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Depressione in Occidente: per superarla bisognerebbe imparare dagli immigrati

E' tra gli immigrati che va cercato un modello alternativo alla depressione: essi partono con poche speranze eppure la paura del futuro non pare bloccarli

Di Giovanni Maria Ruggiero

Pubblicato il 17 Gen. 2017

La depressione non è una tristezza, sia pure estrema. Nella tristezza vi è il dolore di una perdita. Il senso del vivere è conservato, sebbene il suo oggetto sia perduto. La depressione è invece il vuoto di un’assenza di senso che precede ogni perdita. Non vi è dolore, semmai una sconfinata anestesia e una noia sterminata. Ci può essere angoscia, ma non tristezza.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 14 Gennaio 2017

 

Si dice che in occidente siamo depressi. È possibile che il benessere determini un’angosciosa perdita di senso? Nati per affrontare i pericoli e sopravvivere a una natura ostile, in un mondo di benessere senza pericoli non sappiamo bene di cosa preoccuparci. E quindi ci annoiamo e ci deprimiamo.  Forse per questo non facciamo più figli: non sappiamo bene perché mai farli. Le difficoltà economiche, che pure in parte ci sono, non spiegano tutto e a pensarci bene non spiegano nulla, dato che in passato l’umanità si è moltiplicata in condizioni di sussistenza economica ben più severe delle crisi attuali. La crisi demografica ogni anno che passa si avvicina e diventa sempre meno una bislacca ossessione da dandy-reazionari e sempre più una preoccupazione dei governi, terrorizzati dalla scarsa sostenibilità dei sistemi pensionistici e del soccorso sociale in uno scenario di desertificazione demografica.

Entro il 2030 ci sarà una regione grande quanto la Toscana, composta solo da ultrasessantacinquenni. E questo non è solo un problema italiano o spagnolo, ma ormai europeo. Anche in Germania ci si sta accorgendo della pericolosità dell’invecchiamento crescente della popolazione. Tutto questo però non lo rende ancora un problema sentito dalle masse, ancora convinte di vivere in un eterno presente aproblematico e noioso. È un fenomeno nuovo questo disincanto di popolo, questi supermercati affollati di distaccati filosofi cantori del momento presente, di consumatori sempre più consapevoli e verdi e sempre più amici di animali domestici, decisissimi a non voler altro nella vita che un cane o un gatto e non un bambino. Cultori di conversazioni elegantissime, in cui nessuno osa più mettere il becco nelle solitarie scelte di vita privata altrui, parliamo ormai solo di cibo e coltiviamo un’esistenza cinica, proprio nel senso tecnico che la parola assume in filosofia, un’esistenza distaccata da tutto simile a quella di Diogene nella sua botte.

In Giappone sono ancora più avanti di noi occidentali. Hanno rinunciato non solo alla prole, ma perfino ai partner. La depressione orientale sa toccare i confini ultimi del distacco. Non solo gli adolescenti hikikomori chiusi in casa tutto il giorno e intenzionati a non intrecciare relazioni con nessuno, neppure per una breve chiacchierata con un conoscente. Anche gli adulti giapponesi riescono a vivere vite sempre più solitarie e paradossalmente asessuate. Pare che il 49 per cento dei giapponesi di età compresa tra 18 e 34 anni non ricerchino alcun tipo di relazione sentimentale, il 30 per cento delle persone sotto i 30 anni non sia mai uscito con nessuno e infine che più del 40% per cento dei giovani single in Giappone è vergine. A farcelo sapere è il National Institute of Population and Social Security Research giapponese.

La moltiplicazione della prole degli immigrati e il crollo demografico del prospero Giappone stanno lì a suggerirci che il fare o non fare figli non sia connesso con le difficoltà economiche, ma con il senso di attaccamento alla vita, con la volontà -che possiamo definire illusoria con la nostra saggezza risaputa- di osservare un orizzonte che vada al di là dell’esistenza individuale.

Forse è tra gli immigrati che va cercato un  modello alternativo alla depressione, un modello di psicologia positiva che non si limiti alla ricerca del solo benessere immediato. L’aspetto puramente edonico del benessere individuale analizza la sola dimensione del piacere, benessere personale legato a sensazioni ed emozioni positive. Una prospettiva più ampia e più, perdonate il termine ostico, eudaimonica, privilegia invece la realizzazione delle potenzialità non solo individuali ma anche sociali secondo il vecchio concetto aristotelico di eudaimonia. Parolone che è un po’ un ricordo del liceo classico? Certo, ma anche qualcosa in più, se ci intendiamo sul fatto che l’eudaimonia comprende non solo la soddisfazione individuale, ma anche l’integrazione con il mondo circostante. Eudamonia è mutua influenza tra benessere individuale e collettivo.

Per quanto ne sappiamo il migrante parte con pochissime speranze concrete ed è quindi l’esempio umano su cui la paura del futuro –e il tramonto d’occidente- non pare far presa. Privo di calcoli e di bilance sulle quali misurare attentamente quanto davvero possa permettersi di affrontare un viaggio così pieno di rischi, è altrettanto meno impaurito di far figli e, almeno per il momento, li fa. Privo della nostra saggia miopia che ci induce a costruire piani di vita chiusi nel nostro orizzonte individuale, vede nei figli un prolungamento di sé che lo immette in una storia più ampia e meno immiserita dal perseguimento della sola felicità individuale. Non è affatto detto che l’alternativa alla depressione sia la sola capacità di godersi il momento presente, come predicano alcune filosofie orientali che sempre più attecchiscono tra noi occidentali. Accanto al momento presente, ci può essere una capacità di orientarsi che vada al di là dell’orizzonte individuale.

Tuttavia pare che questi stessi immigrati, fin troppo rapidi a integrarsi, stiano mostrando cali demografici altrettanto rapidi dei nostri una volta che siano approdati sulle nostre sponde fatali, depresse e disincantate. Che fare? Non è semplice. Probabilmente è ancora troppo presto per preoccuparsi davvero, abbiamo davanti a noi almeno altri vent’anni buoni nei quali il calo demografico sarà ancora un problema invisibile. Possiamo continuare a deprimerci elegantemente con il nostro inimitabile stile, quello stile che i poveri della terra ci invidiano. Chissà se ne vale la pena.

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Giovanni Maria Ruggiero
Giovanni Maria Ruggiero

Direttore responsabile di State of Mind, Professore di Psicologia Culturale e Psicoterapia presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna, Direttore Ricerca Gruppo Studi Cognitivi

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