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Rifiuto scolastico: comprendere i fattori scatenanti e la sintomatologia per attivare interventi efficaci

Il rifiuto scolastico è una condizione emotiva caratterizzata dalla presenza della resistenza o opposizione ad andare a scuola o a restarvi tutto il giorno.

Di Genoveffa Malizia, Monica Pignarolo

Pubblicato il 05 Feb. 2018

Aggiornato il 01 Lug. 2019 13:43

Il rifiuto scolastico è una condizione emotiva caratterizzata dalla presenza di una forte resistenza e spesso da un’aperta opposizione ad andare a scuola e/o rimanervi per l’intera giornata (Kearney & Silverman, 1996).

Genoveffa Malizia, Monica Pignarolo, Open School PTCR Milano

 

Paure e fobie: cos’è il rifiuto scolastico

Reazioni di ansia e di paura sono condizioni emotive molto diffuse sia nei bambini sia negli adolescenti (King, Muris & Ollendick, 2004). Si tratta di esperienze universali, riscontrabili in varie culture, aventi caratteri per lo più transitori ma che, talvolta, possono evolvere in un disturbo psicologico.

Durante la crescita, condizionamenti, fantasie ed immaginazione possono, infatti, assumere un ruolo progressivamente più rilevante nella genesi e nel mantenimento delle paure infantili, soprattutto a causa di una più complessa strutturazione del pensiero del bambino e quindi di una maggiore capacità di anticipare conseguenze future (Berto & Scalari, 1997).

Le paure possono essere considerate “una finestra” durante i periodi d’inevitabile adattamento che tutti i bambini devono attraversare; quindi tutti, nel corso del loro sviluppo, presentano paure e timori di varia natura (Brazelton & Greenspan, 2001). Si possono considerare tali paure e timori come veri e propri disturbi quando il funzionamento scolastico e sociale del bambino è fortemente compromesso (Phillips, 1978). Dagli studi di Cohen & Cohen (1993) ad esempio, si stima che tra il 10 e il 15% dei bambini e degli adolescenti presenterebbe un disturbo d’ansia. L’ansia, contrariamente ai timori e alle fobie, si riferisce ad uno stato avverso o spiacevole che coinvolge l’apprensione soggettiva e l’attivazione fisiologica.

La paura è una risposta normale ad una grande varietà di situazioni o oggetti. Nella sua forma più semplice, la paura è la sensazione o la condizione che si prova quando si è esposti a stimoli minacciosi reali o immaginati. Ovviamente, la paura ha una funzione adattativa e “ci predispone a reagire di fronte ad un pericolo esistente o ragionevolmente previsto” (Kanner, 1972, p. 580). Sebbene sia adattiva e necessaria per la sopravvivenza, le risposte alla paura diventano problematiche quando sono eccessive, persistono nel tempo e producono notevoli disagi per il bambino (Graziano, De Giovanni & Garcia, 1979; King, Hamilton & Ollendick, 1988; Morris & Kratochwill, 1983). Oltre a ciò che ci si aspetterebbe per l’età del bambino, queste paure problematiche sono spesso definite come fobie.

Possiamo partire dunque dalla definizione di fobie semplici: si tratta di paure intense e persistenti relative ad oggetti e situazioni, eccessive e irragionevoli, attivate dall’esposizione o anticipazione dello stimolo fobico. Sono generalmente associate a comportamenti evitanti, che possono produrre una marcata compromissione funzionale, a sintomi somatici (palpitazione, rossore o pallore, dispnea, tensione muscolare) e a sintomi comportamentali (pianto e rabbia) (Guidetti, 2007).

Si potrebbe dire che ogni fase dello sviluppo del bambino è caratterizzata da paure specifiche. Normalmente queste paure si estinguono progressivamente, secondo una sequenza temporale abbastanza specifica (Guidetti, 2007). Molte fobie sono circoscritte a contesti e situazioni specifiche, come appunto il rifiuto scolastico è legato al contesto della scuola.

La scuola è un ambiente stimolante che il bambino inizia a frequentare quotidianamente a partire dai sei anni di età. È un luogo di allenamento alla vita, alla scoperta di sé e alla conoscenza del mondo. Nasce per essere vissuto in modo sereno, però talvolta si trasforma in un teatro di timori, in una fonte di preoccupazioni e di un vero e proprio disagio che può riguardare bambini e adolescenti che sviluppano la cosiddetta “fobia scolare”. Oggi giorno è in aumento il numero delle famiglie che si trovano a dover affrontare per qualche periodo un rifiuto scolastico da parte di un figlio (Last et al., 1987).

Il rifiuto scolastico è una condizione emotiva caratterizzata dalla presenza di una forte resistenza e spesso da un’aperta opposizione ad andare a scuola e/o rimanervi per l’intera giornata (Kearney & Silverman, 1996).
Il rifiuto scolastico non rientra nella nosografia ufficiale sebbene da più parti sia riconosciuto come un disturbo invalidante.
Anche se in letteratura si è spesso usata l’etichetta di fobia scolare, attualmente si preferisce usare la definizione di “rifiuto scolastico” per identificare questo disturbo (Kearney & Silverman, 1996).

I primi riferimenti alla fobia scolare come un vero e proprio problema clinico sono dell’inizio degli anni ’40 ed è del 1965 (Kennedy, 1965) la distinzione tra due tipi di fobia scolare, con alcuni tratti in comune e altri invece distintivi. Tra i tratti comuni troviamo la frequenza di disturbi somatici, paura di separazione dalla madre, conflitti tra la famiglia e l’ambiente scolastico.

Rifiuto ansioso della scuola: eziologia e decorso

La fobia scolastica denominata anche “rifiuto ansioso della scuola” (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987) si riscontra nell’1-5% dei bambini che frequentano la scuola (Burke & Silverman, 1987).

Nonostante possa essere presente a qualsiasi età, esordisce con maggiore frequenza in bambini di 5-6 anni, di 10-11 anni o in adolescenti tra i 12 e i 15 anni, colpendo soprattutto i soggetti maschi e in genere figli unici, primogeniti o prediletti nell’80% dei casi (Ollendick & Mayer, 1984). Può essere considerata una forma di fobia sociale che insorge nei bambini che all’improvviso si rifiutano di andare a scuola e, qualora si tenti di portarceli, mostrano chiari disturbi d’ansia e attacchi di panico (Johnson, Falstein, Szurek & Svendsen, 1941). I due picchi più frequenti per il manifestarsi di questo problema sono le età che corrispondono a due fasi evolutive delicate per un bambino, cioè l’ingresso nella scuola primaria e il passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado e quindi tra i cinque e i sei anni e tra i dieci e gli undici anni (Egger, Costello & Angold, 2003).
Non sono state riscontrate differenze legate allo status socioeconomico (Last & Strauss, 1990; Baker & Wills, 1978).

Se un poco d’inquietudine e preoccupazione all’idea di andare a scuola è normale nei bambini, soprattutto nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, dalla scuola primaria alla secondaria, oppure al momento di un cambiamento di scuola o di uno degli insegnanti, è anche vero che la prolungata paura di andare a scuola, il rifiuto scolastico e soprattutto un prolungato evitamento dell’ambiente scolastico può costituire un danno importante sia sul breve che sul lungo periodo (King & Bernstein, 2001).

Sul breve periodo il fatto che il bambino non vada a scuola e non svolga in modo completo le attività previste per la sua classe può rallentare lo sviluppo cognitivo e intellettuale del bambino e creare una storia di criticità nel rendimento scolastico che a sua volta costituisce un potenziale fattore di rischio per gli anni successivi; i ridotti e a volte problematici contatti con i compagni non favoriscono un buon sviluppo delle competenze sociali innescando, in alcuni casi, un circolo vizioso di difficoltà relazionali ed, inoltre, aumentano anche le difficoltà all’interno del contesto familiare (Hersov, 1972; Last & Strauss, 1990; Naylor et al., 1994).

Sul lungo termine la difficoltà ad andare a scuola può portare ad uno stato di ansia cronica, allo sviluppo di un disturbo d’ansia, ad un basso livello di autostima, ad un basso livello culturale e alla difficoltà nel raggiungere il benessere personale e professionale in età adulta (Mayer, 2008; Bernstein et al., 2001; Buitelaar et al., 1994; Flakierska-Praquin et al., 1997; Kearney & Albano, 2000a).

Se non trattata adeguatamente e per tempo la fobia scolare può facilmente trasformarsi in un problema cronico con evidenti e ovvi effetti sullo sviluppo del bambino, e in alcuni casi potrebbe essere consigliata anche l’ospedalizzazione (King & Bernstein, 2001). In una ricerca svedese che ha seguito per più di vent’anni un gruppo di bambini con un rifiuto scolastico, si è potuto osservare che i bambini con questo problema da adulti si segnalavano per un maggior numero di contatti con le strutture psichiatriche, una più lunga permanenza nella famiglia di origine, un minor numero di figli rispetto alla media della popolazione (Flakierska-Praquin, Lindstrom & Gillberg, 1997).

Manifestazioni cliniche del rifiuto scolastico

Esiste un certo numero di bambini e di adolescenti per i quali “l’ambiente scolastico è una sofferenza, o comunque fonte di grandi difficoltà” (Bernstein GA, Garfinkel BD, 1986). Il rifiuto scolastico è riconosciuto come disturbo invalidante dal 2005 (Maillard, 2012).

Alcuni autori hanno osservato che i bambini con rifiuto scolastico presentano le seguenti caratteristiche comportamentali: a) gravi difficoltà a frequentare la scuola, che spesso provoca una prolungata assenza; b) disturbi emotivi gravi, compresa l’eccessiva paura, l’esplosione di rabbia o le lamentele di sentirsi malati quando si trovano di fronte alla prospettiva di andare a scuola; c) rimanere a casa sotto la protezione del genitore che deciderà quando il ragazzo dovrà frequentare la scuola; d) assenza di comportamenti antisociali come i furti, la menzogna e comportamenti violenti autodiretti o eterodiretti (Berg, Nichols & Pritchard, 1969).

Oltre a queste funzioni primarie, molti autori hanno descritto caratteristiche associate che possono aiutare a delineare diversi sottotipi di rifiuto scolastico.

Coolidge, Hahn e Peck (1957) ne distinguono due sottotipi: neurotico e caratteriologico. Questa distinzione (Waldfogel, Coolidge, & Hahn, 1957), è stata successivamente adottata da altri autori (ad esempio, Kahn & Nursten, 1962; Kennedy, 1965). In sostanza, essa discrimina tra ciò che è diventato noto come rifiuto scolastico tipo I e tipo II. Il rifiuto scolastico di tipo I, o la varietà nevrotica, è caratterizzato dalle seguenti caratteristiche (Kennedy, 1965): (a) il presente episodio è il primo; (b) inizio di lunedì, a seguito di una malattia del giovedì o del venerdì precedente; c) esordio acuto; (d) più prevalente nei primi gradi delle elementari; e) preoccupazione per la morte o per la salute fisica della madre; g) generalmente è presente una buona comunicazione tra i genitori; (h) madre e padre ben adeguati; (i) padre coinvolto nella gestione della famiglia e nell’educazione dei figli; (j) i genitori hanno una comprensione adeguata di ciò che il bambino sta vivendo.

Al contrario, il rifiuto scolastico di tipo II o caratteriologico, è caratterizzato da uno schema contrario: una graduale e insidiosa insorgenza in un bambino più grande in cui i temi di morte non sono presenti e i cui genitori sono notevolmente più difficili da coinvolgere, mostrano poca consapevolezza e comprensione del comportamento del bambino. Anche se questo non esaurisce tutti i sottotipi del rifiuto scolastico riportati in letteratura (es. Hersov, 1960, Weiss & Cain, 1964), è evidente che rappresenta un problema complesso ed eterogeneo (Atkinson, Quarrington e Cyr, 1985; Blagg, 1987; Ollendick & King, in stampa; Ollendick & Mayer, 1984).

I sintomi tipici di questa fobia in genere compaiono improvvisamente all’inizio dell’anno scolastico ed una volta scomparsi possono ricomparire, ad esempio, a seguito di una lunga assenza per malattia o dopo un periodo di vacanza. Se invece il sintomo compare in modo brusco, quando ormai la fase dell’inserimento è stata superata senza grosse difficoltà, allora si può pensare che la causa sia riconducibile ad un episodio specifico come ad esempio un evento stressante vissuto a scuola o a casa, un litigio con un compagno, problemi con un insegnante, malesseri fisici vissuti a scuola o ancora insuccessi nei compiti didattici (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987). Sembrerebbe allora che il problema sia la reazione, la conseguenza di un fattore scatenante e pertanto è opportuno indagare sulle cause che hanno innescato il rifiuto scolastico, al fine di poter trovare specifiche soluzioni e percorsi d’intervento mirati, precoci e quindi più efficaci (Pilliteri Senatore, 1995).

I sintomi più frequenti riscontrati sono la paura, gli attacchi di panico, il pianto, gli scatti d’ira e le minacce di autolesionismo (Bernstein et al., 1997). Col crescere dell’età i bambini adottano meccanismi difensivi sempre più sofisticati per rendere meno evidente l’angoscia e più frequentemente presentano sintomi di somatizzazione che possono comprendere cefalee, dolori addominali, vomito, astenia e perfino febbre. L’esistenza dei sintomi di malessere fisico, in questi casi, tende a diminuire in modo naturale nei giorni del fine settimana e in prossimità di vacanze (Kennedy, 1965).

Spesso, nei casi in cui un bambino è assecondato nelle sue richieste, rimanendo a casa, questo può assumere dei comportamenti diligenti e collaborativi: svolgerà tutti i compiti assegnati in classe con grande impegno, interesse e serenità, tanto da non presentare carenze nel rendimento scolastico anche a seguito di lunghi periodi di assenteismo. Ciò non toglie che l’assenza da scuola per periodi prolungati tende a generare una problematica secondaria di insicurezza rispetto alla conoscenza dei contenuti dei moduli svolti (Last, Francis, Hersen, Kazdin & Strass, 1987; Pilliteri Senatore, 1995; Sperling, 1967).

Inoltre ci sono bambini che non vogliono andare a scuola per la paura delle aggressioni fisiche dei compagni violenti e dei bulli o perché, pur senza essere oggetto di attacchi fisici o psicologici, fanno molta fatica nelle relazioni con i compagni: circa un terzo dei bambini con rifiuto scolastico sono timidi nei confronti dei pari, hanno paura di essere presi in giro o hanno comunque delle relazioni conflittuali con i compagni (Egger, Costello & Angold, 2003). In altri casi ancora sono bambini particolarmente preoccupati delle interrogazioni, dei compiti in classe, dei compiti a casa o dello studio, spesso sono presenti dei tratti di perfezionismo eccessivo che rende difficile anche solo terminare un compito. In altri casi ancora il rifiuto scolastico è legato alla presenza di un disturbo dell’apprendimento.

I bambini con rifiuto scolastico spesso presentano significativi disturbi emotivi, soprattutto legati all’ansia e alla depressione (McShane et al., 2001).
I disturbi psichiatrici più comunemente presenti in comordibità sono l’ansia da separazione, la fobia sociale, la fobia semplice, il disturbo da attacchi di panico, il disturbo post-traumatico da stress, il disturbo depressivo maggiore, la distimia e il disturbo dell’adattamento (Last & Strauss, 1990; McShane et al., 2001; Bernstein, 1991)

Il Funzionamento familiare e le origini del rifiuto scolastico

Molto spesso problemi all’interno del nucleo familiare possono essere la causa del rifiuto scolastico dei bambini (Fremont, 2003; Hersov, 1985; Waldron et al., 1975).

Interazioni familiari disfunzionali correlate al rifiuto scolastico sono la dipendenza eccessiva (invischiamento), il distacco o un numero esiguo di interazioni tra i membri della famiglia, l’isolamento del nucleo familiare rispetto all’ambiente esterno e un elevato grado di conflittualità (Kearney & Silverman, 1995).

Inoltre sono stati spesso riscontrati all’interno di queste famiglie problemi di comunicazione, problemi nelle assunzioni dei ruoli (soprattutto nelle famiglie con un unico genitore) e problemi di troppa rigidità e coesività tra i membri della famiglia (Bernstein & Borchardt, 1996; Bernstein et al., 1999; Steinhauer et al., 1984).

Bernstein et al. (1990b) hanno individuato delle difficoltà nel funzionamento familiare attraverso l’utilizzo del Family Assessment Measure (FAM) (Skinner et al., 1983), in particolar modo nelle subscale Assunzione dei ruoli e Norme e Valori. Le difficoltà nelle assunzioni dei ruoli riflettono una mancanza di accordo tra i membri della famiglia rispetto ai propri compiti e doveri e una mancanza di adattamento dei propri ruoli di fronte a nuove situazioni o col passare del tempo. (Steinhauer et al., 1984).

Molte volte una madre eccessivamente ansiosa, inconsciamente ed involontariamente, trasferisce nel figlio le proprie fobie andando ad indebolire l’autostima del figlio stesso, il quale giunge a credere di essere realmente “bisognoso di protezione”, ed incapace di fare da sé. In concomitanza, talvolta, accade che all’interno di questa dinamica familiare già disturbata e disturbante vi sia anche la figura di un padre poco presente o del tutto assente tanto da privare il figlio di quel modello di riferimento, in termini di identificazione, fondamentale per la costruzione di una personalità forte e sicura (Moraldi, 2012).

A queste caratteristiche, spesso, si aggiungono anche le influenze di particolari regimi educativi. Può accadere che alle spalle del bambino vi sia una famiglia estremamente tollerante. Avere due genitori indulgenti può tradursi, una volta entrati nel mondo della scuola, nella difficoltà d’interiorizzazione delle regole scolastiche e dei rimproveri delle maestre (Sperling, 1967).

Quando il problema del rifiuto scolastico nasce in modo secondario rispetto ad una relazione malsana tra madre e figlio e ad una dinamica familiare viziata, si è soliti parlare di rifiuto scolastico indotto. (Sperling, 1967).

Valutazione del rifiuto scolastico

Prima del lavoro di Kearney (2002, 2006), l’approccio diagnostico faceva riferimento al disturbo di ansia ed in particolar modo al disturbo di ansia da separazione (maggiormente tra i 6 e i 7 anni), mentre per altri essa poteva essere collegata ad un problema di fobia sociale e nei più grandi spesso era vista come riflesso di un problema di bassa autostima o di precoci sindromi depressive. L’aspetto nuovo che emerge nei lavori di Kearney è un approccio funzionale al rifiuto scolastico che permette per prima cosa di individuare quelle situazioni dove l’assenza a scuola non è legata a problemi di ansia ed in particolar modo cerca di comprendere e rilevare la funzione che il comportamento di rifiuto scolastico ha per il bambino.

Come sempre un buon colloquio clinico fornisce il miglior quadro della situazione.
Vi sono però alcuni questionari che possono essere utilizzati o costituire degli spunti interessanti relativamente alle aree da esplorare nel colloquio stesso: School Refusal Assessment Scale (SRAS, Kearney & Silverman, 1990; 1999) e School Refusal Assessment Scale Revised (SRAS-R, Kearney, 2002).
Questa scala è uno strumento specifico che permette di fare una diagnosi funzionale dei sintomi legati al rifiuto scolastico.

La School Refusal Assessment Scale Revised prevede un questionario per il bambino/ragazzo e uno per ambedue i genitori. Attraverso le risposte date, vengono analizzati i rinforzi positivi e negativi scatenati dal rifiuto scolastico. Kearney, infatti, propone una strategia di valutazione che evidenzia due tipologie di casi che si basano sul ricevere rinforzi positivi o negativi in seguito all’assenteismo da scuola. Questi danno luogo a quattro diversi quadri sintomatologici.
Infatti, sebbene si osservino varie forme di comportamenti esibiti dal bambino, le variabili che possono causare il problema e che lo mantengono sono essenzialmente quattro:
1. evitare oggetti o situazioni che generano un’ansia generale o emozioni negative;
2. evitare situazioni sociali avversive o valutative;
3. ottenere attenzione dalle figure significative;
4. perseguire rinforzi positivi tangibili fuori della scuola (guardare la tv, dormire, giocare, stare al computer, frequentare gli amici, consumare alcool o sostanze stupefacenti, frequentare sale da gioco, ecc).

Le diagnosi che più di frequente si associano ai quattro profili funzionali proposti da Kearney & Albano (2004) sono: per il gruppo che evita la scuola per cercare una maggiore attenzione dalle figure di riferimento è presente l’ansia da separazione; per i gruppi che rifiutano la scuola per sottrarsi a stimoli che sono valutati negativamente o per evitare situazioni sociali avversive o valutative si associa la diagnosi di depressione o di disturbo di ansia; per il gruppo che rifiuta la scuola per perseguire rinforzi esterni positivi, la comorbilità è con i disturbi della condotta o del comportamento oppositorio-provocatorio (Kearney & Albano, 2004).

Self-Efficacy Questionnaire for School Situations (SEQ-SS Heyne, King, Tonge et al., 2002).
Valuta la percezione che il bambino ha della sua capacità di fare fronte a situazioni potenzialmente ansiogene legate alla scuola, quali lo svolgere le attività scolastiche, il restare lontano dai genitori e dalle proprie figure di attaccamento. È meno validata ed usata rispetto alla precedente.

La valutazione completa delle paure e delle ansie dell’infanzia comprende misure di natura cognitiva, comportamentale e fisiologica (Barrios, Hartmann & Shigetomi, 1981), nonché l’analisi del contesto in cui si verificano. La strategia proposta da alcuni autori è quella di cominciare con un’ampia valutazione del bambino e del suo ambiente (ad esempio, la famiglia, la scuola, i coetanei) e procedere poi verso l’acquisizione di informazioni più precise riguardo alle caratteristiche dello stimolo, alle modalità di risposta, ai processi cognitivi, agli antecedenti e alle conseguenze, alla durata e alla pervasività delle fobie. Così la procedura di valutazione inizia con un’intervista comportamentale approfondita e utilizza un approccio multimodale, improntato sul problem solving (Mash & Terdal, 1981, Ollendick & Hersen, 1984).

La raccolta di tutte queste informazioni richiede un approccio collaborativo che includa oltre al bambino, i genitori e gli insegnanti così da avere un’attenta e completa analisi dei sintomi (Fremont, 2003). Non si può prescindere dal collaborare con la scuola, sia in fase di assessment che di trattamento, per garantire la risoluzione del problema (Patrizi & Isola, 2007).

Nel colloquio con gli insegnanti va indagata la presenza di problemi nell’inserimento sociale del paziente, l’andamento delle assenze, le relazioni con i pari, cercando anche di cogliere il clima della relazione con gli insegnanti stessi (Fremont, 2003). Si può cercare di sapere se sono avvenuti episodi potenzialmente stressanti precedenti all’inizio delle difficoltà del bambino (atti di bullismo, litigi con un compagno, problemi con un insegnante, malesseri fisici vissuti a scuola o ancora insuccessi nei compiti didattici, incidenti ecc.). Vanno raccolte le valutazioni degli insegnanti su eventuali difficoltà nell’apprendimento o sulla presenza di manifestazioni di ansia durante le interrogazioni o le verifiche. È utile chiedere se vi è stato un repentino calo nel rendimento scolastico nell’ultimo periodo (Patrizi & Isola, 2006).

Il metodo più diretto per valutare i comportamenti temibili e ansiosi è quello di osservare questi comportamenti nelle situazioni in cui si verificano. Nei sistemi di osservazione comportamentale, i comportamenti specifici che riflettono la paura sono definiti e registrati in modo operativo. Spesso questi sistemi sono altamente individualizzati e idiosincratici a particolari timori o fobie.

La scala di osservazione prescolare di ansia (POSA) sviluppata da Glennon & Weisz (1978) è un sistema di osservazione comportamentale che è stato sottoposto a valutazione psicometrica. Il POSA include 30 indici comportamentali specifici di ansia da osservare usando una procedura di campionamento standard. Gli indici comportamentali comprendono, ad esempio, mangiarsi le unghie, l’evasione del contatto visivo, il silenzio alle domande e la postura rigida. Per valutare l’affidabilità e la validità del POSA, i bambini prescolari sono stati osservati durante due sessioni di test cognitivi. La prima sessione è stata progettata per suscitare elevati livelli di ansia (madre assente); la seconda sessione è stata progettata per produrre bassi livelli di ansia (madre presente). Per quanto riguarda la validità dello strumento, è stato riscontrato che i punteggi POSA sono significativamente correlati con le valutazioni dei diari osservativi degli insegnanti e dei genitori dell’ansia dei bambini. Pertanto, i sistemi di codifica dell’osservazione del comportamento come il POSA risultano essere molto efficaci nello studio del comportamento di paure collegate al contesto scolastico (Katz, Kellerman & Siegel, 1980).

Interventi terapeutici del rifiuto scolastico

Sebbene non ci siano in letteratura studi sistematici sull’efficacia dei diversi protocolli e programmi d’intervento con i bambini con rifiuto scolastico, le ricerche presenti e i dati clinici suggeriscono una notevole efficacia dell’approccio comportamentale e cognitivo (Blagg & Yule, 1984; King et al., 1998; Last et al., 1998) e ciò è spiegato anche dal fatto che lo stesso modello sembra funzionare molto bene nelle terapie per i disturbi d’ansia in età evolutiva (Kendall & Di Pietro, 1995; Bissoli, 2007; Cunningaham et al., 2006; D’Ambrosio & Coletti, 2002; Mendlowitz, 2005; Sharon et al. 2006).

Il trattamento più efficace sembra, infatti, quello orientato principalmente alla riduzione dell’ansia di questi bambini e per questo diventa importante individuare in primo luogo le specifiche dinamiche comportamentali e cognitive che caratterizzano l’ansia di ogni singolo bambino. Gli aspetti più complessi che ruotano intorno al disturbo sono i circoli disfunzionali che non fanno altro che consolidare nel bambino la condizione emotiva legata all’ansia, i pensieri di autosvalutazione e la paura della vergogna, che lo rendono sempre più inibito e isolato, povero nelle abilità socio-cognitive, incapace di creare relazioni sociali, di codificare correttamente e prevedere i comportamenti altrui (D’Ambrosio & Coletti, 2002.)

Alcuni autori descrivono diverse strategie comportamentali che genitori e insegnanti dovrebbero conoscere e cercare di utilizzare nella pratica quotidiana dato che possono contribuire in generale all’interruzione o diminuzione di circoli viziosi dell’ansia e quindi in generale della sintomatologia.

Gli interventi di psicoeducazione con i bambini, ma anche con genitori e insegnanti, sono una chiave fondamentale per un intervento efficace (Tatem & Del Campo, 1995).

I bambini sono incoraggiati a parlare delle loro paure e ad identificare le differenze tra paura, ansia e fobie; vengono date informazioni utili per aiutarli a superare la loro paura di frequentare la scuola con esercizi da svolgere a casa e che saranno poi discussi nelle sedute successive; viene poi chiesto loro di tenere un diario quotidiano per descrivere le loro paure, pensieri, strategie di coping e sentimenti associati alle loro paure (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984; King & Bernstein, 2001).

Ai genitori vengono fornite strategie di gestione del comportamento, legate ad esempio al come accompagnare il bambino a scuola, fornendo un rinforzo positivo per la frequenza scolastica e diminuendo i rinforzi positivi legati al rimanere a casa (ad esempio, guardare la televisione o giocare con i videogame mentre si è a casa da scuola). I genitori beneficiano anche d’interventi che li aiutano a comprendere e ridurre la propria ansia e a capire il loro ruolo nell’aiutare i loro figli nell’ottenere cambiamenti efficaci (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984).
Gli incontri con gli insegnati prevedono specifiche raccomandazioni che li aiutano a prepararsi al ritorno del bambino, all’utilizzo dei rinforzi positivi e alla gestione degli aspetti accademici, sociali ed emotivi (Fremont, 2003; Blagg & Yule, 1984).

L’utilizzo di tecniche più propriamente cognitive con i bambini, invece, ha l’obiettivo principale di modificare il pensiero disfunzionale (convinzioni irrazionali) sottostante il disturbo emotivo e comportamentale del bambino con rifiuto scolastico (ristrutturazione e modificazione delle strutture cognitive) e di conseguenza di ridurre gli stati mentali di catastrofizzazione, ipergeneralizzazione e attenzione selettiva alla base dell’interpretazione degli eventi (Lambruschi, 2009).

Le distorsioni cognitive sono particolarmente evidenti nei processi di pensiero dei bambini ansiosi. Ad esempio, Zatz e Chassin (1983) documentarono le cognizioni dei bambini ansiosi: essi non solo sviluppano pensieri negativi verso di sé (ad esempio, “sto facendo male, non faccio bene nel compito come gli altri: tutti normalmente fanno meglio di me”), ma attribuiscono meno dichiarazioni positive verso di sé (ad esempio, “io sono abbastanza capace per farlo, sto facendo il meglio che posso, faccio bene il compito come gli altri”). Stefanek et al. (1987) hanno individuato la presenza di simili schemi cognitivi rivolti al sé in bambini ansiosi e socialmente ritirati.

Probabilmente l’approccio cognitivo più frequente con i bambini ansiosi e spaventati è l’utilizzo di tecniche di auto-istruzione verbale (Kanfer, Karoly & Newman, 1975; Graziano & Mooney, 1980; Graziano, Mooney, Huber & Ignasiak, 1979). Nella prima applicazione di questo approccio, Kanfer et al. (1975) è stato usato un campione di bambini di 5-6 anni che avevano moderatamente paura del buio. Tre gruppi di bambini sono stati formati. Il primo gruppo ha provato ad utilizzare controlli attivi e dichiarazioni di competenza (ad esempio, “sono un ragazzo coraggioso e posso gestire il buio”); il secondo gruppo ha provato le dichiarazioni volte a ridurre la qualità avversa della stessa situazione di stimolo (ad esempio, “Il buio non è un posto così male”); e il terzo gruppo ha provato dichiarazioni neutre (ad esempio, “Maria aveva un piccolo agnello”). I gruppi di competenza e di stimolo non differivano significativamente l’uno dall’altro, suggerendo che le dichiarazioni adattative siano state acquisite in entrambe le condizioni.

L’intervento di modificazione dei pensieri disfunzionali è strettamente legato anche a programmi educativi sul riconoscimento, espressione e gestione delle emozioni per implementare la capacità di riconoscerle, saperle denominare e riflettere sul loro rapporto con gli eventi e i comportamenti conseguenti (Di Pietro, 1992).

Le tecniche di “ristrutturazione cognitiva” si basano su strategie “controargomentative” e di riformulazione dei pensieri disfunzionali attraverso situazioni di role-playing e simulazioni di diverse situazioni reali o immaginarie che provocano in genere disagio nel bambino, in cui proporre interpretazioni e conseguenze alternative rispetto ad eventi e stati mentali propri e altrui.

Già Shure & Spivak (1978) sottolineavano l’importanza di insegnare al bambino a pensare varie alternative prima di dare una risposta a situazioni interpersonali problematiche, immaginando la sequenza degli eventi che possono scaturire rispetto alle diverse soluzioni ipotizzate. In tal senso anche le tecniche di problem solving e training sulle abilità sociali sono strettamente finalizzate ad incrementare la consapevolezza del bambino delle situazioni problematiche, ad implementare l’autogestione delle emozioni e dei comportamenti alternativi e, quindi, a modificare l’interpretazione del problema.

Focalizzandosi sulle difficoltà del bambino il terapeuta può guidarlo attraverso il Problem Solving a:
1. Riconoscere gli elementi della situazione che sono percepiti come problematici;
2. Ipotizzare comportamenti diversi da quelli solitamente prodotti per risolvere il problema;
3. Scegliere le condotte che meglio soddisfino la soluzione del problema e applicare il pensiero consequenziale;
4. Mettere in pratica le soluzioni scelte e verificarne l’efficacia (D’Ambrosio & Coletti, 2002).

Clinicamente, i trattamenti comportamentali, in particolare le tecniche basate sull’esposizione e sulla desensibilizzazione sistematica, sono state utilizzate ampiamente per il trattamento dell’ansia basata sul rifiuto scolastico (Heyne et al., 2002; Blagg & Yule, 1984). La base per l’utilizzo di questo approccio è stata ricavata, nella maggior parte dei casi, dalla letteratura del trattamento per i disturbi d’ansia negli adulti, in particolare le fobie. Numerosi studi controllati di pazienti adulti fobici hanno dimostrato che l’esposizione graduale a temi o situazioni temute promuove la riduzione della paura e aumenta la capacità reattiva (Barlow & Beck, 1984).

Sulla base dell’ipotesi che l’ansia sia caratterizzata da attivazione fisiologica eccessiva, le tecniche di rilassamento sono spesso consigliate per i bambini ansiosi nelle scuole. Diversi tipi di rilassamento includono il rilassamento muscolare progressivo, il training autogeno, l’ipnosi e, più recentemente, il rilassamento comportamentale (Poppen, 1988). Il rilassamento progressivo, però, sembra essere stato il più influente (Jacobson, 1938): questa tecnica prevede l’alternanza di tensione e rilassamento dei principali gruppi muscolari, con la graduale eliminazione delle contrazioni e la pratica del rilassamento “passivo” (Bernstein & Borkovec, 1973; Wolpe, 1958). Le tecniche di rilassamento possono essere usate da sole nella gestione dell’ansia o in combinazione con altri interventi cognitivo-comportamentali (King, 1980).

Una volta raggiunti dei primi miglioramenti è consigliabile poi lavorare sul rinforzo dell’autostima del bambino, favorendo anche il potenziamento delle abilità di comunicazione, di gestione degli imprevisti e delle difficoltà scolastiche in modo da prevenire ricadute future (Diathine & Valenti, 1990).
In alcuni casi è possibile affiancare all’intervento cognitivo-comportamentale un trattamento farmacologico. I farmaci più usati nel trattamento del rifiuto scolastico sono gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina), mentre le benzodiazepine, a causa degli effetti collaterali e dell’alto rischio di dipendenza, possono essere utilizzate solo per poche settimane (Riddle et al., 1999).

Come suggerito da Silverman e colleghi (Burke e Silverman, 1987; Kearney e Silverman, 1990), può essere che il trattamento del rifiuto scolastico sia prescrittivo, dato che diversi bambini rispondono diversamente a tipi di trattamento alternativi. Ad esempio, le diagnosi specifiche di disturbo d’ansia associate al rifiuto scolastico, nonché l’età del bambino, la durata e il grado di assenteismo scolastico e le variabili familiari, possono influenzare la risposta al trattamento. La ricerca futura, usando campioni più grandi, dovrebbe esaminare queste possibilità.

Conclusioni

Delle tante paure riportate dai bambini, alcune sono particolarmente maladattive nell’ambiente scolastico, ad esempio l’ansia da prestazione, l’ansia sociale e il rifiuto scolastico. Fortunatamente, una serie di procedure di riduzione della paura sono state utili nel trattamento dei bambini ansiosi.

Mentre gli approcci cognitivi-comportamentali sono preferiti per l’ansia da prestazione e l’ansia sociale, approcci basati sull’esposizione graduale sono stati utilizzati nel trattamento del rifiuto scolastico. La logica sottostante per l’utilizzo di queste procedure è l’esposizione graduale agli stimoli che inducono la paura (King et al., 1988; Marks, 1987). Questo è un principio importante per gli psicologi scolastici e gli insegnanti al fine di arrivare ad una migliore comprensione del disturbo. Frequentemente, utilizziamo involontariamente trucchi come evitare il comportamento problematico, la protezione e la rassicurazione verbale, che rafforzano le paure e le ansie del bambino; al contrario, devono essere adottati comportamenti attivi per esporre il bambino agli stimoli che inducono la paura in modo che la paura possa essere ridotta (King, Ollendick, & Gullone, in stampa).

D’altra parte, molte pratiche didattiche favoriscono la riduzione della paura (Johnson, 1979; King et al., In stampa). Anche l’atmosfera o il clima della classe gioca un ruolo molto importante e quindi l’insegnante dovrebbe tenere in stretta considerazione questo aspetto. La misura in cui il bambino è disposto ad affrontare esperienze che provocano ansia (esposizione) dipende fortemente da questo fattore contestuale. Naturalmente, ci sono strategie più specifiche che gli insegnanti applicano in classe quotidianamente e che favoriscono la riduzione della paura. Ad esempio, i bambini ansiosi nelle prove di discorso e di lettura davanti ai compagni sono spesso incoraggiati a lavorare su questi compiti in piccoli gruppi (Johnson et al., 1971; Muller & Madsen, 1970).

Soprattutto, è essenziale che i bambini, i genitori, gli insegnanti e gli psicologi scolastici lavorino come una squadra nella gestione di questi disturbi (Blagg, 1987). Sebbene ci sia ancora molto da fare a scuola e in altri ambienti con bambini ansiosi, è evidente che questi disturbi richiedono una valutazione multimodale e programmi di trattamento integrati.

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