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Combattere la solitudine sentendoci meno disgustati da noi stessi

Nella cura di chi soffre di solitudine e vive al contempo un forte senso di disgusto verso di sé non basta lavorare sul miglioramento delle abilità sociali

Di Enrica Gaetano

Pubblicato il 20 Dic. 2018

La solitudine è un sentimento molto diffuso all’interno della società attuale e sempre di più a tale condizione si accompagna un senso di disgusto verso di sé. Proprio per questo motivo per affrontare in maniera efficace i sentimenti di solitudine che ci riferiscono i nostri pazienti potrebbe essere necessario andare oltre gli interventi focalizzati sulla riduzione dell’isolamento sociale.

 

Un commento di Antonia Ypsilanti, professoressa di psicologia cognitiva alla Sheffield Hallam University, UK, recentemente apparso su Palgrave Communication, un open-journal affiliato a Nature, offre una riflessione sulla relazione tra solitudine e sensazione di disgusto verso se stessi, uno stato affettivo di tipo avversivo che riflette disgusto verso la propria persona. L’autrice sottolinea l’importanza di prendere in considerazione tale stato nei trattamenti focalizzati sulla riduzione dell’isolamento sociale e della solitudine, in quanto il mero apprendimento di abilità e la ricerca di opportunità di contatto sociale risulterebbero inefficaci nei soggetti con un’alta percezione di self-disgust, più inibiti e recalcitranti al contatto sociale.

Un report della World Health Organization suggerisce che la solitudine, o più in generale, il sentirsi soli, socialmente isolati o esclusi è tra i fattori di rischio più significativi per l’insorgenza di problematiche relative alla salute mentale fra gli adulti (WHO, 2017). In particolare la solitudine, cioè la discrepanza percepita tra i propri bisogni sociali soggettivi e la misura in cui questi vengono soddisfatti attraverso interazioni sociali significative, rappresenta un sintomo transdiagnostico, che correla con altri disturbi quali ansia, stress cronico, depressione, rischio suicidario, problematiche del sonno (Cacioppo et al., 2015), spesso in modo persistente aggravando il quadro clinico.

Gli effetti della solitudine sul benessere psicofisico sarebbero paragonabili a quelli determinati dai maggiori fattori di rischio per la salute come l’obesità e il fumo di sigaretta, effetti che nelle persone “sole” aumenterebbero del 26% la probabilità di mortalità (Ypsilanti, 2018).

Partendo da questi dati, numerose organizzazioni che si occupano di salute mentale si stanno attivando per lo sviluppo di programmi e interventi sociali volti ad aumentare la consapevolezza circa questo fenomeno e ridurne così la prevalenza nella popolazione, attraverso l’apprendimento di skills sociali e l’offerta di nuove opportunità per incrementare la propria rete amicale favorendo relazioni interpersonali.

Solitudine e disgusto verso se stessi: come è possibile aiutare chi vive questa condizione?

Tuttavia l’autrice del commento preso in considerazione sottolinea che in molti casi il miglioramento delle abilità sociali o l’aumento dei contatti nella propria rete sociale non sarebbero sufficienti o pienamente appropriati per le persone che esperiscono solitudine, in quanto in esse i prevalenti sentimenti negativi verso se stessi, costituiti dal self-disgust, ostacolerebbero seriamente la nascita di relazioni e che, di conseguenza, per poter intervenire efficacemente sulla solitudine occorrerebbero trattamenti specifici e mirati al self-disgust (Ypsilanti, 2018).

Il disgusto verso se stessi o self-disgust è propriamente uno stato affettivo negativo il cui contenuto è determinato da una predisposizione all’esperienza di disgusto autoriferito appresa nel corso di numerose e precoci esperienze di vita, in cui la persona gradualmente ha imparato a far propri giudizi negativi su di sé a seguito di processi di confronto sociale. Tali giudizi nel corso del tempo sono andati a costituire un repertorio di credenze disfunzionali sul sé che si sono associate a emozioni negative come colpa e vergogna (Overton, Markland, Taggart et al., 2008), emozioni che la persona esperisce nel momento in cui si riattiva questa catena di pensieri disfunzionali.

La percezione di solitudine indurrebbe così stati negativi legati all’avversione, l’odio e la disapprovazione verso se stessi, mantenuti da processi di ruminazione autocritica in cui la persona è intrappolata in un circolo vizioso di auto denigrazione, insicurezza, bassa autostima e mancanza di attrattività che alimentano il self-disgust e inibiscono la persona dall’intraprendere attività sociali (Ypsilanti, 2018).

La percezione di isolamento sociale associata al self-disgust è maggiormente presente nei giovani adulti rispetto agli anziani ed è significativamente connessa all’inibizione sociale, un tratto di personalità che predispone i soggetti a tensioni e insicurezze in contesti relazionali (Lazarus, Ypsilanti, Powell & Overton, 2018).

Attualmente non esistono piani specifici per la riduzione del disgusto verso se stessi, tuttavia diversi interventi come quelli basati sulla self-affirmation (l’autoriflessione sui propri punti di forza e tratti positivi), la mindfulness e la self-compassion sembrerebbero avere buone prove di efficacia su tale stato negativo, in quanto hanno come target sia la modifica dei contenuti autodenigratori sia l’interruzione dei processi ruminativi che intensificano e aggravano il self-disgust. A parere dell’autrice, data questa relazione tra disgusto verso se stessi e solitudine, in particolare gli interventi che utilizzano la self-compassion risulterebbero più idonei per la riduzione della solitudine, dal momento che mirano alla modifica delle autovalutazioni estremamente negative, quindi anche quelle relative al disgusto di sé, per alleviare le emozioni spiacevoli ad esse associate (Ypsilanti, 2018).

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