Uno dei campi di applicazione della mindfulness ancora relativamente poco esplorato è il suo utilizzo con la popolazione carceraria. Al riguardo possiamo trovare degli interessanti spunti di riflessione nell’opera di una delle figure più importanti del panorama storico e letterario italiano: Silvio Pellico.
Matteo Kettmaier – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Bolzano
Introduzione: i benefici della mindfulness
Con il termine mindfulness si intende uno stato mentale di attenzione consapevole tramite il quale giungere a un stato di lucidità maggiore riguardo i propri stati interni e l’ambiente circoscritto in relazione ad esso.
Originariamente mutuato da una tradizione meditativa buddista detta vipassana, nella pratica si traduce in una forma di meditazione, inizialmente guidata, che con l’esercizio la persona può attuare da sola. Numerosi sono i benefici della mindfulness, tanto da essere stata formalizzata in specifici protocolli clinici, oltre che aver trovato applicazione praticamente in tutti i campi di intervento psicologico.
Attualmente esiste una bibliografia sterminata al riguardo, in cui la mindfulness viene proposta come strumento per l’incremento dell’attenzione e del benessere emotivo in infanzia e in adolescenza, per la prevenzione delle ricadute nelle patologie da dipendenza, per affrontare la gravidanza, per la gestione della rabbia, per la gestione dello stress, per il benessere nella vita di coppia, oltre che, nella sua applicazione clinica, per la gestione di disturbi depressivi e ansiosi.
Ciò che propone la mindfulness è di rendere la persona maggiormente presente nel “qui ed ora” aumentando la capacità di distinguere tra emozione e pensiero e comprendere profondamente le relazioni che intercorrono tra queste due dimensioni della vita psichica. Così facendo è possibile scoprire, o riscoprire, le proprie risorse interne con le quali far fronte alle difficoltà quotidiane nonché a situazioni di disagio mentale più profonde.
L’applicazione della minduflness in carcere
Uno dei campi di applicazione della mindfulness ancora relativamente poco esplorato è il suo utilizzo con la popolazione carceraria.
Attualmente è stato proposto un progetto di intervento presso la casa circondariale di San Vittore a Milano. Tale progetto si propone di intervenire sullo stress e sul malessere insiti nella condizione di deprivazione della libertà al quale spesso si aggiungono fattori aggravanti quali: il sovraffollamento delle celle, la scarsità di attività praticabili, la condizione di incertezza riguardo ad eventuali ricorsi legali o richieste specifiche di assistenza. Va inoltre tenuto presente quanto spesso i rei provengano da situazioni di marcato disagio sociale e famigliare che, anche in soggetti che non presentano conclamati tratti di personalità antisociale, non permettono uno sviluppo socialmente adeguato delle capacità metacognitive e di lettura dei propri stati interni.
Un altro interessante documento sull’utilità della pratica meditativa in un carcere indiano è il documentario “Doing time doing Vipassana” reperibile cliccando qui.
La condizione-limite della reclusione carceraria si configura al contempo come una delle più difficili da accettare e una di quelle in cui è maggiormente necessaria la capacità di vivere e accettare il momento presente in quanto il pensiero costante della futura scarcerazione rischia di essere ulteriore fonte di frustrazione. Anche riguardo alla riduzione del rischio di recidiva la mindfulness può rivelarsi un eccellente strumento per la reintegrazione civica laddove associata a interventi specifici di riabilitazione.
Il ritorno nel mondo esterno, infatti, rischia di tradursi nel reinserimento in tessuti sociali criminosi qualora non sia stato effettuato un lavoro sulla motivazione del cambiamento e la consapevolezza dei meccanismi interni ed esterni risoltisi nel reato. Nel caso in cui tale rischio non sussista, colui che esce dal carcere si troverà comunque ad affrontare una realtà mutata con tutta la frustrazione che ne può derivare.
I prinicipi della mindfulness nell’opera di Silvio Pellico
Al riguardo possiamo trovare degli interessanti spunti di riflessione nell’opera di una delle figure più importanti del panorama storico e letterario italiano: Silvio Pellico, scrittore e patriota ad oggi parzialmente dimenticato. Nella sua opera più nota, Le mie prigioni, egli racconta la propria esperienza umana e spirituale durante il periodo di carcerazione presso la prigione dei Piombi di Venezia e la fortezza austriaca di Spielberg. Tale esperienza portò Silvio Pellico ad una profonda attività riflessiva segnata dalla riscoperta della fede cristiana.
Tra le righe di questo percorso esistenziale possiamo leggere un invito alla consapevolezza e all’accettazione del presente che richiama i principi della mindfulness.
Vediamo questo percorso nelle parole dell’autore:
Prima della mindfulness
In quell’assenza totale di distrazioni, l’affanno di tutti i miei cari, ed in particolare del padre e della madre allorché udrebbero il mio arresto, mi si pingea nella fantasia con una forza incredibile. (pag. 8)
In questo passaggio possiamo leggere la sofferenza del prigioniero nel momento in cui il suo pensiero è rivolto ad una realtà esterna sulla quale non può avere controllo. La “forza incredibile” del pensiero dei familiari sofferenti viene descritta quasi come un pensiero intrusivo, un’immagine vivida e dolorosa di una situazione riguardo alla quale non è possibile operare in alcun modo. Recentemente carcerato, Silvio Pellico brancola ancora in una confusione spirituale nella quale la risoluzione della sofferenza psichica sembra essere la “distrazione”. Come leggiamo nel passo seguente tale soluzione non è efficace.
Imparava ogni giorno un canto di Dante a memoria, e questo esercizio era tuttavia sì macchinale, ch’io lo faceva pensando meno a que’ versi che a’ casi miei. (pag. 18)
Tramite l’esercizio mnemonico c’è il tentativo di rimuovere i pensieri. Uno dei principi della mindfulness è proprio l’impossibilità di rimuoverli o sostituirli laddove ciò su cui si può operare è l’attenzione rivolta ad essi e la loro interazione dinamica e reciproca sul tono dell’umore generale. L’esercizio è “macchinale”, occupa soltanto una parte del vissuto psichico lasciando libera la parte emotiva che rinforza in maniera biunivoca i pensieri dei “casi” riguardanti il dolore dei famigliari, l’incertezza del destino proprio e dei compagni dell’associazione dei “Federati” e la miseria della condizione attuale.
Religione e consapevolezza
La svolta positiva avviene con la ri-scoperta della religiosità che, nella specifica realtà della reclusione, non si presenta tanto nel suo aspetto precettistico quanto in quello di risorsa mentale, fede nella presenza di una realtà ultraterrena.
L’intento di stare di continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della mente, ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch’egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me (pag. 19)
Letto con la lente di un agnostico psicologismo, la presenza di Dio ci si presenta come “presenza a se stesso”, non una fuga maniacale dalla realtà che neghi le difficoltà presenti, bensì una capacità di stare nel momento, per quanto esso sia orribile. Tutto ciò è ancora più esplicito nel passo seguente:
Il vivere libero è assai più bello del vivere in carcere; chi ne dubita? Eppure anche nelle miserie d’un carcere, quando ivi si pensa che Dio è presente, che le gioie del mondo sono fugaci, che il vero bene sta nella coscienza e non negli oggetti esteriori, puossi con piacere sentire la vita. Io in meno d’un mese avea pigliato, non dirò perfettamente, ma in comportevole guisa, il mio partito. (pag.21)
Nelle parole del poeta piemontese troviamo espresse alla perfezione la scoperta della “dimensione dell’essere” contrapposta alla “dimensione del fare” la quale, completamente inibita dalle circostanze, non può che essere foriera di sofferenza. Tramite l’accettazione dell’impossibilità di usufruire delle “gioie del mondo” è possibile lavorare sulla “coscienza” e trovare un equilibrio, non perfetto, ma sufficientemente confortevole alla sopportazione. Il “vivere libero” rimane preferibile ma il continuo pensiero rivolto ad esso è doloroso, produce una dissonanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere o meglio, che si vorrebbe che fosse. Si potrebbe citare al riguardo anche il celebre passo dell’Amleto shakespeariano:
Amleto: Oh Dio! Io potrei essere confinato in un guscio di noce e credermi re di un spazio infinito… se non fosse che faccio brutti sogni.
Guildestern: I quali sogni sono appunto ambizione: infatti la sostanza stessa degli ambiziosi non è altro che l’ombra di un sogno.
Amleto: Il sogno stesso non è altro che un’ombra. (pag 135)
Se nella finzione teatrale il pensiero diventa manifestazione di fantasmi che si presentano ai sensi per reclamare vendetta, nelle memorie di Silvio Pellico esso è groviglio di emozioni dolorose legate da un feroce e totalizzante senso di impotenza. La risoluzione interiore avviene nel segno di un’esperienza della religiosità come risorsa che infonde un senso di autoefficacia anche laddove quasi ogni agentività è impedita:
Il mio impegno di acquistare una calma costante non movea tanto dal desiderio di diminuire la mia infelicità, quanto dall’apparirmi brutta, indegna dell’uomo, l’inquietudine. Una mente agitata non ragiona più: avvolta fra un turbine irresistibile d’idee esagerate, si forma una logica sciocca, furibonda, maligna: è in uno stato assolutamente antifilosofico, anticristiano. (pag. 49)
Non ancora mindfulness
Nonostante la scoperta di una strategia di coping adeguata, Silvio Pellico soffrirà ancora di ricadute in stati depressivi e ansiosi.
Di particolare interesse, ai fini del nostro discorso, quello che lui reputa la minaccia più grande alla ricerca della serenità nello spazio della cella, un’insidia così perniciosa da ispirargli pensieri di suicidio: le zanzare.
[…] il letto, il tavolino, la sedia, il suolo, le pareti, la volta, tutto n’era coperto, e l’ambiente ne conteneva infinite, sempre andanti e venienti per la finestra e facienti un ronzio infernale. Le punture di quegli animali sono dolorose, e quando se ne riceve da mattina a sera e da sera a mattina, e si dee avere la perenne molestia di pensare a diminuirne il numero, si soffre veramente assai e di corpo e di spirito. Allorché, veduto simile flagello, ne conobbi la gravezza, e non potei conseguire che mi mutassero di carcere, qualche tentazione di suicidio mi prese, e talvolta temei d’impazzare (pag 77)
Nella pratica della mindfulness è centrale il lavoro sul corpo: mediante la pratica del bodyscan ed esercizi di focalizzazione sul respiro, la meditazione porta ad una riconnessione con il proprio organismo come sede di sensazioni capaci di rivelare l’emozione del momento. La persecuzione delle zanzare nei confronti del carcerato che, ricordiamolo, giunge a pensieri coerenti con i principi della mindfulness ma non mette effettivamente in pratica il protocollo vero e proprio, ha un effetto talmente scompensante da indurre una disperazione così intollerabile da indurre pensieri disgreganti.
In questo paragrafo possiamo vedere la fragilità di una modalità di pensiero assimilabile alla mindfulness alla quale è mancato il fondamentale lavoro di integrazione delle esperienza somatiche, emotive e di pensiero. Nei casi di applicazione della mindfulness a pazienti sofferenti di dolore cronico il focus sull’aspetto di accettazione della condizione di sofferenza è centrale, Silvio Pellico arriva ad accettare la privazione della libertà mediante un lavoro di riflessione individuale che tralascia però la dimensione del corpo. Quando questo viene attaccato egli sembra non trovare le risorse per farvi fronte e l’intera struttura mentale sembra crollare verso la disgregazione definitiva della follia o la risoluzione suicidiaria.
Conclusioni
Sarebbe una forzatura vedere in Silvio Pellico un autentico precursore della mindfulness, come detto sopra, Le mie prigioni presenta un percorso di consapevolezza che giunge a concepire l’importanza dell’attenzione consapevole e della capacità di vivere nel momento presente ma senza il fondamentale lavoro sulla dimensione corporale.
E’ interessante, comunque, tenere presente il suo contributo come esempio di trait d’union tra tradizione occidentale cristiana e quelle filosofie orientali incentrate sulla disidentificazione di corpo-emozione-pensiero alle quali la mindfulness è ispirata.
La testimonianza di Silvio Pellico è ricca di spunti di riflessione attualissimi che spaziano in vari campi della dimensione pubblica e privata dell’esistenza. Uno di questi, che potrebbe trovare un’applicazione pratica, è quello della salute mentale nelle carceri. Tanto da un punto di vista strettamente umano, quanto da un punto di vista pragmatico, Pellico ci offre una chiave per affrontare il problema della condizione carceraria e della riabilitazione con tutti i limiti insiti nella cultura di riferimento della sua epoca.
Oggi, abbiamo i mezzi per progettare interventi strutturati e tra questi la mindfulness potrebbe dare dei risultati.