expand_lessAPRI WIDGET

Briciole. Storia di un’anoressia (1994) – La stigmatizzazione dell’anoressia nervosa

L'anoressia nervosa è un disturbo ancora oggetto di stigma sociale. Per chi ne soffre questo può aumentare la difficoltà a chiedere aiuto

Di Germana Celentano

Pubblicato il 11 Set. 2019

Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata. Anoressia mentale, sarebbe stata la diagnosi psichiatrica.

Germana Celentano – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

L’ anoressia nervosa in Briciole

 Briciole: storia di un’anoressia, di Alessandra Arachi, pubblicato nel 1994, è un testo duro, diretto che racconta le emozioni e i pensieri, le paure e le angosce di Elena, una ragazza affetta da anoressia nervosa.

Possiamo definirlo a distanza di anni dalla sua pubblicazione un valido testo di riferimento per chi vive o voglia conoscere il mondo interiore di chi soffre di anoressia e bulimia nervosa.

Il testo ci avvicina ad un demone strisciante che spinge Elena gradualmente a vedere nel cibo un nemico e nella sua scelta di centellinarlo, renderlo briciole, una fonte di potere e controllo.

A portarla sull’orlo del baratro è il tormentato tentativo di compensare una esistenza vissuta allo scopo di soddisfare bisogni altrui.

Mangiare mi aveva sempre dato gusto.[…] una bambina vivace. Poi un adolescente allegra e sportiva. E’ a metà della crescita che ho voluto rovinare una vita bella, dunque tranquilla, dunque noiosa.[……] Le cosce ingrassate da un’adolescenza veloce non possono bastare come spiegazione

Elena comincia la sua dieta, la sua “crociata contro il il cibo” e si sente

improvvisamente adulta così decisa a resistere alle tentazioni della gola

nutrendosi dei complimenti di chi la ammirava per mettere a tacere lo stomaco. A spingerla nel baratro in meno di un mese il suo cervello, che

riuscì a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri, l’olio in un accumulo irrecuperabile di grassi.[….] A questo punto vomitai le tre polpette al sugo.

L’autrice racconta l’inizio dell’ anoressia che, come spesso accade, esordisce in adolescenza, quando ci si confronta faticosamente con gli altri, con gli stereotipi ambiti e bramati, quando il corpo improvvisamente cambia, spesso anche in modi non desiderati, e sopraggiunge all’improvviso l’idea che dimagrendo ci si possa sentire parte di qualcosa, e quindi non più esclusi.

Cos’è l’anoressia nervosa e come si distingue

Il testo affronta l’ anoressia nervosa, un Disturbo dell’Alimentazione caratterizzato, secondo il DSM-V, dai seguenti criteri:

  • A. Limitazione dell’assunzione di cibo rispetto al fabbisogno calorico, che porta al mantenimento di un peso corporeo significativamente basso per età, sesso e salute fisica e per quanto previsto durante il periodo di crescita. Il peso significativamente basso è definito come un peso che è inferiore al minimo normale, o per i bambini e gli adolescenti, inferiore a quello minimo previsto
  • B. Intensa paura di acquistare peso o un comportamento persistente che interferisca con l’aumento di peso, anche se il peso è significativamente basso
  • C. Ruolo eccessivo del peso e della figura fisica nel determinare l’autostima e/o distorsione della percezione corporea

Se ne distinguono due sottotipi:

  1. Con Restrizioni durante gli ultimi tre mesi
  2. Con Abbuffate/Condotte di Eliminazione durante gli ultimi tre mesi

Tra le righe del testo prendono forma i criteri del DSM-V e la sintomatologia che definisce il quadro clinico dell’ anoressia, come ad esempio il repentino calo ponderale di Elena avvenuto nell’arco di 3 mesi, causato dalla messa in atto di un’alimentazione estremamente controllata e limitata e l’ eccessivo esercizio fisico

Per dimagrire ancora, cominciai a correre quattro ore al giorno [….] due ore la mattina, prima di andare a scuola e due la sera, dopo aver passato il pomeriggio sui libri, l’induzione del vomito o il forte utilizzo di lassativi. Aspettavo soltanto il momento di vomitare per dare un senso a quelle serate

Elena presenta pensieri continui e eccessivi relativi al cibo e all’immagine corporea,

Diffidavo di qualsiasi cosa commestibile, ma riservavo al cibo tutti i pensieri della mia giornata

un’estrema paura di prendere peso, una percezione dismorfica del proprio corpo, visto come brutto e grasso, nonostante l’evidente sottopeso.

In tre mesi l’ anoressia si era divorata un terzo del mio corpo. A me non bastava ancora.

In lei ritroviamo l’alto livello di perfezionismo, l’iperattività, la mancata consapevolezza della malattia e la dismenorrea.

[…..] il cibo che mi veniva sbattuto nel piatto era magicamente diventato la fonte di tutti i miei problemi: rigettandolo li avrei risolti. E non mi importava delle forze che mi abbandonavano, perchè c’erano i nervi a sorreggere le gambe e a stimolare il cervello che rimaneva lucido per uno studio sempre più frenetico ed ossessivo.[….] il corpo era soltanto una macchina che macina energia se la riempiamo di cibo, ma raggiunge l’infinito se la nutriamo di sapere.

Leggiamo poi la sua propensione a cucinare per gli altri, ad incoraggiarli a mangiare.

Quando tornavo a casa mi mettevo davanti ai fornelli e cucinavo per ore [….] mi rigiravo il cibo davanti agli occhi e tra le mani [….] Obbligavo chiunque mi stesse vicino a mandar giù tutto fino all’ultima briciola. Io non leccavo nemmeno un cucchiaio per sbaglio

infine una tendenza al ritiro e alla depressione.

Tacevo e correvo in camera, soddisfatta del mio isolamento.

Pensieri ed emozioni di chi soffre di anoressia nervosa

Da un punto di vista cognitivo in generale una paziente anoressica sembrerebbe sperimentare una mancanza di controllo sul proprio Sé: mancanza che viene compensata proprio attraverso l’adozione del digiuno, inteso come controllo dell’appetito, e dunque del corpo.

Sentire il controllo del proprio corpo per sentirsi in controllo di se stessi e delle proprie emozioni che non vengono più riconosciute, vissute, sentite, ma spesso vengono mal giudicate, negate, quindi diventano un intralcio da allontanare gestendo e controllando il cibo, per sentirsi più sicuri del proprio corpo, della propria immagine, più padroni della propria vita, perchè le emozioni sono semplicemente diventate troppo, e così renderle innominabili sembra la soluzione.

Per quanto concerne l’aspetto emotivo, le emozioni più spesso trattate nella clinica dei Disturbi Alimentari sono l’orgoglio e due stati emotivi autocoscienti che affliggono l’Io: la colpa e la vergogna.

Con la colpa si assiste ad una risposta emotiva evento-specifica, quindi l’attribuzione negativa è legata allo specifico comportamento attuato.

Non avevo la forza di uscire di casa, contenta di lasciarmi trascinare nel vortice di abbuffate e vomito. Sembravo una tigre in gabbia, in quella casa dove le sbarre erano i miei solidi sensi di colpa, i pensieri cupi, le incomprensioni.

Con la vergogna il giudizio negativo è attribuito al Sé nella sua interezza; questa emozione è vissuta come interna, dunque auto valutazione negativa, ma anche come esterna, ovvero sensazione che gli altri li giudichino male.

Nemmeno tra anoressiche si ha il coraggio di confessare l’anoressia.[…..] Ti sembra tutto inutile, vero? Tu ti senti inutile e goffa perchè i pantaloni non ti scivolano via lungo le gambe come ad un manichino.

Si oppone alla vergogna lo stato emotivo dell’orgoglio, associato al successo sociale, all’approvazione da parte degli altri; l’orgoglio nasce dall’autocontrollo rispetto alla gestione del cibo, è generato dall’apparenza fisica, dalla ribellione e dalla protesta, manifestato con difese ripetute e irremovibili della sindrome. I primi complimenti che Elena riceve all’inizio della dieta che sceglie di intraprendere, diventano fonte di nutrimento per la sua mente che, trascinandola nel baratro, le farà poi vivere il suo calvario; Elena trova nella magrezza una soluzione per sentire il controllo:

“No grazie”, rispondevo fiera agli sguardi stupiti dei miei genitori. “No grazie”, rispondevo ad ogni portata del pranzo e della cena. [….] No grazie”, diventava quindi il trionfo della volontà – e sentirsi accettata.

Tuttavia persiste latente la tematica di vergogna e quelle sperimentate sembrano essere: vergogna di emozioni come la rabbia e la tristezza; vergogna del fallimento; vergogna del corpo; vergogna rispetto all’autocontrollo e ai comportamenti auto-distruttivi; vergogna di avere un disturbo alimentare per il problema legato al mangiare, per auto-accuse di vanità, per timore dello stigma sociale.

Anoressia e stigma sociale: gli studi

In particolare lo stigma è un problema per le persone con disturbi alimentari e costituisce una barriera alla divulgazione ed alla ricerca di aiuto.

Lo stigma è un costrutto multidimensionale, che porta con sé risposte emotive negative nei confronti di individui affetti da questi disturbi, impressioni negative delle loro caratteristiche personali, un maggior desiderio di distanza sociale dall’individuo interessato. Questo costrutto è fondato sul pregiudizio, sulla discriminazione, sullo stereotipo. Si tratta di un costrutto indagato nel contesto della psicologia sociale, l’indagine scientifica di come pensieri, sentimenti e comportamenti degli individui siano influenzati dalla presenza oggettiva, immaginata o implicita degli altri.

La cognizione sociale è l’insieme dei processi cognitivi volontari o involontari che ci spinge a comportarci in un certo modo all’interno della società, organizzando le informazioni riguardanti noi stessi e gli altri soggetti sociali in schemi, insiemi circoscritti e coerenti di cognizioni interconnesse.

Il modo in cui elaboriamo le informazioni per creare una impressione può essere bottom-up, induttivo, tramite un ragionamento che ci porta ad approfondire gli aspetti, oppure top-down, deduttivo, cioè tramite stereotipi o schemi pre esistenti.

Quando gli schemi di gruppi sociali, spesso applicati agli outgroup (gli appartenenti ad altri soggetti, gruppi, categorie, ecc.) sono associati a pregiudizi, discriminazioni, conflitti, si genera lo stereotipo, un atteggiamento sfavorevole e ostile verso l’altro senza che si abbiano sufficienti prove, che può avere come conseguenze la discriminazione o nei casi più gravi la disumanizzazione.

Lo stereotipo è frutto di schemi di gruppi sociali, spesso applicati agli outgroup, associati a pregiudizi, discriminazioni e conflitti tra gruppi. Si tratta di immagini semplificate dei membri di un gruppo, spesso dispregiative, quando applicati agli outgroup, che si basano su differenze o che creano differenze tra i due gruppi e che causano un irrigidimento della percezione della realtà. Questi schemi si basano sull’etnocentrismo (preferenza per il gruppo di appartenenza, il metro di giudizio dipende dal mio gruppo)

Gli schemi raramente cambiano, ma secondo Rothbart possono cambiare per tre motivi:

  • registrazione, ovvero accumulo di prove ed esperienze differenti
  • conversione improvvisa, grazie ad una sola esperienza
  • formazione di sottotipi: se abbiamo prove discordanti tendiamo a creare un sottogruppo, una sottocategoria diversa.

Per migliorare le relazioni intergruppo può essere utile:

  1. l’ educazione, poiché i pregiudizi derivano dall’ignoranza. Educare attivamente alla tolleranza e all’apertura mentale, all’attenzione verso l’altro, visto come individuo complesso e non stereotipo.
  2. il contatto intergruppo, infatti spesso i pregiudizi si mantengono perché manca il contatto con l’outgroup e quindi non abbiamo informazioni contrarie, con le quali modificare gli schemi; il contatto, l’esposizione, porta a verificare somiglianze prima non rilevate.

In questo contesto può essere d’aiuto anche il comportamento prosociale, ovvero azioni compiute a vantaggio di un’altra persona, valutate positivamente dalla società e che portano conseguenze positive agli altri, come ad esempio la comprensione, l’empatia (capacità di sperimentare le esperienze altrui, identificandosi con le sue emozioni, pensieri e atteggiamenti), il coinvolgimento empatico (sentimenti di affetto, disponibilità e compassione nei confronti di chi soffre).

Il comportamento prosociale viene appreso e non è innato; il modo in cui rispondiamo alla sofferenza altrui è legato al modo in cui impariamo a condividere, aiutare e dare conforto. Questo può essere appreso tramite istruzioni coerenti, rinforzo delle azioni, esposizione a modelli che praticano condivisione, aiuto, conforto.

Nell’ottica di voler agire sullo stigma legato ai Disturbi Alimentari, quanto appena descritto fornisce alcuni esempi degli interventi attuabili e volti a promuovere il consenso sociale, a creare nella società un miglior consenso in questo caso, nei confronti dell’individuo con Disturbi Alimentari: incoraggiare il contatto diretto con una persona che soffre di DA; la psicoeducazione per correggere la disinformazione sui disturbi alimentari, per ridurre al minimo le attribuzioni biasimevoli e l’offerta di diversi resoconti eziologici; ridurre lo stereotipo; modificare gli schemi; incentivare il comportamento prosociale; migliorare le relazioni intergruppo, incoraggiare la modalità bottom up per elaborare informazioni volte a creare delle impressioni diverse; aumentare gli atteggiamenti positivi; ridurre le convinzioni negative.

Questo approccio è una strategia alternativa che ha mostrato risultati promettenti nel ridurre lo stigma. Esso suggerisce che gli atteggiamenti stigmatizzanti degli individui sono un prodotto delle credenze e dei comportamenti degli altri. Ricerche suggeriscono che le persone modificano il proprio sostegno alle credenze stereotipate in modo che siano più in linea con quelle espresse da un particolare gruppo cui appartengono.

Gli studi che hanno utilizzato un approccio volto a promuovere il consenso sociale ha dimostrato efficacia nel ridurre lo stigma:
Puhl et al. (2005) hanno riscontrato che la promozione di un consenso favorevole nei confronti delle persone con obesità ha prodotto una riduzione delle convinzioni negative e un aumento delle convinzioni positive. Hanno rilevato che l’aumento degli atteggiamenti positivi ha avuto maggiore successo quando le informazioni di consenso provenivano da una fonte interna al gruppo di appartentenza.

Allo stesso modo i partecipanti allo studio di Yan, Rieger e Shou hanno mostrato un aumento significativo degli atteggiamenti positivi nei confronti degli individui con anoressia nervosa in termini di diminuzione di distanza sociale, caratteristiche positive attribuite e reazioni affettive, in seguito ad un intervento volto a promuovere il consenso sociale. Anche in questo caso l’intervento basato sul consenso sociale è stato efficace quando le informazioni normative sul consenso sociale riguardavano i membri del gruppo, piuttosto che quelli esterni, quindi gli individui hanno maggiori probabilità di cambiare i loro atteggiamenti quando gli spunti per promuovere il consenso sociale provengono da una fonte interna al gruppo piuttosto che da una fonte esterna al gruppo.

Su queste premesse si fonda la ricerca australiana di Cassone S., Rieger E., Crisp DA., la quale suggerisce che attribuzioni biasimevoli nei confronti di individui con anoressia nervosa sono comuni e che queste a loro volta suscitano atteggiamenti più stigmatizzanti nei confronti di chi ha il disturbo. Anche qui si è verificato come l’approccio del consenso sociale per ridurre gli atteggiamenti stigmatizzanti in vari domini e, in quanto tale, questo approccio sembra poter essere una strada promettente per perseguire il miglioramento della stigmatizzazione nell’anoressia nervosa. Il loro studio nello specifico ha cercato di valutare l’efficacia di un approccio di consenso sociale nel ridurre lo stigma nei confronti degli individui con anoressia nervosa. Lo studio ha anche esaminato se attribuzioni biasimevoli fossero associate a cambiamenti nella stigmatizzazione. È stato utilizzato un disegno sperimentale, in cui studentesse universitarie (N = 126) hanno completato le valutazioni self-report che hanno valutato lo stigma verso l’anoressia nervosa al  tempo 1 e  poi al tempo 2, ovvero 6-10 giorni dopo l’assegnazione a una delle due condizioni: consenso sociale e controllo sociale. É stato visto che l’intervento di consenso sociale è stato più efficace della condizione di controllo nel ridurre gli atteggiamenti stigmatizzanti sulle misure che valutano le reazioni affettive (p = 0,025) e che l’efficacia dell’intervento di consenso sociale nel ridurre gli atteggiamenti stigmatizzanti nei confronti del soggetto bersaglio con anoressia nervosa, non era moderato dal livello delle attribuzioni basate sulla colpa.

Interventi per ridurre lo stigma dei DCA possono aiutare a rimuovere le barriere alla divulgazione e alla ricerca di aiuto da parte dei pazienti; tuttavia, non è noto con certezza quali strategie (ad es. spiegare l’eziologia per ridurre la colpa, contattare una persona con un DCA o educare sul DCA) siano efficaci nel ridurre lo stigma. Una review australiana del Department of  Psychology and Counselling, La Trobe University, Melbourne; della Melbourne School of Global and Population Health, University of Melbourne, Parkville; e della  School of Psychology, Deakin University, Burwood; ha descritto l’efficacia delle strategie di intervento e le lacune identificate nella letteratura. É stata eseguita una ricerca di quattro database usando i termini (disturbo alimentare * O bulimia * O anoressia * O binge-eating disorder) E (stigma * O stereotipo * O credenze O atteggiamenti negativi) E (programma O esperimento O intervento O istruzione), con testi aggiuntivi ricercati tramite LISTSERVs.

Due valutatori hanno esaminato i documenti, estratto i dati e valutato la qualità. Le strategie di riduzione della stigmatizzazione e le caratteristiche dello studio sono state esaminate nella sintesi narrativa critica. La meta-analisi esplorativa ha confrontato gli effetti delle spiegazioni biologiche e socioculturali dei DCA sulla stigmatizzazione e si è visto che le spiegazioni biologiche riducevano la stigmatizzazione rispetto ad altre spiegazioni, comprese le spiegazioni socioculturali nella meta-analisi (g = .47, p <.001).

Lo stigma sociale impedirebbe di chiedere aiuto

Un ulteriore studio eseguito dal Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’ Università Milano-Bicocca insieme alla Division of Psychiatry, dell’University College London, in UK, ha indagato come stigmatizzare gli atteggiamenti nei confronti dei disturbi alimentari può portare a una riduzione della ricerca del trattamento. Nello studio è stata stimata la prevalenza di stigmatizzare tendenze e convinzioni legate all’anoressia nervosa (AN) e alla bulimia nervosa (BN), e le associazioni con la conoscenza esperienziale del problema, in un ampio campione di studenti universitari italiani.

Un totale di 2109 partecipanti ha completato un sondaggio online che include questionari relativi a credenze stigmatizzanti verso le due patologie e contatti personali con persone con DCA.

Gli studenti universitari hanno riportato sovrapponibili bassi livelli di tendenze stigmatizzanti per AN e BN, oltre alla responsabilità personale e alla distanza sociale. Gli studenti con una età compresa tra i 18 e i 25 anni e che vivono con la famiglia hanno atteggiamenti di stigmatizzazione più elevati. La stigmatizzazione era inferiore nei partecipanti sottopeso e in quelli (12%) che riportavano una precedente diagnosi di DCA. Sebbene non stia migliorando le attitudini stigmatizzanti, l’83% del campione aveva familiarità con le persone con un DCA.

Sono necessarie azioni che contrastino lo stigma per aumentare la consapevolezza sui DCA e per migliorare i comportamenti di ricerca del trattamento. E’ importante che la ricerca futura continui a guidare lo sviluppo, la valutazione e la diffusione degli interventi di riduzione dello stigma nel contesto di questi disturbi dati gli effetti nefasti della stigmatizzazione sugli individui affetti.

Stigma e autostima nell’anoressia nervosa

Lo stigma sociale è un dato di fatto, sul quale è auspicabile si possa fare tanto di più, per poter abbattere la barriera alla divulgazione ed quindi alla ricerca di aiuto, poiché esiste purtroppo evidenza di auto-stigmatizzazione negli stessi individui con anoressia nervosa (AN) e questo può influenzare l’impegno nel trattamento. L’obiettivo dello studio canadese effettuato dalle Università di Calgary Faculty of Social Work, Calgary, Alberta; di Toronto, Factor-Inwentash Faculty of Social Work; Hospital for Sick Children, Research; e Health Network, Eating Disorders Program, Toronto, Ontario, era di testare un modello di stigmatizzazione del Sé per identificare l’influenza della stigmatizzazione pubblica, interiorizzata, l’autostima e l’autoefficacia sugli atteggiamenti di recupero negli individui in trattamento ospedaliero per AN.

36 partecipanti di sesso femminile con AN hanno completato i questionari durante la prima settimana di trattamento ospedaliero intensivo. Un migliore atteggiamento verso il recupero era correlato positivamente con una maggiore autostima e autoefficacia e correlato negativamente con una maggiore stigmatizzazione interiorizzata e percezioni di altri che svalutavano le famiglie di individui con AN.

Questi fattori hanno rappresentato il 63% della varianza negli atteggiamenti di recupero. I risultati dimostrano dunque gli effetti avversi della stigmatizzazione nei confronti delle famiglie, l’auto-stigmatizzazione e l’autostima nei comportamenti di recupero nei soggetti con AN.

Sono dunque necessari anche interventi clinici per sfidare l’auto stigmatizzazione e rafforzare l’autostima per migliorare gli sforzi di recupero degli individui. Nel libro viene descritta con grande delicatezza l’importanza di recuperare gradualmente le emozioni, ricominciando ad esplorarle e la vitalità che porta con sé l’iniziare a sentire di nuovo.

Briciole di emozioni positive possono aiutare lentamente ad affrontare briciole di emozioni che fanno più paura, per trovare insieme un modo più efficace di affrontarle. Nutrire la resilienza e stimolare un senso di sé più forte e capace di affrontare le difficoltà è la grande sfida, iniziare a coltivare il dubbio che le emozioni non siano proprio così inutili e pericolose è il primo passo verso la guarigione.

[….] l’importanza di essere al mondo e mi ha insegnato a gustare il fascino di un tramonto. […..] in questa battaglia con il corpo deve essere una mente sensibile [….] ad avere la meglio

Si parla di:
Categorie
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
CONSIGLIATO DALLA REDAZIONE
Preoccupazione per l'immagine corporea ed esiti del trattamento nei DCA
Preoccupazioni per il peso o la forma del corpo, paura di aumentare di peso, sentirsi grasso e esiti del trattamento in pazienti con anoressia nervosa: uno studio longitudinale

La preoccupazione per l’immagine corporea sembrerebbe avere un ruolo chiave nel mantenimento dei DCA. Tuttavia pochi studi hanno valutato le principali componenti della preoccupazione per l’immagine corporea e nessuno studio ha analizzato il loro ruolo nell’influenzare gli esiti a lungo termine del trattamento.

ARTICOLI CORRELATI
WordPress Ads
cancel