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Il controtransfert nel mondo interno del terapeuta

I pazienti con le loro storie spesso attivano nel terapeuta dei propri vissuti interiori e personali che è importante considerare e distinguere in terapia.

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 06 Mar. 2019

Professiamo molte cose sagge. Aiutiamo i pazienti nella identificazione e nella modulazione emotiva. Smerciamo elementi di mindfulness e suggeriamo tecniche per gestire le crisi come manna nel deserto. E noi? Noi terapeuti, nella nostra vita quotidiana, come siamo e cosa facciamo?

 

Quando ero una ancora una studentessa universitaria, mi piaceva dire che “un conto è essere terapeuta ed un conto è farlo”, credendo di comprendere a pieno che cosa volesse dire. Avevo imparato che quella frase, magari pronunciata con un tono poetico e con un determinato movimento delle mani, aveva un certo effetto sulle persone, le quali, con una espressione bizzarra, affermavano quasi sempre “ahh…si, giusto”. A quel punto io sollevavo le spalle, come in una sorta di soddisfazione per aver infuso un’ondata di mistero in chi chiedeva quanto potesse essere semplice ma anche controproducente sovrapporre la propria vita privata a quella professionale.

Fare il terapeuta, quello seduto comodamente su una larga poltrona, rigorosamente con le rotelle, in una stanza che deve necessariamente avere una lampada capace di diffondere una luce soffusa, anche se poi non la si accende mai, non vuol dire essere persone perfette, risolte, consapevoli o fruitori di segreti o risposte a domande come “dov’è nascosto il Santo Graal?”, “quanto è lunga la Muraglia Cinese?”. Nessun paziente, alla fine della più brillante psicoterapia, con il miglior terapeuta del mondo, saprà questo. Ma se sarà andato tutto liscio, avrà certamente fatto esperienza di condivisione e calore. Si cerca di comprendere, di vedere da vicino cosa ci spinge a fare determinate scelte e si prova a smussare delle parti dolorose, ad allenare quelle nuove e adattive, a gestire le emozioni negative. Si cambia, certo. Si può cambiare e tanto ma ci potranno anche essere aspetti che in quel momento storico della vita non si è disposti ad analizzare oppure a smuovere. Divenire consapevoli anche di questo, è un ulteriore traguardo.

Quello che, dopo pochi anni dall’inizio della mia pratica clinica, ho cominciato a sentire è che i pazienti hanno delle storie molto simili alle vite dei terapeuti e, dall’incontro relazionale, a volte ne usciamo con qualche spunto di riflessione. Infatti, in questi ultimi mesi, mi sono ritrovata molte volte a fare i conti con quello che mi portavo a casa alla fine di alcune delle mie giornate di lavoro. Per essere tecnici si chiama “arousal” ed è il corpo che ci avvisa che è accaduto qualcosa dentro di noi. Quest’attivazione dura il tempo che dura e possiamo farci varie cose: la subiamo, la lasciamo lì, la osserviamo, la regoliamo, oppure le diamo una cornice di significato e nome e vediamo dove ci porta.

Ci sono stati pazienti che con le loro storie hanno toccato corde mie personali e problematiche ed ho pensato a tutte quelle volte che mi sono sentita dire che un terapeuta deve essere perfettamente risolto. Ma cosa vuol dire “perfettamente”? Vuol dire una volta per tutte? Cosa vuol dire “risolto”? Vuol dire che si arriva ad una conoscenza così profonda di se stessi che dopo possiamo trascorrere gli anni della nostra vita ad osservarci tipo attori in un film, reagendo in modo funzionale ad ogni minimo turbamento? No, la questione non mi convinceva prima e di certo non riesce a convincermi adesso, per niente. La terapia non dovrebbe essere considerata uno spartiacque tra un prima, fatto eventualmente di sintomi e relazioni problematiche, ed un dopo in cui diventiamo immuni a tutti. Se pensiamo questo e se, poco poco trasmettiamo questo messaggio ai nostri pazienti, non staremmo forse esagerando?

Se fosse tutto così semplice potrei dire: bene, la mia terapia l’ho fatta, le mie supervisioni anche. Sono apposto. Eppure come spieghiamo tutto questo?

Alcuni esempi pratici

D. una paziente, con un grave disturbo dell’umore aveva incontrato due, tre terapeuti prima di me che avevano capito poco o niente. In una seduta mostra i suoi deliri, chiaro inizio di una fase maniacale. Dopo molti mesi di terapia, ed un durissimo lavoro sulla nostra relazione, oltre a tutto quello sulla sintomatologia che le rendeva davvero difficile viversi la quotidianità, D. con le lacrime negli occhi mi dice quanto fosse felice di aver incontrato qualcuna capace di guardarla senza paura, nonostante le sue parti oscure, dure, disturbanti. Pensai subito a quanto dovesse essersi fidata di me e questo mi gratificò. Però nello stesso momento, sentii paura. Già dal corpo la riconoscevo. Avevo mal di testa, la fronte corrucciata, il corpo rigido ed un passo lento. Non è da me. Quando mi fermai a pensare cosa avessi nella mia mente, vi ritrovai la paura del fallimento. Sì, proprio quella che avevo cercato di smussare con la mia terapia personale. Meglio ancora, era la paura di deluderla dopo che si era affidata a me. Mi son dovuta regolare un bel po’, concettualizzare tutto nella testa e capire che quello che stava succedendo era una roba che mi porto tipo seconda pelle da quando ero una poppante di 5 anni e pur sapendo da dove è nata e come si è cementata dentro me, a volte ritorna.

M. era un paziente con un disturbo dipendente di personalità che non riusciva a lasciare la sua compagna. Solo a pensarci, entrava in uno stato di dolore inquantificabile. Abbiamo lavorato tanto sull’attivazione del suo schema interpersonale maladattivo e sulle strategie di coping che metteva in atto. Quando d’improvviso incontrò una donna che lo faceva sentire come avrebbe sempre desiderato, non incapace di stare solo, non indispensabile, ma gli prospettava la possibilità di fare quello che lui stesso desiderava, essere e dire quello che lui stesso voleva, entrò in crisi. Per la prima volta poteva scegliere, essere e fare senza sentire necessariamente di doverlo fare. Dopo averlo sinceramente validato, per aver avuto la forza di accogliere l’amore, ne ho apprezzato la capacità di non lasciarsi bloccare dalla paura. Ricordo che in un momento difficile della mia vita privata, alla fine di una seduta con lui, mi trovai abbandonata in quella poltrona; era estate e quindi non fu molto piacevole notare che le mie spalle si erano completamente fuse con la finta pelle della sedia. Ero triste e sapevo che era un’attivazione mia relativa a quello che stavo vivendo in quel periodo. Ad essere più precisi, ci fu una roba ancora più pensate che ho sentito dentro di me. La vogliamo chiamare con il vero nome? Posso provarci? Ok, si chiama invidia. E mi sentivo quasi una cattiva terapeuta. Non dovrei essere incondizionatamente dalla parte del mio paziente e gioire insieme a lui? Non stava andando proprio così. O meglio, ero sinceramente felice per lui e grata a me stessa per il nostro lavoro insieme ma non potevo fare a meno di pensare che quella sua storia mi stava mettendo di fronte ad una parte di me vulnerabile.

In conclusione

Questi sono soltanto dei piccoli esempi di come i pazienti, spesso e volentieri, toccano le corde più profonde di noi terapeuti. Credere nella possibilità di cambiare è un fondamentale per poterli accompagnare nel percorso di crescita personale ma, nel cammino insieme, teniamo bene a mente quello che accade dentro di noi.

Se qualcosa risuona in modo troppo intenso, e notiamo che è un’attivazione eccessiva, fermiamoci perché forse c’è qualcosa che va rivisto. Ed oggi so che non c’è niente di male in questo. Anzi, so che può anche essere espressa, d’altronde, l’hanno concettualizzata molto bene. Si chiama “controtransfert”. Autori come Tauber e Cohen ne hanno parlato abbastanza e nel corso della storia della psicoterapia il punto di vista è cambiato notevolmente. Infatti oggi si guarda al controtransfert come un qualcosa che non necessariamente interferisce con il lavoro con il paziente. Se sappiamo cosa farne, ovviamente. Se sappiamo riconoscerlo, soprattutto.

Thompson (1964) parla di controtransfert razionali e irrazionali per indicare quello che accade nel terapeuta e quello che invece accade come riflesso dell’attivazione del paziente. La terapia metacognitiva interpersonale (Dimaggio et al., 2013) spiega sotto una veste più fresca e moderna la questione:

per regolare la relazione terapeutica è utile che il terapeuta volga l’attenzione su di sé, si guardi dentro e analizzi e riconosca le emozioni e le sensazioni che il paziente procura… la reazione soggettiva del terapeuta informa sulla realtà interna del paziente, ma non completamente…. Il terapeuta deve compiere interventi tecnici… e se non ci riesce deve esplorare il suo mondo interno… nel momento in cui si rende conto che non sta tanto reagendo al paziente ma a determinate figure interiorizzate, differenzia egli stesso e trova la lucidità per uscire dall’impaccio relazionale… (Dimaggio et al., 2013; pag.96).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Cohen, M. (1952). Countertransference and anxiety. Psychiatry, 15, pp. 231-243.
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina Editore.
  • Tauber, E., Green, M. (1959). Prelogical experience. Basic Books, New York.
  • Thompson, C.M. (1964). Psicoanalisi interpersonale. Bollati Boringhieri, Torino 1972.
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