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Identità sessuale: definizione e analisi tra natura vs cultura

L' identità sessuale definisce la dimensione soggettiva della propria sessualità e deriva dall'interazione tra fattori bio-psico-sociali.

Di Guest

Pubblicato il 05 Lug. 2017

Aggiornato il 05 Ago. 2022 18:04

L’ identità sessuale descrive la dimensione individuale e soggettiva del percepirsi sessuati, ed è l’esito della complessa interazione tra aspetti bio-psico-socio-culturali (Bancroft, 2009). L’ identità sessuale è vista come un costrutto multidimensionale da Shively e De Cecco (1977) come da numerosi altri autori, che ne distinguono quattro componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Giulio Gambino 

 

Già prima della nascita, per molti genitori, il sesso del nascituro, sembra essere il “mistero” più importante da svelare. Si configura con la domanda più gettonata, tipica di qualsivoglia parente, amico, conoscente e perfino sconosciuto, che con aria incuriosita, con fierezza e voce squillante, guarda il pancione e domanda: ma è maschio o femmina?

Fin dal 400 a.C. Platone nel suo Il Convivio s’interrogava sul tema dell’identità e sugli elementi maschili e femminili presenti in ogni essere umano (Turolla, 1953). Esiste un bisogno profondo degli esseri umani di comprendere meglio questa componente della personalità che, a prima vista, può sembrare semplice nella sua divisione polarizzata maschio e femmina, ma che invece, attraverso un esame più profondo e articolato, evidenzia confusione e ambiguità.

L’ identità sessuale

Interrogarsi sull’ identità sessuale vuol dire porsi di fronte alla domanda sul proprio essere maschi o femmine (Batini, 2011).

La sessualità non può essere considerata come un’entità a sé stante, ma va inquadrata nel contesto biopsicosociale della personalità come ha dimostrato la psicoanalisi che, attraverso la scoperta delle sue origini nell’infanzia, ne ha sottolineato da un lato il significato centrale nello sviluppo umano, dall’altro ha dimostrato i rapporti tra disturbi sessuali e sessualità normale (Freud, 1905). Inoltre Freud già nel 1920 teorizzò la presenza di tre ordini di fattori nella sessualità: le caratteristiche sessuali, fisiche e psichiche e il tipo di scelta oggettuale (Freud, 2008).

Le classificazioni più recenti rintracciano nella componente psicologica un elemento interno denominato identità di genere ed un elemento esterno denominato comportamento sessuale. Nell’articolazione di quattro fattori principali si sostanzia la sessualità, tali fattori, detti psicosessuali, sono allo stesso tempo collegati e distinti tra loro: identità sessuale, identità di genere, orientamento sessuale e comportamento sessuale (Giberti & Rossi, 2004).

L’ identità sessuale descrive la dimensione individuale e soggettiva del percepirsi sessuati, ed è l’esito della complessa interazione tra aspetti bio-psico-socio-culturali (Bancroft, 2009).

L’ identità sessuale è vista come un costrutto multidimensionale da Shively e De Cecco (1977) come da numerosi altri autori (Rosario, Schrimshaw, Hunter, & Braun, 2006; Worthington, Navarrom Savoy, & Hampton, 2008) che ne distinguono quattro componenti: sesso biologico, identità di genere, ruolo di genere, orientamento sessuale.

Sesso biologico

Il sesso biologico viene determinato dalle caratteristiche fenotipiche che contraddistinguono la funzione riproduttiva degli individui: organi sessuali interni e esterni e i livelli ormonali, tra maschi e femmine (Giannini Belotti, 1980). Il sesso genotipico ha origine dall’intreccio dei cromosomi XY e XX, dando vita a una femmina o un maschio. Quando i cromosomi dell’embrione non sono specificatamente definiti come maschile o femminile, si parla di intersessualità. È necessario differenziare i soggetti intersessuali dagli ermafroditi che Batini (2011) definisce come “soggetti che possiedono genitali esterni fisiologici sia maschili che femminili” (p. 58).

I cromosomi determinano l’appartenenza biologica al sesso femminile o al sesso maschile: la coesistenza di due cromosomi X dà vita a una femmina, la presenza di un cromosoma X e un cromosoma Y dà vita a uno maschio (Ruspini, 2004).

Il sesso è determinato dall’uomo attraverso gli spermatozoi: gli androspermi, forniti di un cromosoma Y e i gimnospermi, forniti di un cromosoma X (Giannini Belotti, 1980).

Le fasi dello sviluppo del sesso biologico vedono:

La presenza di bipotenza sessuale degli embrioni, fino alla sesta settimana dopo il concepimento.
Dalla settima settimana avviene la diversificazione sessuale causata dalla presenza o assenza del cromosoma Y: se è presente, le gonadi si svilupperanno in testicoli dando origine agli organi sessuali maschili, se è assente, le gonadi si svilupperanno in ovaie originando gli organi sessuali femminili.

Lo sviluppo dei testicoli permetterà la secrezione di ormoni sessuali, in grado di completare lo sviluppo degli organi sessuali interni e esterni e se l’embrione non compirà tale funzione, rimarrà femminile anatomicamente (Ruspini, 2004).

Migeon et all. (2002) elaborano il modello del sesso biologico pensandolo come frutto dell’interrelazione di varie componenti: sesso cromosomico, sesso gonadico, sesso fenotipico, sesso dei genitali esterni, sesso ormonale e sesso cerebrale:

  • Sesso cromosomico: ha origine genetica e consiste nei cromosomi sessuali e geni tramandati dai genitori, determina il genotipo sessuale del feto, 46,XX femmina, 46,XY maschio, o intersessuale.
  • Sesso gonadico: è determinato dalla presenza del gene SRY del cromosoma Y. Le gonadi dapprima bipotenti, tramite l’azione del gene SRY si trasformano in testicoli e se assente come ovaie.
  • Sesso fenotipico: consiste nella presenza o assenza dei caratteri secondari, dei genitali esterni, e l’aspetto esteriore dell’individuo.
  • Sesso dei genitali interni: è determinato dalle gonadi e dai canali a essi collegati. I dotti Mulleriani originano le tube di Falloppio, l’utero e la porzione posteriore della vagina. I dotti di Wolf originano l’epididimo, i vasi deferenti e la vescicola seminale.
  • Sesso ormonale: è determinato dal rilascio di ormoni LH e GnRH dall’ipotalamo che agiscono sulle gonadi. Queste sintetizzano gli ormoni in estrogeni o androgeni, determinando lo sviluppo dei tessuti in femminile o maschile.
  • Sesso cerebrale: consiste nelle differenze anatomiche tra cervello maschile e cervello femminile in merito ai circuiti nervosi, comportamenti, capacità cognitive.

Allen, Richey, Chai & Gorsky (1991), hanno riscontrato che le capacità cognitive potrebbero essere influenzate dal corpo calloso, ovvero un fascio di nervi che collega gli emisferi, in quanto nei due sessi si presenta con forma differente.

Identità di genere

Batini (2011) offre una definizione di identità di genere intendendola come: [blockquote style=”1″]la relazione che un individuo ha con il proprio essere biologico, ovvero a come l’individuo si sente e si percepisce rispetto al proprio sesso biologico, adeguato o inadeguat[/blockquote]o (p. 21).

Il termine identità di genere è stato coniato ed usato nel linguaggio di ogni giorno dal sessuologo John Money et al. (1972) e dallo psicoanalista Robert Stoller (1968).

Stoller lavorava presso l’University of California e le sue ricerche lo portarono verso la formazione di un gruppo di lavoro psicoanalitico sull’identità di genere, dando un sostanziale contributo alla diffusione e all’espansione del termine nella psicoanalisi e nelle scienze sociali. Stoller affronta più attentamente le questioni attinenti a sesso, genere, ruolo e identità, evidenziando la peculiare distinzione tra sesso e genere, dove il sesso fa riferimento alla dimensione corporea, il genere invece lo colloca tra lo psichico e il culturale, in una posizione che potenzialmente non dipende dal sesso biologico ma dalla somma di elementi mascolini e femminini (Stoller, 1968; 1975). Stoller introdusse inoltre il termine identità di genere nucleare e lo considerò come prodotto della relazione bambino-genitore intendendo “il senso che abbiamo nel nostro sesso, di essere maschio nei maschi e di essere femmina nelle femmine” (Stoller, 1979, p.53). L’ identità di genere nucleare la descrisse come una struttura psichica non passibile di cambiamento dopo i 2 o 3 anni e derivata dal sesso in cui i bambini erano stati educati (Stoller, 1964). In seguito aggiunse che mentre l’identità di genere continua a svilupparsi in maniera intensa almeno fino alla fine dell’adolescenza, l’identità di genere nucleare è pienamente raggiunta prima che sia stata raggiunta la fase fallica (Stoller, 1979).

Stoller ha messo in evidenza, attraverso dati osservativi e clinici, che quando gravano aspettative non compatibili delle diverse figure di accudimento sul bambino, questo si sviluppa in un mondo di spinte conflittuali che influenzano il suo ruolo di genere e, in situazioni gravemente patogene, la sua identità di genere (Stoller, 1964).

Money lavorava presso la Johns Hopkins University a Baltimora, Maryland, USA e le sue ricerche erano incentrate prettamente sullo sviluppo psicosessuale dei bambini con anomalie cromosomiche, disturbi endocrini e ambiguità genitali. Money indicava con identità di genereil senso di se stesso, l’unità e la persistenza della propria individualità maschile e femminile intesa come esperienza di percezione sessuata di se stessi e del proprio comportamento” (Money & Ehrhardt, 1972, p.4).

L’identità di genere è uno degli elementi fondamentali del processo di costruzione dell’ identità sessuale e personale, un processo dinamico, malleabile, negoziabile, influenzato dalla cultura d’appartenenza, che determina un modo di vedere se stessi in relazione alla società. L’assegnazione ad una precisa categoria di genere avviene attraverso l’aspetto degli organi sessuali esterni che determinano sin dalla nascita il parametro su cui si basa l’assegnazione al sesso biologico. La categoria sessuale agisce sulla costruzione e sull’apprendimento dell’identità di genere: se il nascituro possiede gli organi sessuali femminili, crescerà come bambina, se possiede gli organi sessuali maschili, crescerà come bambino (Ruspini, 2004). Inoltre altri importanti elementi che determinano l’identità di genere sono i fattori culturali e sociali (Kessler, 1996).

Infatti, Ruspini (2004) ritiene che:

[blockquote style=”1″][…] per definire l’essere femminile o l’essere maschile, non è sufficiente l’appartenenza sessuale. La femminilità e la maschilità non sono esclusivamente stabilite dalle caratteristiche fisiche e biologiche, ma rivestono una fondamentale importanza la cultura e l’educazione. La costruzione dell’ identità sessuale si avvia attraverso l’assegnazione ad una precisa categoria sessuale in base all’aspetto dei genitali esterni come maschio o femmina. Tale riconoscimento è la genesi sulla quale andrà ad innestarsi il processo di apprendimento dell’identità di genere[/blockquote] (p. 88).

Il processo di apprendimento dell’identità di genere si attiva ed è determinato sulla base anatomica: ciò avviene mediante la sollecitazioni, imposte dalla cultura, dei comportamenti tipici e caratteristici dei ruoli di maschio e femmina, generando affetti, spinte emotive, e la percezione di appartenere a un genere piuttosto che all’altro. (Ruspini, 2004). I fattori biologici non sono gli unici indicatori che determinano l’appartenenza alla categoria uomo o alla categoria donna, ma esistono anche fattori sociali e culturali che determinano modi di essere tipici del sesso maschile e del sesso femminile. I bambini sin da piccoli vengono incoraggiati ad assumere comportamenti diversi in base al loro sesso biologico: imparano a dialogare, comportarsi e camminare nei modi tipicamente accettati dalla cultura di appartenenza (Lorber, 1994). L’atteggiamento dei genitori deriva dalle percezioni socialmente e culturalmente apprese, regalando giocattoli differenti, quali bambole e trucchi, alle femminucce, e automobili e costruzioni ai maschietti.

I genitori inoltre, tenderanno a spingere i figli verso ogni tipo di attività tipicamente e socialmente adeguata al genere, influendo nel processo di acquisizione dell’identità in quanto dipendente in parte dal ruolo di genere (Ruspini, 2004).

Cohen-Kettenis & Pfaffin (2003) mettono in evidenza il ruolo degli adulti che si pongono in modo differente di fronte ai bambini e alle bambine, incoraggiando e influenzando proporzionalmente le attività tipiche del sesso al quale si appartiene.

Alla fine del primo anno, nella reciproca interazione sociale tra bambino e famiglia, mascolinità e femminilità sembrano ben stabilite. Si osserva che tra il primo e il secondo anno i genitori rinforzino quei comportamenti che considerano opportuni e appropriati al ruolo sessuale del bambino e questo li apprende indipendentemente da qualsiasi motivazione interna. E infine, Lichtenberg (1989) sottolinea che tra i diciotto e i ventiquattro mesi, l’identità di genere è probabilmente stabilita in maniera salda e immutabile e a partire dai tre anni i bambini sviluppano guide interne per seguire il range di comportamenti precedentemente rinforzati.

Ruolo di genere

Volendo fornire una definizione di ruolo di genere, riprendiamo il pensiero di Batini (2011) il quale sostiene che:

[blockquote style=”1″][…] il ruolo di genere consiste nelle aspettative della società rispetto ai comportamenti appropriati di un uomo e una donna, ovvero tutto ciò che un uomo e una donna fa per manifestare nelle relazioni il proprio livello di mascolinità e femminilità[/blockquote] (p. 89).

A partire dall’insieme dei comportamenti e degli atteggiamenti tipici dell’essere uomo o essere donna, si definisce il ruolo di genere. I comportamenti e gli atteggiamenti suddetti strutturano le modalità relazionali e le percezioni delle sensazioni generate negli altri individui. Il processo di apprendimento del ruolo di genere si consolida tra i tre e sette anni, configurandosi come fase in cui bambini e bambine acquisiscono la conoscenza di ciò che è tipicamente maschile e femminile (Batini, 2011).

Come sostiene Priulla (2013):

[blockquote style=”1″]I ruoli sociali hanno retaggi antropologici legati alla biologia umana, alla struttura fisica e alla funzione generatrice femminile come agli ideali patriarcali dalla quale discende la culturale contemporanea. La divisione dei ruoli non avviene coscientemente. […] tutti coloro i quali non rispettano i ruoli sanciti dall’appartenenza al proprio sesso vengono stigmatizzati.[/blockquote] (p.35)

Money (1994) metteva in relazione l’identità di genere con il ruolo di genere affermando che fossero le due facce della stessa medaglia. Secondo il sessuologo il ruolo di genere è “ciò che una persona dice o fa per indicare il suo status di ragazzo o uomo, o di ragazza o donna” (Money, 1994, p.22). Continua affermando che “nel linguaggio teatrale, il ruolo di genere non è semplicemente un pezzo di carta presentato da un attore, ma un ruolo incorporato nell’attore, il quale, trasformato da questo, lo incorpora e lo manifesta attraverso se stesso” (Money, 1994, p.24).

L’identità di un soggetto è definita dal ruolo di genere e da ciò che la società e la cultura d’appartenenza ritiene adeguato per maschi e femmine. La donna è sempre stata considerata nel suo ruolo di madre e di cura della prole, l’uomo dal ruolo professionale e dallo status economico. La società impone, sulla base dei valori culturali, degli atteggiamenti e dei comportamenti adeguati al genere maschile o femminile (Priulla, 2013).

L’individuo che non si stabilizza in base ai ruoli decisi dalla società ed appartenenti al proprio sesso è a rischio stigmatizzazione. Tale rischio si pone in relazione alla cura del proprio corpo, alla modalità con cui il soggetto si relaziona al sesso opposto nonché al proprio orientamento sessuale (Priulla, 2013).

ncora oggi quando si parla di ruolo di genere ci si riferisce a modi, comportamenti e tratti di personalità che la società, la cultura ed il periodo storico ha stabilito come mascolini o femminini (Zucker, 2002).

Money (1972) affermava che l’identità di genere è l’esperienza privata del ruolo di genere mentre il ruolo di genere è l’espressione pubblica dell’identità di genere.

Il ruolo di genere è trattato come un surrogato delle cognizioni sociali che modificano in modo casuale i comportamenti. Tutto questo ha un enorme impatto per gli individui con identità di genere incerte, in quanto ha avuto sostanziali implicazioni a livello del trattamento: se il sesso fosse considerato la base naturale, allora la psicoterapia avrebbe dovuto aiutare i pazienti ad accettare la propria natura; se invece fosse stato considerato il genere come base naturale, allora il trattamento per la riassegnazione del sesso sarebbe stato possibile (Pfafflin, 2011).

Durante lo sviluppo, il bambino acquisisce l’abilità di riconoscere il genere sessuale che si pone come base fondamentale nello sviluppo del ruolo di genere. I bambini pongono in essere i comportamenti sessuali tipici solo dopo aver compreso l’irreversibilità del proprio sesso, che viene denominato costanza di genere (Kohlberg, 1966).

Nell’economia di questo lavoro è utile sottolineare e tenere presente che, a livello squisitamente psicopatologico, il disagio derivante dall’incongruenza tra la propria identità sessuale e il sesso assegnato alla nascita viene indicato con l’espressione: disforia di genere (Steensma, Biemond, Boer, & Cohen-Kettenis, 2011).

La costanza di genere si sviluppa attraverso diverse fasi. Dapprima il bambino comincia a riconoscere il proprio sesso e quello degli altri, poi perviene all’idea che il genere è stabile nel tempo ed infine si rende conto che il genere sessuale è permanente e non dipende da aspetti apparenti o dalle attività che si praticano (Slaby & Frey, 1975).

Weinraub et al. (1984) ha rilevato che gli atteggiamenti del padre verso la madre, influiscono sulle attività scelte dal bambino e nello sviluppo del suo ruolo di genere.

Fagot (1978) non trovò alcuna relazione tra rinforzo da parte del genitore di fronte a comportamenti tipicamente maschili e femminili e la messa in atto di tali in bambini di due anni, ma trovò una forte relazione tra la comprensione delle etichette da parte del bambino e la reazione dei genitori a comportamenti sessuali tipizzati, evidenziando inoltre una relazione tra la comprensione delle etichette di genere da parte del bambino e l’adozione di ruolo di genere. Fagot inoltre affermava che la costruzione dello schema di genere riflette non solo il ruolo inteso come comportamento, ma anche gli aspetti prettamente cognitivi e la sfera affettiva ricevuta dall’ambiente familiare.

Orientamento sessuale

L’orientamento sessuale, scrive Batini (2011):

[…] [blockquote style=”1″]si riferisce all’attrazione affettiva e sessuale da parte di un individuo verso altri individui che possono essere del suo stesso sesso, del sesso opposto o di entrambi. In relazione al proprio orientamento sessuale le persone vengono etichettate come eterosessuali, quando si è attratti dall’altro genere rispetto alla propria identità sessuale, omosessuale, quado si è attratti dallo stesso genere rispetto alla propria identità di genere e infine bisessuale, quando si è attratti da entrambi i generi[/blockquote] (p. 95).

L’American Psychological Association (2008) definisce l’orientamento sessuale come la tendenza stabile a sentirsi attratto dal punto di vista affettivo-emozionale, sentimentale e sessuale verso uno o più sessi. Si individuano, inoltre, orientamenti sessuali diversi dall’eteronormatività sociale, finalizzata alla sopravvivenza della specie attraverso l’atto riproduttivo, ovvero l’omosessualità e la bisessualità.

L’eterosessualità viene considerata normale e generalmente sostenuta dalla cultura dominante, istituzionalizzandola come unico orientamento sessuale socialmente riconosciuto e incoraggiando i giovani a plasmarsi in tale direzione.

Le persone che si sono considerate eterosessuali possono percepire, durante la vita, un cambiamento di rotta sentendosi attratti da individui dello stesso sesso, modificando il proprio orientamento sessuale da etero a omosessuale o bisessuale, se attratti da individui di entrambi i sessi. Quindi, l’orientamento sessuale di ciascun individuo, mutando anche più volte nel corso della vita, si deve considerare come un processo di costruzione dinamico non immutabile che si verifica nel corso di tutta l’esistenza (Ruspini,2004).

L’APA (2008) afferma che sarebbe alquanto semplicistico ridurre orientamento sessuale su un continuum che va dall’eterosessualità all’omosessualità passando per la bisessualità. Sarebbe più corretto considerare l’orientamento sessuale come un costrutto multidimensionale in cui convergono molti fattori: comportamento sessuale, attrazione, fantasie sessuali, preferenze sociali ed emotive, autoidentificazione e stile di vita (Klein, 1993). Questo significa che possono esistere differenze tra le fantasie e i comportamenti o tra innamoramento e attrazione. Graglia (2009) afferma che ci si può eccitare davanti scene omosessuali, ma infine innamorarsi solo di persone dell’altro sesso.

Parlando dei fattori determinanti l’orientamento sessuale non esiste una spiegazione scontata, si deve lasciare il territorio del sesso genetico-biologico-fisiologico per addentrarsi nel territorio del sesso culturale-sociale-storico-linguistico e cioè come ogni cultura, in un determinato momento storico, organizzi e costruisca i significati relativi all’appartenenza al sesso maschile o femminile (Foucault, 1978).

Graglia (2009) prova a concettualizzare l’orientamento sessuale tramite una metafora: “[blockquote style=”1″]l’orientamento sessuale può essere rappresentato come una bussola che indica la direzione sentimentale e erotica; chi è portato verso persone del proprio sesso, come chi è portato verso persone dell’altro sesso, può scegliere se contrastare questa direzione e con quale modalità farlo, se comunicare tale direzione ad altri, ma non può scegliere la specifica direzione della bussola[/blockquote]” (p. 20).

L’orientamento sessuale di gay, lesbiche e bisessuali quando è considerato come deviante, conduce verso il campo delle stereotipie e dei processi di stigmatizzazione. L’ostilità nei confronti di coloro i quali “deviano”, deriva infatti dalle credenze eteronormative che impongono la visione dell’eterosessualità come l’unico atteggiamento accettato e accettabile. La considerazione negativa nei confronti di gay, lesbiche e bisessuali causano la diffusione di miti per nulla fondati e scarsi di verità, come quelli che vedono gli omosessuali solamente giovani o di mezza età, principalmente intenti alla cura della loro bellezza e con redditi elevati, quando in realtà esiste anche una moltitudine di omosessuali anziani, di omosessuali con basso reddito e omosessuali che non curano spasmodicamente la loro bellezza. (Anderson, & Taylor, 2004).

Attualmente vengono distinti specificatamente l’orientamento sessuale e l’ identità sessuale. Quest’ultima viene intesa secondo l’accezione del riconoscimento e internalizzazione del proprio orientamento sessuale, comprendendo quindi vari elementi come l’autoconsapevolezza, l’autoetichettatura, il sentirsi parte di un gruppo e di una cultura, l’accettazione, l’auto-stigmatizzazione, con importanti conseguenze sulla presa di decisione nella formazione di supporto sociale, modelli di ruolo, amicizie e rapporti interpersonali di vario genere (American Psychological Association, 2012; Kinnish, Strassberg & Turner, 2005; Morris, 1997).

L’orientamento sessuale non può dunque essere concepito in maniera lineare, ma più come una mappa personale in cui le dimensioni considerate si compongono in modo del tutto soggettivo (Kinnish, Strassberg, & Turner, 2005; Le Vay, 2015).

Categorizzazione dicotomica del sesso biologico

Nella società Italiana l’ identità sessuale, intesa nella concezione di sesso biologico, è vista come una caratteristica molto importante e basilare per descrivere primariamente ogni essere umano. L’interpretazione che facciamo della realtà si basa non solo sulla percezione che abbiamo di ciò che ci circonda, ma anche sulle categorizzazioni che abbiamo precedentemente generato dell’ambiente (Hampton, 2000).

La mente umana è protesa a cercare scorciatoie per avvicinarsi di più al principio del risparmio energetico, decodifica e classifica i nuovi eventi e le nuove informazioni con categorie mentali prestabilite, culturalmente e socialmente apprese. Ognuno percepisce ciò per cui è preparato o predisposto a percepire. La cosiddetta euristica della disponibilità ci spiega come la nostra mente non tenda a costruire nuove forme mentali per ogni nuova informazione, ma tenda a utilizzare forme mentali già precedentemente esistenti per l’interpretazione e la percezione delle nuove informazioni. Anche l’euristica della rappresentatività aiuta la mente a trovare scorciatoie per classificare eventi, oggetti ed individui, impiegando stereotipi e somiglianze. In altri termini, tendiamo a valutare un nuovo evento sulla base di esempi concreti simili che ci vengono in mente (Kahneman, 2012).

Le categorie, che costituiscono la nostra forma mentis, costruite sulla base delle esperienze pregresse, tendono ad essere piuttosto rigide, poco duttili, poco malleabili e modificabili. Pertanto alcune informazioni contenute in esse, essendo maggiormente radicate nell’individuo, assumono un carattere di assolutezza, con la conseguente perdita di elementi della realtà che contraddicono la realtà stessa. In tal senso, gli studi di Festinger (1957), definivano la dissonanza cognitiva come la tendenza per cui, elementi della realtà che contraddicono un’aspettativa relativa ad uno specifico fenomeno tendono ad essere ignorati, per permettere il mantenimento della rappresentazione del fenomeno stesso.

Una delle categorie più rigide e tendenzialmente più stabili e radicate, è costituita dalla differenziazione binaria maschio/femmina, che istituisce una differenziazione cui facciamo riferimento in modo inconsapevole: cioè siamo sempre in grado di attribuire a quel soggetto un’ identità sessuale, a partire da pochi elementi specifici. Secondo tale paradigma, ad ogni “sesso” corrisponde un certo tipo di caratteristiche morfologiche specifiche, che non sono mai presenti nei fenotipi opposti. Oltre a possedere un corpo specifico, ogni “sesso” possiede un pattern di comportamenti ed atteggiamenti che permettono al resto della società di inserire ogni individuo nelle categorie maschio o femmina (Irigary, 1985; Fausto-Sterling, 1993).

A tal proposito Freud (1905) criticò, già più di cent’anni fa, tale visione, scrivendo che fosse necessario pervenire alla consapevolezza di ciò che è definibile nei termini di maschio e femmina, in quanto appartengono nella scienza ai concetti più confusi, sebbene il contenuto di questi appaia privo di ambiguità all’opinione comune.

Sex and Gender

Gayle Rubin nel 1975 introdusse il termine “genere” chiamandolo Sex-gender system.

Rubin con l’espressione Sex Gender System intendeva “[blockquote style=”1″]l’insieme dei processi, delle modalità di adattamento, di comportamento e di rapporti, con i quali la società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana, organizzando la divisione dei compiti tra uomini e donne, differenziandoli l’uno dell’altro e creando quindi il genere[/blockquote]” (Piccone Stella & Saraceno, 1996, p. 7).

Il saggio di Rubin sottolineava lo squilibrio causato della gerarchia tra i sessi, che conduceva verso prevaricazione, oppressione e violenza delle donne. Già Ann Oakley nel 1972 descrisse un concetto molto simile a quello di Sex-gender system (coniato da Rubin), in cui il sessosi riferirebbe alla diversificazione biologica e anatomica tra maschio e femmina, il concetto di genere sarebbe una questione culturale e quindi di interesse sociale” (Busoni, 2000, p 126).

Nell’ambito del femminismo, della sociologia e della gender e queer theory, si ritiene che non si possa scindere il sesso ed il genere secondo la dicotomia tra le categorie di natura e cultura, ma nonostante questo, il concetto di genere viene considerato maggiormente importante rispetto a quello di sesso, in quanto la divisione sociale viene posta in essere attraverso l’attribuzione di un significato particolare a certe caratteristiche anatomiche (Kessler & McKenna, 1978).

Come afferma Anne Fausto-Sterling (2000) questo non significa sostenere che “[blockquote style=”1″]le persone creano i corpi. […] significa che creano il sistema che li divide, e un sistema con soltanto due corpi non è l’unico possibile[/blockquote]” (pp.286-287).

Se non esistessero, all’interno della società, due categorie di genere distinte, non sarebbe necessario attribuire a determinate caratteristiche anatomiche un significato particolare. Il corpo assume invece un genere, proprio perché nel contesto sociale e culturale occidentale è in vigore una divisione in soli due gruppi. Le caratteristiche del corpo diventano particolari indicativi significativi, poiché vengono interpretati sulla base della divisione sociale esistente tra maschi e femmine, e collegati a preconcetti culturali che riguardano tali categorie. In tal senso la divisione degli individui in gruppi separati sulla base della differenza sessuale, tipica della società occidentale, non è affatto necessaria, immutabile o naturale, ma un prodotto sociale. Tutto questo viene sottolineato dagli studi di Judith Lorber (1993) che afferma che l’attribuzione di un genere alle persone non deriva dalla fisiologia o dagli ormoni, ma da esigenze di ordine sociale. Secondo tali studi non esiste nessuna caratteristica fisica né alcun tratto comportamentale, che appartiene in maniera esclusiva a un solo sesso e che quindi permetta la distinzione precisa tra donne e uomini. Come evidenzia Judith Lorber (1993): “[blockquote style=”1″]In realtà, il materiale corporeo essenziale è lo stesso per femmine e maschi, e, a parte organi e ormoni legati alla procreazione, gli esseri umani femmine e maschi hanno corpi simili[/blockquote]” (pp. 568). Eppure nella nostra società occidentale, abbiamo due sessi e due generi distinguibili perché la nostra società si fonda su due classi di persone, uomini e donne: ogni cosa relativa a una donna è femminile; ogni cosa relativa a un uomo è maschile.

Il concetto di genere nella lingua italiana ha una valenza molto sommaria che potrebbe generare una forte ambiguità. Deriva dal latino “genus”, che rimanda all’ambito semantico del “generare” e riflette una moltitudine di significati. Prendendo in considerazione la definizione che fornisce il Dizionario della Lingua Italiana Treccani (2015),

genere s.m. 1. Nel suo sign. Più ampio, termine indicante una nozione che comprende in sé più specie o rappresenta ciò che è comune a più specie […], In filosofia, categoria di oggetti che hanno in comune proprietà essenziali mentre differiscono per proprietà non essenziali […]. 2. Nel linguaggio com., l’insieme dei caratteri essenziali per cui una cosa è simile ad altre o differisce da altre […] 3. Categoria grammaticale esistente nelle lingue indoeuropee, semitiche e in molte altre famiglie linguistiche, alcune delle quali distinguono tre generi, maschile, femminile e neutro […].

Possiamo facilmente renderci conto che, queste tre definizioni, non ci forniscono un significato unitario e condiviso del termine in questione. La prima non si riferisce a ciò che la nozione di genere vuole trasmetterci, la seconda e la terza riguardano ambiti troppo specifici della lingua italiana e del linguaggio parlato e quindi non utili per descrivere un concetto così importante.

Sherry B. Ortner & Harriet Whitehead (2000) definiscono il genere come “[…] ciò che gli uomini e le donne sono, i tipi di relazioni che si instaurano o si dovrebbero instaurare tra loro” (p. 201). Inoltre affermano che essi non sono solo lo specchio dei dati biologici o le elaborazioni di questi ultimi, ma innanzitutto prodotti delle norme sociali e culturali. Gli autori inoltre evidenziano che la relazione tra sesso e genere non è biunivoca, infatti nella nostra società diamo un’educazione distinta ai due sessi in base alle norme socialmente accettate, che ci forniscono l’idea di come si dovrebbero comportare i ragazzi e le ragazze.

Ciò che la società si aspetta da tutti noi diventa il nostro modo di essere; la nostra identità pone le sue origini sulle caratteristiche attribuite al gruppo al quale facciamo parte (Busoni, 2000). Secondo questa prospettiva il genere è attribuibile a un uomo e a una donna in quanto esseri sociali, inseriti in un contesto normativo e relazionale. Le parole di Mila Busoni (2000) esprimono pienamente tale concetto:

In sintesi, essere uomini non significa avere un sesso maschile, come essere donne non significa avere un sesso femminile. Essere uomini o donne è piuttosto il convergere di senso esperenziale di sé e di percezione del mondo, vale a dire ciò che si è appreso ad essere nelle relazioni sociali, nei rapporti con gli altri (p. 88).

Linda Nicholson (1996) definisce il rapporto stretto tra biologia e socializzazione, che si trova nella prima concezione di genere ereditata dalle teorie femministe degli anni sessanta e settanta, come visione attaccapanni dell’ identità. Il corpo è considerato simile ad un attaccapanni sul quale prendono posto differenti costruzioni socioculturali, come quelli che riguardano personalità e comportamento. La forma propria dell’attaccapanni influisce marginalmente su ciò che viene appreso.

I postulati fin ora esposti ritengono l’ identità sessuale un fenomeno transculturale. Esiste una comunanza biologica prodotta dai dati materiali del corpo, ovvero il pene per determinare l’appartenenza alla categoria dell’uomo e la vagina per determinare l’appartenenza alla categoria della donna. Linda Nicholson (1996) attraverso la sua idea di Fondamentalismo Biologico, afferma che l’ identità sessuale, comune alle varie culture e costruita socialmente, si unisce alla concezione del sesso come distinto dal genere tramite l’idea che le distinzioni naturali fondino e producano l’identità umana.

Gli Stereotipi di genere nell’ identità sessuale

L’ identità sessuale nasce come costrutto che rappresenta un’esigenza di stabilità, di ordine e coerenza, per cercare di strutturare una componente dell’ identità individuale e rassicurare l’individuo attraverso una categorizzazione di sé, nonostante le esperienze siano molto più fluide ed imprevedibili di quanto si possa pensare (Bancroft, 2009; Kinnish, Strassberg & Turner, 2005). La classificazione dicotomica e polarizzata tra omosessualità ed eterosessualità è stata definitivamente superata e surclassata in favore di un criterio moderno che considera come criterio definitore dell’identità, la complessità dell’esperienza soggettiva (Bancroft, 2009; Sandfort, 2005).

Tra gli aspetti più rilevanti del costrutto dell’ identità sessuale è funzionale introdurre il concetto di stereotipo di genere inteso come credenza semplificata che viene applicata a specifiche categorie di persone e rappresenta il nucleo soggettivo del pregiudizio (Pavlova, Wecker, Krombholz, & Sokolov, 2010), ovvero un giudizio di valore assunto a priori che è in grado di dirigere l’azione sotto forma di pratiche più o meno violente ed esplicite di discriminazione (Blair, 2002).

Gli stereotipi di genere influenzano profondamente il pensiero collettivo, riempiendo di contenuti specifici le convinzioni e le idee di un determinato gruppo sociale rispetto a donne e uomini e ai rapporti tra essi (Ruspini, 2004).

Gli stereotipi indirizzano la classificazione di ogni soggetto in classi definite in relazione alla concezione di ciò che è considerata maschile e femminile (Kite & Whitley, 1998). I soggetti che mostrano tratti del sesso opposto vengono definiti gay o lesbiche (McCreary, Newcomb, & Sadava, 1998). Tali soggetti omosessuali sono spesso colpiti da stereotipi negativi (Prati & Pietrantoni, 2009; Smiler, 2004). Da questa prospettiva si evince che coloro che posseggono caratteristiche e comportamenti del sesso opposto non vengono percepiti positivamente, a causa della visione duale che l’eteronormatività impone (Kite & Whitley, 1998). Le convinzioni stereotipiche orientano condotte e comportamenti verso coloro i quali non rispecchiano l’idea culturalmente appresa di uomo/maschilità e donna/femminilità, caratterizzandoli in una maniera non consona e non veritiera che non riflette la realtà, in quanto ogni persona vive il proprio orientamento sessuale in modo diverso e del tutto soggettivo (Sandfort, 2005).

Gli stereotipi hanno uno strano destino; la gente comune si accorge che esistono solo quando sono dirette verso il proprio gruppo di appartenenza e soprattutto se le attribuzioni che propongono hanno valenza negativa (Arcuri & Cardinu, 2011).

Gli stereotipi di genere detengono un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità e delle relazioni sociali e agiscono su alcune componenti dell’ identità sessuale, come l’orientamento ed il ruolo, attribuendo loro caratteristiche di rigidità e stabilità che recenti ricerche hanno invece contraddetto (Diamond & Butterworth, 2008; Sandfort, 2005). La filosofia dello stereotipo di genere vuole che, partendo dalla dimensione dell’identità di genere, si debbano rispettare rigide e specifiche caratteristiche e che chi non vi si adegua sia in qualche modo inferiore o sbagliato. L’ identità sessuale e le sue manifestazioni non sarebbero fisse nel tempo, ma soggette a cambiamenti dovuti a variabili personali individuali, sociali, culturali e situazionali (Dettore & Lambiase, 2011). Gli stereotipi di genere proprio per la loro rigidità condizionano lo sviluppo dell’ identità sessuale di una persona, in quanto ne limitano l’esplorazione e la plasticità nella definizione (Dèttore & Lambiase, 2011; Kinnish, Strassberg, & Turner, 2005).

Gli stereotipi sono definiti da ciò che ciascuno di noi si aspetta da entrambi i sessi, ovvero dalle condotte dei maschi e delle femmine: i maschi non sono timorosi, appaiono forti, impavidi e determinati, le femmine appaiono dolci, timorose e sensibili (Ruspini, 2004).

L’ identità sessuale nelle sue ultime concettualizzazioni sembra quindi non essere considerata come un costrutto stabile, ma piuttosto come un costrutto che si acquisisce nel corso dell’intero sviluppo e per tappe successive subendo molte influenze, e, anche quando stabilita, non è definitivamente cristallizzata, ma può essere soggetta a disforie e successivi riassestamenti (Bancroft, 2009; Diamond, 2008).

Graziella Priulla (2013) afferma che:

le appartenenze di genere sono spesso decodificate attraverso l’utilizzo di stereotipi definendoli come dei processi di astrazione e di definizione della realtà che collegano una o un gruppo di caratteristiche a una categoria o gruppo, sulla base di una limitata e insufficiente informazione o conoscenza. Inoltre funziona mettendo a fuoco gli aspetti salienti, articolando intorno ad essi tutto il resto e lasciando nell’ombra gli elementi che porterebbero a una disconferma dell’immagine di base (p. 333).

Critiche sulla differenziazione binaria per definire l’ identità sessuale

La condizione di intersessualità, termine usato per descrivere quelle persone i cui cromosomi sessuali e i genitali non sono definibili come esclusivamente maschili o femminili, sconvolge letteralmente la nostra categoria di differenziazione binaria, inserendo la questione degli stereotipi di genere come elemento centrale rispetto al quale le persone si confrontano per definire la propria identità sessuale. L’ identità sessuale non sempre coincide con il sesso biologico (genetico, ormonale, fenotipico) e con il sesso attribuito. Il termine “genere” è stato utilizzato per la prima volta negli anni cinquanta per distinguere l’ identità sessuale dall’anatomia dei genitali, ovvero per differenziare la categoria anatomo-biologica di appartenenza (sex), dalle categorie psichiche di maschile e femminile (gender), cosi come vengono a “costruirsi” nella cultura sociale e ad articolarsi nei contesti relazionali (Petruccelli, Simonelli, Grassotti & Tripodi, 2014).

Il genere, tipicamente descritto in termini di mascolinità e femminilità, è una costruzione sociale che varia tra le diverse culture e nel tempo (Wood, 1997).

Il genere è per Butler (2004) “un’aspettativa che finisce per produrre proprio il fenomeno atteso” cioè la differenza sessuale (p.19).

Le categorie maschili e femminili si configurano come poli opposti di un continuum tra i quali potrebbero collocarsi una moltitudine di categorie intermedie non socialmente riconosciute (Ruspini, 2004). Esistono, ad esempio, alcune culture in cui il sesso ed il genere non sono sempre nettamente divisi dicotomicamente, come maschio e femmina, oppure come omosessuale ed eterosessuale. In Arizona è presente un popolo nativo americano conosciuto come Navajo. All’ interno di tale popolo, alcuni uomini chiamati Bardaches, vengono categorizzati in un terzo genere, ed è permesso loro di sposare altri uomini. Questo, nella loro società, differentemente dalla cultura occidentale, non è definito omosessualità, uomini donne e Bardaches coesistono all’interno di un’unica cultura (Andersen & Taylor, 2004). Questa terza categoria si riferisce ad individui biologicamente maschi ma che assumono i tipici atteggiamenti e comportamenti del sesso opposto, lavorando e vestendo essenzialmente come delle donne. I Bardache del Nordamerica, i Fa’afafine nel Pacifico ed i Kathoey in Tailandia, sono tutti esempi di diverse categorie di genere che differiscono dalla divisione, categorizzante, dell’occidente. Anche tra gli africani e gli indiani americani esistono società con un terzo genere chiamato donne dal cuore maschile, ossia donne biologicamente femmine ma che assumono condotte ed atteggiamenti stereotipicamente maschili (Lorber, 1994).

Mi sorge una domanda spontanea: perché allora non vedere maschio/femmina, uomo/donna, come poli opposti di un continuum al cui interno poter ‘sistemare’ tutte le varietà tipologiche di identità sessuale, di identità di genere e perché no, anche di orientamenti sessuali? È evidente che molte culture, a noi più remote, hanno adottato molteplici approcci per distinguere le fluidità e la complessità del genere e del sesso biologico, perché questa visione non può esser adottata dalla nostra cultura? Sono comunque del parere che, negli ultimi decenni, si stiano realizzando dei consistenti passi avanti, in quanto la decostruzione dei generi sta allentando le costruzioni binarie, contribuendo a smontare lo stereotipo di un’omosessualità condizionata dal genere, ampliando semmai dimensioni di genere multiple e queer (Lingiardi & Vono 2012).

 

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