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Livello filosofico e psicoterapeutico: un esempio su come possono interagire nella pratica clinica

La filosofia permette di cogliere la struttura del mondo e questa conoscenza può essere un valido strumento che il terapeuta può usare in psicoterapia.

Di Marco Tarantino

Pubblicato il 03 Set. 2019

Aggiornato il 07 Gen. 2020 11:32

Facendo attenzione a non perdere di vista il fine terapeutico della psicoterapia, ciò che vogliamo proporre in questo articolo è un esempio di come filosofia e psicoterapia possano interagire tra loro.

 

Giorni fa Su State Of Mind è stato pubblicato un interessante articolo da Giovanni Maria Ruggiero e Sandra Sassaroli sui rischi delle aspirazioni filosofiche della psicoterapia. Il tema mi è molto caro, anche perché io mi sono formato in Terapia della Gestalt con Barrie Simmons, il quale affermava che la Gestalt, lungi dall’essere una psicoterapia fondata su una psicologia e su una psicopatologia, è più da considerarsi come il “reparto operativo di una filosofia esistenziale.

Il punto in cui concordo con i colleghi è il rischio di perdere di vista il fine terapeutico della psicoterapia, quando questa si pensa come conoscenza che trascende i suoi confini epistemologici e pretende di diventare quasi una religione. Detto questo, considero comunque l’interrelazione tra filosofia e psicoterapia di vitale importanza nella clinica, perché, se la filosofia ci permette di cogliere la struttura del mondo in cui tutti noi viviamo, questa conoscenza può certamente aiutare il terapeuta nella sua pratica clinica. Quello che segue è un esempio di come i livelli filosofico e psicoterapeutico possano interagire tra loro.

La società della prestazione e la rimozione del desiderio

I tempi che stiamo vivendo sono difficili, caratterizzati dallo sfarinamento progressivo delle organizzazioni sociali così come le abbiamo conosciute fino ad ora, dalla pervasitvità della precarietà come cifra dell’esistenza e conseguentemente da un atteggiamento nei confronti della vita in cui prevale il ripiego verso se stessi, la difficoltà nell’intrecciare nuove relazioni, i vissuti di paura e diffidenza nei confronti dell’altro, tanto più acuti quanto più lo è la propria precarietà esistenziale.

Negli ultimi decenni si è determinato un importante cambio di paradigma nell’organizzazione della società occidentale. La società, fino a qualche decennio fa, si fondava sulla differenziazione tra sé e altro da sé, sul conflitto e in generale sulla dialettica come motore dei mutamenti sociali. Byung – Chul Han chiama questo modello sociale ormai superato come “società immunologica”. Questo modello ha performato la storia dei secoli scorsi, promuovendo cambiamenti importanti e strutturali a partire da conflitti di varia natura e dimensione: tra stati, tra forme di governo e tra classi sociali. La metafora del conflitto è stata fondante anche per la comprensione della sofferenza psichica (soprattutto nel variegato mondo della psicoanalisi, ma non solo); basti pensare al diffuso impiego di parole mutuate da quell’universo semantico: conflitto, resistenze, meccanismi di difesa, solo per citarne alcuni.

Oggi invece viviamo in una società caratterizzata da incertezza, estrema individualizzazione, liquidità dei rapporti e delle connessioni sociali, perdita del senso di sé, che Byung – Chul Han chiama “società della prestazione” e Bauman “modernità liquida”, nella quale l’altro scompare insieme al conflitto e alla dialettica sociale, vi è un clima caratterizzato da un eccesso di positività, gli esseri umani costruiscono la propria identità come “soggetti di prestazione”, imprenditori di se stessi, esaltando la propria libertà che diventa una libertà costrittiva che arriva all’autosfruttamento e all’alienazione da se stessi e che prende la forma illusoria dell’autorealizzazione, una libertà e una individualizzazione che sono quasi messe a fondamento del nuovo ordine sociale.

A questo nuovo paradigma si associa una sostanziale modifica della costituzione dell’identità e della vita relazionale degli individui: il soggetto, lungi dall’essere in relazione con l’altro da sé, è appunto ripiegato su se stesso, non più in relazione (esperienza che presuppone il contatto, cioè l’apprezzamento delle differenze) ma eventualmente in co(a)nnessione, inglobando l’altro che diventa un correlato narcisistico. L’individuo è una monade che ingloba il mondo come estrinsecazione del sé, l’ipertrofia del narcisismo è un fallace tentativo di compensare la sua estrema fragilità.

In questo clima si genera una sofferenza del tutto nuova, che non nasce dal conflitto ma che è endemica e strutturale, una sofferenza caratterizzata dalla pervasività del desiderio di accumulare oggetti, informazioni, relazioni, al fine unico di gratificare l’immagine di sé tentando una compensazione della precarietà esistenziale con un’inflazione del narcisismo che però resta assai fragile. Una metafora convincente per questa tendenza è quella dell’ingordigia:

l’ingordigia è un modo per evitare di prendere delle decisioni: se ho tutto, non devo scegliere ciò che voglio. E scegliere ciò che voglio significa accettare certi piaceri per rinunciare ad altri. Siamo ingordi, quindi, perché abbiamo paura di perdere ciò di cui abbiamo bisogno; poiché abbiamo paura che non sia la cosa giusta; perché abbiamo paura di dipendere da qualcosa che non ci appartiene; e poiché abbiamo paura di decidere. […] L’eccesso di appetito che chiamiamo ingordigia è a tutti gli effetti una forma di disperazione. L’ingordigia emerge quando non crediamo più nei nostri appetiti, quando ciò che desideriamo non è più disponibile.

Sofferenza psichica, vuoto esistenziale e mancanza di desiderio

Queste parole introducono il correlato forse più significativo di questo mutamento antropologico per l’individuo: l’afasia (quando non la rimozione) del desiderio.

Il desiderio è, insieme all’intenzionalità, la caratteristica a fondamento dell’unicità dell’umano (per Otto Rank, uno dei più originali eredi di Freud, purtroppo poco noto in Italia, desiderio e intenzionalità sono alla base dell’atto di volontà, attraverso il quale l’individuo afferma se stesso). Per potersi manifestare, il desiderio ha bisogno di spazio e di tempo e il suo presupposto è la costitutività della mancanza nell’esserci dell’individuo (Heidegger). Una definizione interessante di Desiderio è quella di Quattrini:

Wittgenstein ritiene che gli esseri umani abbiano inclinazioni senza forme specifiche, che si concretizzano nelle opportunità offerte dal mondo; il desiderio risulterebbe così da un incontro tra un’inclinazione e una disponibilità.

Il riferimento alla “disponibilità” introduce un elemento imprescindibile nella genesi del desiderio, ossia quello che gli psicoanalisti hanno chiamato il suo “oggetto”. La peculiarità del movimento del desiderio verso il suo oggetto è che questa è paradossale: ancora con Phillips, possiamo dire che

perdersi, ossia la creazione del labirinto, è ciò che facciamo quando esiste un oggetto del desiderio. Ci perdiamo perché non siamo perduti.

I mutamenti sociali descritti, che improntano l’esisitenza col mito dell’autorealizzazione, sono poco compatibili con la percezione di sé come soggetto affetto da mancanza e quindi desiderante. Uno dei tabù fondanti di questo modello sociale è la rimozione dell’essere umano come soggetto “impotente”, in contatto con la propria frustrazione e con la propria inadeguatezza e al contempo con la possibilità di sperimentare la soddisfazione:

Se non possiamo tollerare l’impotenza, non possiamo tollerare la soddisfazione. Esiste un complotto contro l’impotenza che scopriamo essere un complotto contro la soddisfazione.

In questo contesto, lo psicoterapeuta si trova spesso a confronto, oltre che con la psicopatologia “classica”, con tutta una serie di richieste di aiuto per una sofferenza psichica spesso afasica, che fatica a declinarsi in problemi discreti da affrontare e risolvere e viene piuttosto presentata come un’incapacità a trovare un posto per sé nel mondo, un’instabilità esistenziale vorticosa che finisce per far perdere i punti di riferimento e appiglio, il vissuto di impossibilità di agire in modo efficace per operare cambiamenti in un’esistenza che pare meccanica e predeterminata.

Per comprendere questo scenario, che diventa sempre più pressante, lo psicoterapeuta necessita di rivedere alcuni concetti del suo armamentario teorico ed esperienziale, che vanno appunto riadattati, in quanto coniati in un mondo diverso da questo. Accade quindi che quello che fino a qualche decennio fa era il presupposto di ogni relazione psicoterapeutica, a prescindere dall’orientamento teorico, ossia la presenza di due persone in relazione, oggi sia un obiettivo da co-costruire, premessa imprescindibile per ogni altro obiettivo terapeutico.

Il primo movimento nella psicoterapia con questi individui è quello che porta a sviluppare la capacità di percepirsi come un essere umano, vale a dire come essere dotato di una soggettività desiderante, e per fare questo il punto di partenza è una sorta di rovesciamento del cogito cartesiano, in cui si passa per quella che è una vera e propria rieducazione al sentire, ricostituendo il senso del proprio sé attraverso la riappropriazione della capacità di sperimentare sensazioni e stati affettivi e di poter dare loro parola. E’ un processo lento, delicato, anche perché l’individuo che chiede aiuto per l’insopportabilità del vuoto esistenziale, attraverso il recupero della capacità di sentire sperimenta il vissuto della mancanza, doloroso e a volte persino violento, e solo a questo punto riceve come un dono la possibilità del desiderio.

Perls descrive questo processo come il susseguirsi di alcuni passaggi nell’esperienza terapeutica: il punto di partenza è la condizione di vuoto sterile, a cui segue uno stato di implosione in cui il copione personale non regge più e una nuova possibilità esistenziale non si intravede ancora e l’individuo è come bloccato, in piena impasse; l’approfondimento di questo vissuto in psicoterapia porta alll’esplosione, il contatto col proprio sé attraverso l’irruzione delle sensazioni e delle emozioni, e la loro integrazione porta alla maturazione di uno stato di vuoto fertile, condizione appunto di disponibilità ed apertura al desiderio.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bauman, Z. (2011). Modernità liquida. Ed Laterza.
  • Byung-Chul, H. (2017). L’espulsione dell’Altro. Ed Nottetempo.
  • Phillips, A. (2011). Sull’equilibrio. La vita in bilico tra eccessi, desideri e paure. Ed Ponte alla Grazie.
  • Quattrini, G.P. (2011). Per una psicoterapia fenomenologico – esistenziale. Ed Giunti.
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