astuzia e maestria egli si trasforma da salvato in salvatore, e ciò consente l’acquisizione di competenze, autostima e sicurezza necessarie alla strutturazione funzionale del Sé. In questo contesto anche il senso di colpa potrà trovare una risoluzione interiore e l’aggressività verrà sublimata, neutralizzata, resa inerme di fronte alla costruttività interiore (Sordano, 2006; Kaes, 1993).

Molto spesso il raggiungimento di una dimensione evolutiva viene agevolato dall’utilizzo della fiaba all’interno di contesti collettivi: il bambino racconta la sua storia di fronte a un gruppo di pari guidati da un conduttore il cui compito è quello di contenere la sua angoscia, fare da specchio al suo disagio, aiutarlo ad assumere nuovi punti di vista e nuove prospettive. La parola nel gruppo ha il potere di aprire prospettive inconsce e insondabili, senza contare che i ragazzi, trovandosi insieme in un unico contesto, sperimentano una velleità relazionale che li pone in una dimensione collaborativa. Tutti vogliono aiutare l’eroe a salvarsi dal maligno e ciascuno offre il proprio contributo perché ciò possa avvenire.

Così i componenti del gruppo imparano a pensare alla relazione più che al singolo personaggio e la trama della fiaba diviene lo strumento per favorire una comunicazione inconscia tra i partecipanti e costruire un confronto tra i modelli dell’Io e le molteplici possibilità di essere del Sé (Sordano, 2006). Man mano che la struttura gruppale acquisterà relazione e coesione interna l’emergere di strutture grafiche o narrative sarà sempre meno collegato all’intenzionalità cosciente del singolo e farà maggior riferimento al registro del corpo e dell’immaginario collettivo, mostrandosi in grado di attuare un decentramento dal Sé e dai temi ricorrenti della propria storia per divenire parte di una nuova matrice relazionale (Sordano, 2006; Neri, 1996).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Kaes, R. (1993), Il gruppo e il soggetto del gruppo: elementi per una teoria psicoanalitica del gruppo, Borla, Roma 1994;
  • Neri, C. (1996), Gruppo, Borla, Roma 2003;
  • Neumann, E. (1980),  La personalità nascente del bambino. Struttura e dinamiche, Red, Como 1991;
  • Propp, V.J. (1928), Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1966;
  • Santagostino, P. (2006), Guarire con una fiaba. Usare l’immaginario per curarsi, Feltrinelli, Roma 2012;
  • Sordano, A. (2006), Fiaba, sogno e intersoggettività, Bollati Boringhieri, Torino;
  • Valente, E. (1995), Psicodramma e immaginale fiabesco, in “Psicodramma analitico”, vol.4;
  • Von Franz M.L. (1972), Il femminile nella fiaba, Bollati Boringhieri, Torino 1983
  • White,  R.S. (2015),  Hansel and Gretel: a tale of terror, in “Psychoanalytic Quarterly”, 84, (4), 893- 920.
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