Alcuni affermano con certezza e malcelato orgoglio di avere una soglia del dolore molto alta, intendendo con ciò che resistono bene al dolore e sottintendendo che se si lamentano allora deve essere proprio molto intenso se non insopportabile.
CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La fallacia delle autovalutazioni e l’autocaratterizzazione (Nr. 47)
La questione sarebbe davvero di poco conto se le riflessioni che suscita non fossero estendibili a tutto ciò che uno può dire di sé non fondandosi su dati oggettivi di raffronto con un campione omogeneo ma sulla comparazione di presunti vissuti soggettivi.
Quando affermo che ho una soglia del dolore molto alta è perché valuto molto forte quel dolore che provo e riesco a tollerare, e non è forse questo l’indicatore di una bassa soglia del dolore? Insomma l’“io” soggetto che valuta che il “me” oggetto ha una alta soglia del dolore è solo perché lui ce l’ha molto bassa.
È il solito discorso per cui qualsiasi valutazione su se stessi, considerato che il soggetto è allo stesso tempo un “io” valutatore ed un “me” valutato, ci dice poco di oggettivo sul “me” e molto sull’“io” valutatore.
Un altro esempio viene dalla mia personale esperienza di direttore di una struttura con trecento psicoperatori che ogni anno deve valutare con l’ausilio dei suoi collaboratori ciascun dipendente. Regolarmente i migliori a cui venivano attribuiti dei riconoscimenti li reputavano sinceramente immeritati avendo, a loro parere, fatto solo il loro dovere e neppure sempre al meglio. Al contrario quelli che meno si impegnavano sul lavoro ritenevano di meritare premi essendosi sforzati all’inverosimile. Anche in questo caso tutto ciò è comprensibile. Un buon lavoratore ha alti standard, si valuta da quel punto di vista e si ritiene appena sufficiente. Al contrario uno sfaticato pensa che lo stipendio sia un diritto acquisito per il fatto di essere stato assunto e null’altro debba fare, talvolta neppure essere presente affidando ad altri il proprio cartellino segna presenze.
Ancora, un vero narcisista pensa di essere incredibilmente modesto rispetto alle sue potenzialità e una personalità ossessiva può percepirsi come tendente alla sciatteria.
Attenzione questo non è un invito a diffidare sistematicamente delle affermazioni che una persona ed anche un paziente fa su di sé. Ci dicono molto di lui soprattutto se poniamo l’attenzione sul punto di vista dal quale tale affermazione è fatta (per capirci sull’“io” che la fa, sul descrittore piuttosto che sul “me” che è descritto).
Quanto detto dunque non è in contraddizione con l’invito del cognitivismo ad ascoltare e prendere per buono quanto ci dice il paziente, piuttosto che spiegarcelo con le nostre teorie giustificando il suo disaccordo come una resistenza confermante la nostra ipotesi. Al contrario si tratta di ascoltarlo molto attentamente chiedendosi e chiedendogli rispetto all’affermazione che fa su di sé (sono fragile, sono generoso, sono coraggioso, ecc ecc.):
Da quale punto di vista fa questa affermazione?
A cosa gli è utile pensarsi così?
A cosa gli serve dire a me che si pensa così?
Dunque di fronte a quello strumento duttile, semplice e poco impegnativo che è l’autocaratterizzazione dobbiamo ricordarci che non è “come il paziente è” ma, in parte “come il paziente crede di essere” e soprattutto “come il paziente vuole che io creda che lui si vede”.
Tralascio il caso particolare di coloro che esordiscono con “perché io sono sincero, dico sempre ciò che penso in ogni occasione, senza peli sulla lingua” che mi accendono la scala “L” del mio interno MMPI, mi sollecitano regolarmente a rispondere con un “Io invece tendo sistematicamente a mentire e a cambiare versione a seconda del contesto e delle convenienze” e soprattutto mi fanno partire con violenza il ginocchio destro in avanti con destinazione testicolare.