Alzi la mano chi, in attesa di incontrare per la prima volta un paziente, con cui magari fino a quel momento vi è stato soltanto un breve contatto telefonico o via mail, non è mai entrato in uno stato mentale particolare.
Se tarda qualche minuto subito si può pensare Ecco, non verrà e non mi ha neppure avvisata. Avrei potuto fare altro in questo tempo….ma che maleducazione… e nel bel mezzo di questo squilla il telefono: il paziente, semplicemente, non riesce a trovare il civico. Ed ecco, allora, che ci diciamo qualcosa tipo: ho sbagliato a pensare questo…ora mi sentirò in colpa. In entrambi casi, ci andiamo giù pesante.
Primo colloquio: chi entrerà dalla porta?
Altro scenario. Al telefono sembra adulto. So per certo che quando aprirò la porta e mi vedrà bassa, giovane, penserà che sono la segretaria e chiederà “dov’è la dottoressa?”. A quel punto io arrossirò, e penserò di dover fare di tutto per dimostrare il mio valore. Meno male che oggi mi sono vestita bene e che ho indossato le scarpe alte. Arriva il paziente, si siede e sembra non interessarsi proprio ai nostri dati anagrafici, alla nostra altezza, né alla marca delle nostre scarpe. Quasi quasi, ci restiamo male.
Altra possibilità, che spesso mi capita di vivere. Il paziente arriva a studio, si siede, e con fare curioso proviamo a capire il motivo della sua richiesta di aiuto. Lui/lei parla, parla, parla ancora e questo motivo sembra non esserci. A casa tutto bene, a lavoro anche, con gli amici uguale…e quindi? Proviamo a chiedere, con la frase passepartout, Che cosa potrei fare per lei? e segue una risposta vaga, confusa, incerta.
Primo colloquio: le emozioni del terapeuta
Questi sono soltanto degli esempi ma nella realtà capita di frequente di viversi il primo appuntamento con il nuovo ipotetico paziente con delle emozioni attive come ansia, paura, vergogna. Il terapeuta può sentirsi demotivato, sfidato, incerto, gli sembra di non aver capito nulla del colloquio, gli sembra di essere sotto esame e si entra in stati mentali difficilmente regolabili. La prima cosa che, però, rende ostica la risoluzione degli stessi, è che siamo davvero poco consapevoli di quello che sta capitando e ci troviamo ad agire, spesso in modo disfunzionale, piuttosto che regolare la relazione. Allora ci arrabbiamo, ci distanziamo, ci mettiamo a discutere circa posizioni e punti di vista con il rischio che il paziente si senta non accolto, non capito oppure che scelga di non intraprendere proprio la terapia.
La difficoltà principale è che da stati mentali di questo tipo si scivola facilmente in cicli interpersonali negativi che influenzano la seduta. Questo è dannoso in ogni fase della terapia ma, capiamo bene che, se accade in fase iniziale, può minare tutto il percorso se non addirittura, bloccarlo. Infatti, quante volte capita che il paziente dopo il primo colloquio disdice il secondo appuntamento congedandosi con un “la richiamo io quando posso, ora è un periodo in cui sono molto impegnato”. È il caso, però, di sottolineare che questo può accadere per altri motivi, anche se il primo incontro viene condotto bene e l’esplorazione è condivisa in un clima caldo e collaborativo. Possono esserci tante spiegazioni, quindi, che non dipendono dalla dimensione interpersonale.
Primo colloquio: la pericolosità dei cicli interpersonali
Ricordiamo che un ciclo interpersonale (Safran e Muran, 2000) ha avvio quando l’incontro con l’altro viene letto attraverso la lente del proprio schema patogeno e l’altro, per l’appunto, reagisce. Infatti, ad esempio, se il terapeuta con il proprio schema di inadeguatezza, si mostra più preoccupato di cosa e come fare o dire, il paziente può sentirsi poco accolto; il terapeuta a sua volta legge questo come un fallimento personale, e può disinvestire, ritirarsi, oppure impegnarsi ancora di più nel riprendere una dimensione basata sulla performance. Bisogna, allora, ricordare che
Non si tratta di reazioni oggettive, ma di modi soggettivi di entrare in relazione con quella specifica persona. La reazione soggettiva del terapeuta informa sulla realtà interna del paziente, ma non completamente (Dimaggio et al., 2013, p.95).
Per concludere, le infinite combinazioni tra schemi interpersonali patogeni e disfunzioni metacognitive tra paziente e terapeuta giustificano una quantità pressoché infinita di problemi di sintonizzazione. È dovere del clinico, quindi, riconoscere le proprie vulnerabilità sotto questo punto di vista e tentare di agirle il meno possibile. Pur comprendendo quanto questo possa essere difficile nel vivo dell’incontro con l’altro, siamo responsabili della cura e della modulazione della relazione terapeutica nelle sue componenti esplicite ed implicite, verbali e non.
Io, intanto, per precauzione, indosso spesso le scarpe alte, non si mai.