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Baby gang: quando la rabbiosa ricerca di autonomia e rassicurazioni sfocia nella violenza del branco

I ragazzi delle baby gang si affacciano all’ adolescenza pieni di rabbia e desiderio di autonomia, trovando tutto questo in un gruppo basato sulla violenza

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 22 Gen. 2018

C’è poco da scavare nel fenomeno delle baby gang. Esaltazione in cui si fondono l’odio verso una vittima e la comunione nel gruppo con gli altri, finalmente non più estranei ma compagni, uniti nella vita e nella morte o forse solo in un pestaggio. 

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 20/01/2018

 

C’è poco da scavare nel fenomeno delle baby gang. Non c’è da scavare troppo per capire che siamo purtroppo in contatto con uno stato primigenio della socialità umana, quello della violenza di gruppo che consente –in una forma criminale, beninteso- di superare per un breve momento la sofferenza del vivere in cambio di un’illusoria condizione di esaltazione estatica. Esaltazione in cui si fondono l’odio verso una vittima e la comunione nel gruppo con gli altri, finalmente non più estranei ma compagni, uniti nella vita e nella morte o forse solo in un pestaggio. È la solita teoria del capro espiatorio, che abbiamo già esplorato ed è il solito monito a non tornare a una età antica che è bella solo nei libri di storia o al cinema (ricordate Il Gladiatore?) ma che a viverla davvero si rivela piena di violenza tribale. Le aristocrazie guerriere sono belle nelle fiabe lette al termine di una fiammeggiante cavalcata nelle foreste, mentre un incontro con loro nella vita reale somiglierebbe a un pestaggio o a un vandalismo in metropolitana nel buio delle sere d’inverno a danno degli sparuti viaggiatori delle ultime corse.

Queste baby gang sembrano una grottesca reincarnazione in un presente confuso di un passato che abbaiamo dimenticato. Non troppo diverse erano le bande di pastori/banditi che scorazzavano per il Lazio al tempo di Romolo e Remo e che vivevano in capanne sul colle Palatino. Quelle bande di reietti scacciati dagli altri villaggi alla lunga riuscirono a redimersi, non prima però di essersi procurati una compagnia femminile con metodi violenti che adombrano lo stupro -il ratto delle Sabine- poi fondendosi con le popolazioni circostanti latine e sabine e infine perfino procedendo a una fusione multietnica con gli stranieri oltre il Tevere, gli Etruschi. Un lieto fine, peraltro arrivato dopo secoli, alla fine del quale un’orda di maschi sbandati privi di ogni regola e legge si ritrovò a inventare il Diritto Romano dopo essere passati per tutte le fasi della civilizzazione: la legge della banda, poi il codice dell’onore e della reputazione di una élite guerriera raccolta intorno a un re e infine l’uguaglianza davanti alla legge di ogni cittadino. Nessuno più poté proclamarsi re e l’imperatore era solo un primo cittadino, il princeps.

Fu un percorso di secoli. Oggi invece i ragazzi delle baby gang ruzzolano al contrario nel fondo dell’inciviltà in pochi mesi. Si affacciano all’ adolescenza pieni di rabbia e di desiderio di affermazione e di autonomia e al tempo stesso bisognosi di rassicurazioni, di sentirsi accettati dai coetanei e trovano tutto questo in un gruppo a cui giurare fedeltà, in cui stabilire gerarchie basate sulla violenza e sulla predazione. Riproducono le dinamiche delle antiche società guerriere, non vedono una strada nel lavoro ma sperano di farsi largo percorrendo un destino di violenza. Vi sono perfino ragazze tra queste baby gang che si dedicano al vandalismo e all’aggressione di gruppo, così deludendo chi sperava nella funzione civilizzatrice del sesso femminile. Non era questa la parità che desideravamo.

Questo precipizio a ritroso non è una buona notizia. Non possiamo accontentarci dell’usuale lamentela della mancanza di prospettive e di speranze che le vecchie generazioni avrebbero riservato ai giovani, anche se molto di vero c’è in questo. Non bastano queste spiegazioni. Vi è una fascinazione propria della violenza che non dipende da nessuna mancanza e della quale dobbiamo essere consapevoli, ma in maniera diversa da quanto abbiamo fatto finora. Forse ci siamo troppo baloccati con Dioniso e con Nietzsche e con i vari pensatori che da un paio di secoli almeno hanno invocato da comode scrivanie una riscoperta delle radici animali dell’uomo, senza fare i conti che il Dioniso di Nietzsche non era un simpatico gaudente interessato al vino e all’amore ma un dio sanguinario attratto dalla strage e dal sangue. Il rito sacro a Dioniso era lo sparagmos, il sacrificio eseguito dilaniando a mani nude un animale o più raramente un essere umano, allo scopo di mangiarne le carni crude. Inebriandosi del fresco sangue della vittima, la Menade o l’iniziato ai misteri dionisiaci si riappropriava dello spirito primigenio della madre terra.

Questo desiderio di riappropriarsi della forza ferina è particolarmente intenso nell’adolescenza e in particolare in alcuni individui destinati a diventare i piccoli leader delle baby gang. Costoro nutrono un minore senso di colpa rispetto ai coetanei e questo gli consente di mettere in atto comportamenti antisociali o violenti, facendo da apripista per gli altri membri del gruppo. È la funzione iniziatoria e misterica dei capi. E la famiglia? Purtroppo quando la famiglia è debole, frammentata, con genitori poco autorevoli, allora maggiormente cresce la fuga dell’adolescente verso il gruppo. Sono dunque questi i due organi che devono reagire e arginare la forza destabilizzante dei gruppi di sbandati, la famiglia che deve tornare autorevole e la società che deve tornare a promettere un futuro ai giovani, affinché, come scriveva Cicerone, al termine di un lungo percorso di civilizzazione, “cedant arma togae, concedat laurea laudi”: “cedano le armi alla toga e alla fama ceda l’alloro [militare]”.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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