Obiettivo dell’ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI.
Etica, psicologia, medicina, diritto: discipline al servizio dell’umana sofferenza nel momento cruciale in cui essa esita nel passaggio verso l’altro aspetto della vita stessa, la morte, in quanto evento fisiologico, inevitabile, che necessita accompagnamento, supporto professionale, sociale ed emotivo.
Quali allora le competenze comunicative e terapeutiche da mettere in atto nel momento delicatissimo in cui la malattia cronica, terminale, diviene diagnosi clinica e in cui la “scelta” delle cure diviene determinante nel senso alto del “prendersi cura” del malato e dei suoi ultimi giorni? Ancora, quale ruolo concesso all’autonomia decisionale rispetto alla scelta stessa delle cure di fine vita da parte del paziente?
Queste in sintesi gli interrogativi mossi dalla Giornata Nazionale FADOI-ANIMO del fine vita, svoltasi il 7 aprile scorso a Palermo, con il Patrocinio del Ministero della Salute.
Il nostro obiettivo come ANIMO, Associazione Nazionale Infermieri Medicina Ospedaliera, è quello di sensibilizzare a una riflessione sul senso del prendersi cura e del supporto professionale nel fine vita, includendo gli aspetti legati alla volontà espressa dal paziente e collaborando a stretto contatto con i medici internisti, rappresentati dall’associazione FADOI
commenta Maria Lucia Rita Di Grigoli, Referente Regionale ANIMO per la Sicilia.
Il fine vita: dimensione medica, psicologica e sociale
Il fine vita, inevitabile momento di conclusione del ciclo vitale in cui garantire la qualità della vita e la dignità del paziente, diviene aspetto etico imprescindibile, che si traduce, a livello medico, in adeguata nutrizione, idratazione, igiene del corpo e riduzione del dolore fisico attraverso sedazione e l’utilizzo delle cure palliative, ma anche in ascolto del disagio emotivo, familiare e sociale che ogni paziente porta con sé.
“L’obiettivo di una terapia del fine vita è rendere la vita residua la miglior vita possibile – precisa Roberto Garofalo, Medico Chirurgo, specializzato in Geriatria e Gerontologia e Cure Palliative dell’ASP di Palermo – Ciò implica anche l’evitamento dell’accanimento terapeutico, ovvero la messa in atto di cure inutili o sproporzionate, che causano solo sofferenza, come 15 o 20 compresse al giorno, e l’invito a circondare il malato dei suoi affetti, offrendo altresì assistenza domiciliare. Non esistono regole standard per la terapia, da individuare in base a ogni singolo paziente e il supporto deve coinvolgere la famiglia, il sociale, oltre gli aspetti medici, mettendo in chiaro che la guarigione è solo un’opzione terapeutica e bisogna puntare sulla qualità di vita, a prescindere dalla guarigione”.
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Immagini dal Convegno “Il fine vita: aspetti psicologici, etici e giuridici”
Comunicare la diagnosi di fine vita
Una qualità della vita che non può prescindere dalla collaborazione del paziente alle cure, garantita da una corretta comunicazione tra medico e paziente e medico e familiari, a partire dal delicato momento della comunicazione della diagnosi infausta.
Se molti familiari sostengono di non dire la verità al paziente perché morirebbe prima dei suoi giorni, la pratica clinica suggerisce invece che una diagnosi che altera drammaticamente la prospettiva di vita, comunicata con empatia, non in maniera brusca e frettolosa, e secondo modalità che infondono speranza, aumenta la collaborazione con il paziente e la qualità della sua vita. D’altronde l’atteggiamento empatico del medico e del paramedico è fondamentale per non far morire il paziente nella disperazione – spiega Valentina Bordino, Psicologo dell’ASP di Agrigento – Per comunicare con empatia la diagnosi è importante essere consapevoli dell’esistenza, nei familiari, di automatismi che li spingono a non voler sapere, corrispondenti alla negazione iniziale del trauma della malattia, secondo un modello a cinque fasi a cui segue la rabbia, la depressione e che auspicabilmente condurrà all’accettazione della malattia, secondo il modello di Elisabeth Ross.
Far accettare la morte al paziente e ai suoi familiari, cercando spazi di collaborazione, significa reinserirla nel ciclo vitale, curando con rispetto fino alla fine, accettando ciò che deve accadere – sottolinea ancora Valentina Vegna, Psicologa Area Emergenza Ospedale Civico di Palermo.
Accettazione e autonomia decisionale del paziente nel fine vita
Sull’accettazione (o meno) dell’inevitabile e delle cure che vi si accompagnano, si gioca tutto il dibattito odierno sul principio dell’autonomia decisionale del paziente.
Esso è legato agli aspetti legali ed etici di un’eventuale decisione di “sospensione delle cure” secondo quanto predisposto dalle modernissime Disposizioni Anticipate di Trattamento, emanate a gennaio del 2018.
Spiega Pietro Virgadamo, Professore Associato Istituzioni di diritto privato LUMSA di Palermo:
Il più noto Testamento biologico predispone che, nella piena capacità di intendere e volere, e in previsione di una malattia cronica che comporti il sopraggiungere dell’incapacità di intendere e volere, si possa esprimere se accettare o rifiutare trattamenti sanitari o accertamenti diagnostici. Molte le note critiche, in relazione al delicato confine concettuale con l’eutanasia, tra cui il ruolo dell’idratazione e della nutrizione artificiali che non è chiaro, dal testo di legge, se si debbano intendere come terapia (quindi da potere rifiutare) o mera sussistenza.