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La bellezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 43

La bellezza e il modo in cui ne facciamo esperienza è un tema sul quale si dibatte da sempre, rispetto al quale diverse discipline, non solo filosofiche, hanno cercato di dare delle risposte che consentissero di dare un senso a quest'esperienza, alla sua origine e ai fattori coinvolti

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 10 Ott. 2018

In cosa consiste l’esperienza della bellezza? Cosa intendiamo quando diciamo che una cosa è bella? Quali sono gli ingredienti mentali indispensabili nell’esperienza della bellezza e a cosa serve fare questa esperienza? Sono solo alcune delle domande a cui cercheremo di rispondere in una riflessione aperta sul tema della bellezza.

 

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La bellezza (Nr. 43)

 

La bellezza è l’eternità che si mira in uno specchio. 
(Kahlil Gibran)
La bellezza è soltanto la promessa della felicità. 
(Stendhal)
Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia. 
(Marcel Proust)

 

Prima che un neuroscienziato di qualche sconosciuta università statunitense risolva il discorso sulla bellezza identificando un’area ficcata in qualche anfratto del cervello, dove scoprirà che alla chetichella giungono afferenze secondarie dei cinque sensi e che attivandosi, come la risonanza magnetica funzionale segnala, accendendo tutti gli special da antico flipper, genera l’esperienza soggettiva del bello e la nomini, chissà perché, “Beauty 301/15”, credo doveroso ragionare su quanto la cultura occidentale ha prodotto nei millenni sul tema in questione.

Probabilmente anche il neuroscienziato yankee muoverà dal grande interesse della psicologia per il fatto che la proporzione aurea costituisca una regola pressoché costante nell’arte occidentale, dagli egizi, ai greci, al Rinascimento, quando ancora non se ne conosceva il calcolo matematico. Infatti Il “De Architectura” di Vitruvio (I secolo a.C.), reso noto dal famosissimo disegno di Leonardo Da Vinci chiamato appunto “l’uomo vitruviano”, tramanderà sia al Medio Evo che al Rinascimento istruzioni per la realizzazione di proporzioni architettoniche ottimali. 
La sezione aurea, la divina proporzione di cui parla Fra Luca Bartolomeo de Pacioli vissuto nel XV° secolo religioso, matematico ed economista italiano, autore della “Summa de Arithmetica, Geometria, Proportioni e Proportionalità e della Divina Proportione”, molto noto tra i commercialisti per aver inventato “la partita doppia”, è quel rapporto che si realizza in un segmento AB quando, posto un punto C di divisione, AB sta a AC come AC sta a CB. 
Lo studioso americano da questo fatto – oltre che dalle leggi della Gestalt – riterrà confermata la tesi dell’esistenza nell’uomo di parametri estetici universalmente dati, vale a dire specie-specifici, caratteristici della specie umana e citerà gli studi dei fisiologi della visione Stone e Collins che spiegano la preferenza per la proporzione aurea basandosi sulla configurazione rettangolare del campo visivo umano con dimensioni il cui rapporto è molto vicino a quello della sezione aurea stessa.

Per noi del vecchio mondo il tema meriterebbe un approccio multidisciplinare coordinato, ad averlo, da un filosofo. Per questo dalla mia prospettiva psicologica mi limiterò ad una serie di enunciati, senza scrupoloso obbligo di non contraddizione per porre domande, piuttosto che trovare risposte.

I cinque quesiti che intendo pormi sono:

  1. Cosa intendiamo quando diciamo che una cosa è bella?
  2. In cosa consiste l’esperienza della bellezza?
  3. Cos’hanno in comune un paesaggio, un’opera d’arte, una musica, un corpo che consideriamo belli?
  4. Quali sono gli ingredienti mentali indispensabili nell’esperienza della bellezza e, infine, serve a qualcosa ed eventualmente a cosa?
  5. Insomma esiste un’essenza della bellezza, in cosa consiste, quanto è oggettiva o soggettiva (Umberto Eco sostiene che né la bellezza fisica né di altro genere sia immutabile nel tempo e nello spazio e che i criteri che la definiscono cambiano continuamente)? E che farne?

Sono tutti quesiti che non credo perdano di importanza anche quando il solerte ragazzo a stelle e strisce avrà identificato l’area “Beauty 301/15”.

Ecco alcune tesi:

La bellezza è un esperienza assolutamente soggettiva che esprime una relazione tra un oggetto e un soggetto dotato di sensi e intelletto. Se, a mio avviso, la realtà oggettiva esiste anche senza un testimone umano per cui un albero si può dire che sia effettivamente caduto al centro di una foresta anche se nessuno lo vedrà o lo saprà mai, non altrettanto si può affermare della bellezza: senza una mente che la coglie non c’è bellezza.

Ci appare bello ciò che ci sembra in grado di poter soddisfare un nostro bisogno o scopo. In questo modo si spiega la diversità individuale, storica e culturale del giudizio di “bello” perché diversi sono i pattern motivazionali delle varie culture e, al loro interno, dei vari soggetti che hanno dunque gusti individualissimi. Se alcune cose, pochissime per la verità (basti pensare ai diversi giudizi sulle varie correnti artistiche) appaiono belle quasi a tutti e ci fanno pensare all’esistenza di una bellezza oggettiva è semplicemente perché apparteniamo tutti alla specie umana e condividiamo un’ampia parte dei nostri scopi, primi fra tutti quelli inerenti la sopravvivenza (alimentazione, protezione dalle minacce, mantenimento dell’omeostasi) e la riproduzione. Proprio sulla bellezza fisica, connessa a quest’ultimo aspetto e così all’ordine del giorno nella nostra cultura attuale è sorta con mio figlio questa riflessione interrogandoci banalmente su quale fosse l’essenza ultima della commovente bellezza del femminile che la stagione calda esalta. Seguendo questa prospettiva di equilibrio tra universalità ed individualità si potrebbero elencare una serie di bisogni comuni degli esseri umani, fisici e psicologici, che si personalizzano in ogni individuo e per ciascuno di essi immaginare un certo tipo di bellezza, consistente nell’aspettativa che la relazione con quell’oggetto possa portare alla soddisfazione di quel bisogno.

La bellezza è sopratutto una promessa di felicità. Gotthold Ephraim Lessing, un filosofo tedesco del ‘700 affermava precorrendo la pubblicità del Campari red passion che “l’aspettativa del piacere è essa stessa piacere” e, secondo Freud, ha il compito di tenere l’apparato psichico in uno stato di costante contenuta eccitazione. Prima che effettivamente lo faccia: la bellezza è l’anticipazione, la promessa, l’aspettativa di un soddisfacimento.

L’esperienza soggettiva della bellezza è una emozione genericamente positiva accompagnata da una valutazione positiva di bello, buono, giusto e vero (Keats diceva riprendendo un concetto aristotelico e platonico che “la bellezza è verità e la verità è bellezza) e da un’attrazione verso l’oggetto bello.

L’esperienza della bellezza immediata e irriflessa è appunto la sintesi di tutte le valutazioni positive che dunque sussume, è il totalmente OK (per farmi capire dal collega d’oltreoceano che magari perderà tempo a leggerci) e tale valutazione è emotiva così come la paura è la valutazione di una minaccia più immediata e rapida della consapevolezza analitica cosciente della presenza di un pericolo.

Il dolore della bellezza. La bellezza, come sopra detto ci fa intuire la possibilità dell’appagamento di un desiderio o di un bisogno profondo senza che questo avvenga veramente, il che eliminerebbe il desiderio stesso. Percepire una bellezza equivale ad avvertire una mancanza e la possibilità di colmarla. Plotino afferma che il bello è un ideale irraggiungiubile, qualcosa verso cui tendere, da cui il senso di incompletezza che ad esso è necessariamente connesso (mille esempi in tal senso vengono in mente circa l’esperienza amorosa caratterizzata dal desiderio di un incontro che non si basta mai e non è mai del tutto appagato). La percezione di questa mancanza dà ragione di un aspetto dolente presente nell’esperienza della grande bellezza che rimanda, appunto, alla propria incompiutezza. Sta forse in questo il rischio di morte immediata per chi veda il volto di Dio che dunque, garbatamente, si mostra al massimo sotto le sembianze di roveto ardente.

La bellezza è inutile. Secondo Kant due sono le caratteristiche del bello: è colto intuitivamente senza bisogno di ragionamenti o spiegazioni coscienti che semmai possono sostenerlo ma subentrano in un secondo momento (credo sia quello che fanno i critici dell’arte) ed è un fine in sé e non un mezzo per qualcos’altro ed è in tal senso “inutile”, superfluo.

Natura e cultura nella bellezza. Tutti gli autori concordano sulla duplice origine biologico/ereditaria e culturale dei canoni della bellezza. Quelli biologici/ereditari sono certamente più universali e prioritari sopratutto per quanto riguarda la bellezza fisica e la connessa appetibilità sessuale a scopo riproduttivo. Sono considerati belli (con un diverso peso nei due sessi a motivo del diverso ruolo che giocano nella vicenda riproduttiva) gli indicatori di salute, giovinezza e forza che promettono una lunga durata e dei marcati caratteri sessuali indici di fecondità. Spesso si è attratti inconsciamente da aspetti complementari a quelli che si possiedono (ciò che ci manca) come se si ricercasse di ricreare nella prole un equilibrio.

Eros e Tanatos. La bellezza è fortemente connessa alla vita e dunque alla temporalità e come tale alla morte, da cui l’indissolubile intreccio tra eros e tanatos. Del resto, il valore della vita stessa è dato dalla sua finitezza: è legge di mercato che il valore di un bene sia direttamente proporzionale alla sua limitatezza. La bellezza, l’amore, come la vita stessa, sono preziosi proprio perché caduchi ed hanno dunque connaturato un aspetto drammatico, particolarmente sottolineato da Stendhal.

La bellezza oggettiva. Pur privilegiando in queste riflessioni un approccio soggettivistico e relazionale al tema del bello è doveroso e utile riportare gli sforzi di quegli autori che hanno cercato di darne una definizione quanto più possibile oggettiva. Tra questi va ricordato William Hogarth pittore e scrittore del 18° secolo autore de “the analysis of beauty” in cui esprime i sei criteri del bello e la sua teoria della curva della bellezza una linea curva a forma di “S” che cattura l’attenzione dell’osservatore suscitando l’idea della vivacità, dell’armonia e del movimento e che, personalmente, ritrovo per quanto riguarda la bellezza fisica femminile nella schiena che si fa sedere, nella curvatura controgravitazionale della coscia che si fa a sua volta sedere, del torace che si solleva in seno e nell’alternarsi di concavità e convessità, rotondità, vette e precipizi oscuri e segreti del corpo femminile. Secondo questo autore sono sei i principi del bello:

  1. la fitness, intendendo con ciò la complementarietà con l’ambiente circostante, vale a dire che una cosa è più o meno bella a seconda di come si armonizza con ciò che ha intorno e rimanda, a mio avviso, alla piacevolezza di un puzzle che si completa dando l’esperienza del “tutto al suo posto”
  2. la varietà, opposta all’uguaglianza e alla monotonia e ciò forse in relazione al fatto che tutti i nostri organi di senso apprezzano sopratutto le differenze, i cambiamenti, le discontinuità
  3. la regolarità, che mitiga la varietà stessa e trasmette il rassicurante senso di prevedibilità e familiarità, tanto caro soprattutto ai bambini
  4. la semplicità, che consente di afferrare tutto l’oggetto contemporaneamente con un solo atto percettivo. In questa semplicità consiste l’eleganza di teorie e formule matematiche definite appunto belle
  5. complementare seppure apparentemente contradditoria alla semplicità è la intricacy, da intendere come complessità che attiva il desiderio di capire ed il piacere esplorativo
  6. l’ultimo criterio è la grandezza, da intendere come quantità e abbondanza

Tensione. Mi sembra interessante notare nello sforzo di Hogarth come i criteri che identifica siano spesso polarità opposte e ciò mi suggerisce che ad un livello “meta” si possa dire che la bellezza sia essenzialmente una continua tensione tra opposti. Ad esempio, in particolare per quanto riguarda la bellezza femminile si alternano nella storia due opposti modelli: uno è la venere greca che predomina attualmente con fattezze efebiche e adolescenziali; l’altro è la venere paleolitica grassa, con grosso seno e enorme sedere. Nella storia del gusto si alternano modelli tondeggianti (simboli di fertilità) e modelli più sottili e slanciati (tipici dell’adolescenza). 
Le donne di Rubens e di Renoir richiamano certe caratteristiche della Venere paleolitica mentre la Venere del Botticelli si propone come sintesi avendo forme sensuali e slanciate allo stesso tempo. Forse è davvero in questa tensione armonica tra gli opposti che va ricercata l’essenza della bellezza come già sosteneva Eraclito dicendo che “se esistono nell’universo degli opposti, delle realtà che paiono non conciliarsi, come l’unità e la molteplicità, l’amore e l’odio, la pace e la guerra, la calma e il movimento, l’armonia tra questi opposti non si realizzerà annullando uno di essi, ma proprio lasciando vivere entrambi in una tensione continua. L’armonia non è assenza bensì equilibrio di contrasti”.

L’amore dolente. Questa concezione, che pone la sublimità nel contrasto e nella tensione, si è estesa anche ai sentimenti con la concezione dell’amor cortese, che nasce nell’XI° secolo con la poesia dei trovatori provenzali, seguita dai romanzi cavallereschi del ciclo Bretone e dalla poesia degli stilnovisti italiani. 
In tutti questi testi si fa strada una particolare immagine della donna, come oggetto d’amore casto e sublimato, desiderata e irraggiungibile, e spesso desiderata proprio in quanto irraggiungibile. 
Sorge un ideale di bellezza femminile, e di passione amorosa, in cui il desiderio viene amplificato dall’interdizione, la dama alimenta nel cavaliere uno stato permanente di sofferenza, che il cavaliere accetta con gioia, di qui le fantasie di un possesso sempre dilazionato, in cui più la donna è vista come irraggiungibile, più s’alimenta il desiderio. 
Questa concezione dell’amore impossibile, nata nel tardo medioevo, è stata poi amplificata dall’interpretazione romantica, ma si può dire che l'”invenzione” dell’amore-passione (nella sua forma cioè di passione eternamente insoddisfatta, fonte di dolce infelicità) sia nata proprio allora, e da lì abbia colonizzato l’arte moderna, dalla poesia al romanzo, all’opera lirica.

Delle domande iniziali è rimasta ancora fuori quella sull’utilità del senso della bellezza e attenzione perché il solo tentare di rispondervi sembrerebbe contraddire quanto affermato con Kant al punto 7 sull’inutilità della bellezza ma non è così perché stiamo parlando di due livelli logici diversi. Certo l’oggetto bello non serve ad altro, è bello e basta. Ma a cosa ci serve come individui e come specie il senso della bellezza: la capacità di percepirla e di esserne attratti?

Credo che consistendo essa in una valutazione spontanea immediata e complessiva della positività di qualcosa la sequela della bellezza sia la strada maestra verso la vita. Ai giovani potremmo dire “seguite la bellezza e vivrete a lungo felici e contenti e avrete tanti figli (belli)”.

Però Daje!!

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