Il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) rappresenta a tutti gli effetti una reale problematica dei nostri tempi, data la sua prevalenza all’interno della popolazione e la sua natura tragicamente ricorrente. Un recente studio mostra le potenzialità della Terapia Metacognitiva per i disturbi depressivi.
Hagen e colleghi (2017) hanno condotto uno studio, pubblicato su Frontiers in Psychology, che si prefiggeva lo scopo di indagare l’efficacia della Terapia Metacognitiva su pazienti adulti affetti da Disturbo Depressivo Maggiore. Recentemente è stato pubblicato un secondo articolo (Hjemdal et al., 2019), associato allo stesso progetto che riporta i risultati del follow-up a un anno di distanza.
Il Disturbo Depressivo Maggiore (DDM) rappresenta a tutti gli effetti una reale problematica dei nostri tempi. Infatti, non solo è uno dei disturbi più comuni e diffusi nella popolazione (Kessler et al., 2006) e causa di un elevato rischio suicidario (Hawton et al., 2013), ma è anche noto per la sua natura tragicamente ricorrente: l’85% dei pazienti che ha sofferto di DDM in passato è vittima di ricadute nei 15 anni successivi alla guarigione (Mueller et al., 1999). Per quanto la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) sia a oggi il trattamento d’eccellenza per il DDM (Buttler et al., 2006), le percentuali di ricaduta sono ancora elevate (tra il 40 e il 60% nei due anni successivi; Vittengl et al., 2007), così come le ricadute dei pazienti che hanno seguito una terapia farmacologica (tra il 29 e il 60% tra il primo e il secondo anno di trattamento; Parker, Crawford &Hadzi‐Pavlovic, 2008).
Sono questi i presupposti che negli ultimi decenni hanno spinto i professionisti a cercare nuovi orizzonti nel trattamento della depressione. La Terapia Metacognitiva (MCT; Wells, 2009) si è dimostrata una valida alternativa alla CBT, focalizzandosi sui processi di pensiero (piuttosto che sul contenuto) che aumentano il rischio di sviluppare disturbi depressivi: essa si basa sul Self-Regulatory Executive Function Model (S-REF) che vede nelle strategie di auto-regolazione disfunzionali (come la ruminazione depressiva, ovvero la tendenza a concentrarsi in maniera ripetitiva sui pensieri negativi) un correlato dell’umore deflesso tipico dei pazienti con DDM (Wells, 2000; Wells &Matthews, 1996). Questa complessa modalità di autoregolazione è definita come Sindrome Cognitivo-Attentiva (o Cognitive AttentionalSyndrome, CAS) una sintesi di diverse strategie controproducenti per la gestione dei propri stati d’animo che include ipermonitoraggio di sensazioni negative (es. tristezza e fatica) e stili di pensiero rimuginativi come rimuginio ansioso, ruminazione depressiva o rabbiosa (Caselli, Ruggiero &Sassaroli, 2017). Secondo il modello metacognitivo la CAS sarebbe attivata e mantenuta da alcune convinzioni, spesso implicite, sulla natura e il funzionamento della propria mente, le cosiddette credenze metacognitive. Queste si distinguono in credenze metacognitive positive (“rimuginare mi aiuta a comprendere e risolvere il problema”) e negative (“non sono in grado di controllare i miei pensieri”) e rischiano di mantenere attive strategie mentali controproducenti che prolungano e intensificano il malessere, spesso senza che la persona ne sia pienamente consapevole (Matthews& Wells, 1994).
Diversi studi hanno evidenziato le potenzialità della Terapia Metacognitiva per i disturbi depressivi (Hjenmdal et al., 2017; Papageorgiou & Wells, 2003; Wells et al., 2012), risultante in alcuni casi più efficace della tradizionale CBT e con un minor numero di ricadute (Normann& Morina, 2018). Il presente studio (Hjemdal et al., 2019) si è posto l’obiettivo di indagare l’effetto della MCT su pazienti depressi a un anno di distanza dalla prima misurazione, effettuata nel randomized clinical trial condotto da Hagen e colleghi (2017).
I 39 soggetti (23 femmine) erano stati suddivisi casualmente in 2 gruppi: il primo aveva ricevuto subito il trattamento con la MCT mentre il secondo era stato assegnato a una lista d’attesa di 10 settimane prima dell’inizio della terapia. I pazienti appartenenti al primo gruppo sono significativamente migliorati rispetto al secondo gruppo, sia nei sintomi depressivi che in quelli ansiosi, e circa il 70-80% non mostrava più sintomi clinici al termine del trattamento e in un follow-up a sei mesi di distanza (Hagen et al., 2017).
Per il follow-up a un anno di distanza, Hjemdal e colleghi (2019), hanno preso in considerazione gli stessi 39 pazienti. Nella fase di assessment sono state somministrate la SCID-I e la SCID-II (First et al., 1997). Per indagare la sintomatologia depressiva e ansiosa sono state somministrate rispettivamente la Beck Depression Inventory (BDI; Beck, Steer&Carbin, 1988) e la Beck Anxiety Inventory (BAI; Beck &Steer, 1990); per misurare la ruminazione come risposta alla sintomatologia depressiva la Ruminative Response Scale (RRS; Nolen-Hoeksema&Morrow, 1991); per le credenze positive e negative sulla ruminazione la Positive Beliefsabout Rumination Scale e la Negative Beliefs about Rumination Scale (Papageorgiou and Wells, 2001) e il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990) è stato utilizzato per valutare i livelli di preoccupazione.
I risultati mostrano che gli effetti positivi della Terapia Metacognitiva sulla sintomatologia ansiosa e depressiva si sono mantenuti nel tempo (Hjemdal et al., 2019): il 73,5% del campione ha mantenuto i miglioramenti ottenuti anche dopo un anno. Laddove le credenze metacognitive positive e negative sono diminunite, i sintomi depressivi hanno seguito lo stesso andamento in modo stabile, confermando il modello teorico metacognitivo circa il meccanismo principale di remissione (Wells, 2009). Il 12,8% dei pazienti ha mostrato una ricaduta (Hjemdal et al., 2019).
Rappresenta un limite per la ricerca la scarsa numerosità del campione, ma i risultati ottenuti aprono la strada a futuri studi sperimentali nel medesimo campo d’interesse per valutare se la Terapia Metacognitiva ha capacità di ridurre il rischio di ricaduta anche in campioni più ampi e in studi replicati su altre popolazioni.